I FIGLI DELL'ARIA
La benda era
caduta dinanzi agli occhi dei due europei: la doppiezza e l'astuzia della razza
mongola ancora una volta avevano vinto.
Le promesse e
le gentilezze del magistrato, non avevano avuto che uno scopo solo: quello di
addormentare gli europei, cullandoli in una fallace speranza di libertà.
Condannati a
morte dai mandarini, onde evitare che potessero in qualche modo informare
l'ambasciata, il miserabile magistrato li aveva indegnamente ingannati,
affinché la giustizia potesse avere il suo corso senza sorprese inaspettate.
Per maggior
precauzione, quantunque camuffati da cinesi, quel briccone li aveva tratti
lontani dalla capitale, per impedire che nessun europeo potesse intervenire.
Se una tale
esecuzione poteva suscitare dei sospetti a Pechino, a Tong non doveva trovare
ostacoli.
Il colpo,
abilmente preparato, come si vede era riuscito pienamente e fra pochi minuti le
teste del cosacco e del russo dovevano, al pari dei deliquenti cinesi, cadere
sotto un buon colpo di scimitarra, per venire poi esposte in qualche gabbia
appesa su una pubblica piazza.
Rokoff,
comprendendo che la sua esistenza stava per finire, era stato preso da un tale
eccesso di furore, da temere che demolisse la gabbia e si scagliasse, come una
belva feroce, contro la folla urlante. Il cosacco, sapendosi innocente, non
voleva morire senza lotta, né invendicato.
Spezzato, con
uno sforzo supremo, un bambù della gabbia, aveva allungato un braccio tra le
traverse, tempestando le zucche pelate del popolaccio che si accalcava intorno
al carro.
Erano legnate
tremende, che facevano risuonare i crani come tam-tam e che strappavano
urla di dolore ai colpiti. Fortunatamente la scorta, occupata ad aprirsi il
passo, non aveva tempo d'impedirgli quella manovra pericolosa.
- Cani
dannati! - urlava il cosacco, scrollando la gabbia e cacciando il bambù negli
occhi dei più vicini. - Prendete! A te zucca fessa! Non avrai più bisogno degli
occhiali! Ci volete assassinare! Per le steppe del Don! Non siamo ancora morti.
Anche Fedoro,
che una bella collera bianca aveva reso furioso, non stava inoperoso.
Era già
riuscito a strappare un paio di code e a spaccare il muso a un gran diavolo di
mongolo, tirandogli addosso una scarpa.
Il carro però
procedeva rapido verso il palco, urtando la folla e rovesciando i più accaniti.
Il conduttore, temendo che i due prigionieri non giungessero vivi fino al
palco, tanta era l'esasperazione del popolaccio, non badava a storpiare uomini
e ragazzi.
Anche i
cavalieri manciù non risparmiavano le piattonate e le puntate, pur di farsi
largo e di sgombrare il passo. Sagravano come turchi, facevano impennare i
cavalli e minacciavano di far uso dei moschetti.
Con tutto ciò,
ci vollero non meno di venti minuti prima che il carro potesse giungere presso
il palco, il quale era guardato da un doppio cordone di fantaccini. In un
batter d'occhio la gabbia fu levata e venti braccia la spinsero fino sulla
piattaforma, dove il carnefice, sempre impassibile, attendeva il momento di far
uso della sua scimitarra.
Il coperchio
fu subito levato e i due europei, nonostante la loro disperata resistenza,
furono trascinati fuori fra le urla di gioia del popolaccio. Mentre alcuni
soldati tenevano fermi Rokoff e Fedoro, stringendoli brutalmente per la gola,
altri legavano ai due disgraziati le mani dietro il dorso e le gambe.
Il cosacco
però aveva ancora avuto il tempo di mordere crudelmente il braccio ad uno degli
aguzzini, strappandogli ad un tempo un pezzo di stoffa e di carne.
- Assassini!
Miserabili! - vociava. - Siamo innocenti! Vili! Ma la Russia ci vendicherà!
Furono spinti
in mezzo al palco, e dopo averli costretti ad inginocchiarsi, vennero lasciati
soli col carnefice, il quale stava provando il filo della scimitarra.
- Fedoro... è
finita - disse Rokoff. - Fra pochi secondi ci rivedremo in cielo. Mostriamo a
questi miserabili come sanno morire gli europei.
- Addio Rokoff
- disse il russo con voce commossa. - Perdonami di averti perduto.
- Taci... non
parlare di ciò... la colpa è di queste canaglie... Ehi, carnefice, fa il tuo
dovere e...
La sua voce
era stata improvvisamente soffocata da un immenso urlo che non era più di
gioia. Pareva che un terrore inesprimibile si fosse manifestato fra il popolo
che si accalcava attorno al palco.
Anche il
carnefice aveva abbassato la scimitarra, facendo un gesto di spavento.
Tutti
guardavano in aria agitando pazzamente le braccia, col terrore negli occhi,
senza essere quasi più capaci di gridare. Che cosa avveniva in alto, lassù nel
cielo?
Fedoro e
Rokoff, stupiti da quell'improvviso silenzio e dall'atteggiamento pauroso di
tutta quella gente, avevano pure alzato il capo.
Un grido
sfuggì dai loro petti.
Un uccello di
dimensioni gigantesche, di forme strane, che scintillava ai raggi del sole come
se le sue penne fossero cosparse di polvere d'argento, piombava sul palco con
velocità fulminea.
Che cos'era?
Un'aquila di nuova specie od un mostro caduto da qualche astro?
Vedendolo
ingrandire a vista d'occhio e precipitarsi sulla piazza, i cinesi, pazzi di
terrore, si erano rovesciati verso Tong, urlando spaventosamente, urtandosi,
atterrandosi e calpestandosi.
Anche i
soldati dopo una breve esitazione, si erano scagliati dietro ai fuggiaschi
gettando via perfino i fucili per correre più presto e il carnefice li aveva
seguiti, balzando come un'antilope.
- Fedoro!
- Rokoff!
- Un mostro!
- Ma no... non
è possibile.
- Un drago!
- Vedo degli
uomini!...
- Siamo salvi!
Una macchina volante... un pallone... Odi?
Una voce che
scendeva dall'alto, una voce energica, imperiosa, aveva gridato prima in
francese, poi inglese:
- Non
temete... vi salviamo... spezzate i legami... Pronto! Gettala!
Una scala di
seta era caduta, svolgendosi rapidamente e toccando con una delle estremità il
palco.
Un uomo,
vestito di flanella bianca, era sceso rapidamente balzando verso i due europei,
che erano rimasti immobili, come se lo stupore li avesse paralizzati. Con pochi
colpi di coltello tagliò le loro corde, poi, alzandoli, disse in francese:
- Presto!
Salite! I cinesi tornano!
Rokoff ebbe
appena il tempo di mormorare un «grazie».
Si precipitò
verso la scala, scavalcò un parapetto e cadde fra le braccia di un altro uomo.
Udì confusamente un fischio acuto che pareva mandato da qualche macchina a
vapore, poi dei colpi di fucile, delle urla lontane, poi vide due immense ali
sbattere vivamente e rimpicciolirsi rapidamente il palco, la piazza e la
folla... poi più nulla...
. . . . . . .
. . . . . . . .
Quando Rokoff
tornò in sé, si trovò sdraiato su un soffice materasso, a fianco di Fedoro,
sotto un tendaletto che lo riparava dai raggi del sole.
Un profondo
silenzio regnava attorno a lui: le grida della folla e i colpi di fucile erano
cessati. Sentiva solamente delle leggere scosse e una forte corrente d'aria che
gli procurava un dolce benessere.
Per un momento
credette davvero di essere stato decapitato dal gigantesco carnefice e di
viaggiare in un altro mondo. Se era vero, la morte, dopo tutto, non doveva
essere spiacevole, né così paurosa come si credeva. Si portò le mani alla
testa, con un moto rapido... e... con sua sorpresa la trovò a posto.
- Che mi
abbiano invece fucilato? - si chiese.
S'alzò di
scatto guardandosi le vesti e non vide alcuna macchia di sangue. Nemmeno Fedoro
aveva la casacca lorda.
- Che io
sogni? - si domandò.
Un lungo
sibilo, che pareva uscisse da qualche macchina, lo fece sobbalzare.
Un'ombra umana
si delineava dinanzi a lui. La guardò con paura.
Non era
un'ombra, era un uomo, un bell'uomo anzi, di statura alta e di forme eleganti,
colla pelle leggermente abbronzata, con due occhi nerissimi e pieni di
splendore, con una barba pure nera pettinata con gran cura.
Era vestito
tutto di bianco, con una larga fascia rossa che gli stringeva i fianchi, e
calzava alti stivali di pelle nera.
Anche
quell'uomo lo guardava, ma sorridendo.
- Dove sono
io? - chiese Rokoff.
- A bordo del
mio «Sparviero» - rispose lo sconosciuto nell'egual lingua. - Siete sorpreso, è
vero? Ciò non mi stupisce.
Poi, con una
certa meraviglia, chiese:
- Voi non
siete un cinese, quantunque ne indossiate il costume, è vero?
Invece di
rispondere a quella domanda, Rokoff aveva chiesto:
- Ditemi,
signore: sono vivo o sono morto?
- Mi pare che
siate vivo - rispose lo sconosciuto, ridendo. - Però se avessi tardato
solamente qualche minuto, non so se la vostra testa si troverebbe ancora sulle
vostre spalle.
Il cosacco
aveva mandato un grido. La memoria gli era prontamente ritornata.
Rivide tutto
d'un colpo la piazza affollata dal popolaccio furioso, il palco, il carnefice,
poi quel mostro scendere precipitosamente e rapirlo fra i colpi di fucile dei
soldati cinesi. Ci volle però qualche minuto prima che le sue idee si
riordinassero.
Balzò innanzi
e porse la mano allo sconosciuto, dicendogli con voce commossa:
- M'avete
salvato... grazie signore... vi devo la vita...
- Bah! Un
altro, al mio posto, avrebbe fatto altrettanto! Siete russi?
- Sì, signore,
e voi?
Il comandante
dello «Sparviero» lo guardò senza rispondere. Una profonda ruga gli si era
disegnata sulla sua ampia fronte, mentre nei suoi occhi era balenato uno strano
lampo.
- Vi avevo
creduto cinesi - disse poi con voce lenta, misurata. - Tuttavia sono lieto di
aver strappato due europei alla morte, quantunque ignori ancora il motivo per
cui eravate stati condannati alla decapitazione.
- Ah! Signore!
Anche voi dubitate della nostra innocenza! - esclamò Rokoff. - Credete voi che
un onorato ufficiale dei cosacchi del Don, che ha due medaglie al valore
guadagnate sotto Plewna e che uno dei più ricchi negozianti di tè della Russia
meridionale abbiano potuto assassinare un cinese per derubarlo?
- Io non so a
quale delitto volete alludere - disse lo sconosciuto, con tono però meno duro,
- e non dubito affatto che voi siate due galantuomini.
- Siamo due vittime dell'odio secolare dei
cinesi contro gli uomini di razza bianca.
- Non metto in
dubbio ciò che mi dite e per darvene una prova ecco la mia mano signor...
- Dimitri
Rokoff... del 12° Reggimento dei cosacchi del Don.
Si strinsero
la mano, poi il comandante dello «Sparviero» disse:
- Venite: voi
non avete ancora veduto la mia macchina.
- Ed il mio
amico?
- Lasciatelo
riposare. L'emozione provata deve averlo abbattuto. È il negoziante di tè
costui?
- Sì,
signor...
- Chiamatemi
semplicemente «il capitano».
- Un capitano
russo, perché parlate la nostra lingua come foste nato sulle rive della Neva o
del Volga.
Un sorriso
enigmatico si delineò sulle sottili labbra del capitano.
- Parlo il
russo come il francese, l'italiano, il tedesco, l'inglese e anche il cinese.
Vedete dunque che la mia nazionalità è molto difficile da indovinare. Ma che
importa ciò? Sono un europeo come voi e ciò basta, o meglio sono un uomo di
razza bianca. Venite, signor Rokoff, ah! Soffrite le vertigini?
- No,
capitano.
- Meglio per
voi: godrete uno spettacolo superbo, perché in questo momento noi ci libriamo
sopra Pechino. Macchinista!
- Signore -
rispose una voce.
- Rallenta un
po'. Voglio godermi questo meraviglioso panorama.
Stavano per
uscire da quella specie di tenda, quando Rokoff udì Fedoro gridare con accento
atterrito:
- La mia
testa! La mia testa!
Il cosacco si
era precipitato verso l'amico, frenando a malapena una risata.
- L'hai ancora
a posto, Fedoro! - esclamò. - Quei bricconi non hanno avuto il tempo di
tagliartela.
Il russo si
era alzato, guardando sbalordito ora Rokoff ed ora il comandante dello
«Sparviero».
- Rokoff! -
esclamò. - Dove siamo noi?
- Al sicuro
dai cinesi, amico mio.
- E quel
signore? Ah! Mi ricordo! L'uccello mostruoso! Il rapimento al volo! Voi siete
il nostro salvatore!
- Io non sono che
il capitano dello «Sparviero» - rispose il comandante, tendendogli la mano. -
Signore, non avete più da temere, perché siamo ormai lontani da Tong. Venite:
vi mostrerò la mia meravigliosa macchina volante o meglio la mia aeronave.
Macchinista! Preparaci intanto la colazione.
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