Il Bramino dell'Assam
CAPITOLO PRIMO: L'ASSASSINIO D'UN
MINISTRO.
«Signor Yanez, se non m'inganno, vengono,
ed avremo una carica formidabile, spaventosa».
«Ah, briccone!...
Quando sarà che ti deciderai a chiamarmi Altezza? Quando ti avrò fatto tagliare
la punta della lingua dal carnefice del mio impero?» «Voi non lo farete mai».
«Ne sono più che convinto, mio
bravo Kammamuri: per te io sono sempre il signor Yanez o la Tigre Bianca, come
Sandokan per te è sempre la
Tigre della Malesia». «Due grandi uomini, signore!...»
«Che il diavolo ti porti! Qualche
cosa, è vero, abbiamo fatto in Malesia ed in India, tanto per non lasciar
irrugginire le nostre splendide carabine inglesi». «No, Altezza...»
«Olà, Kammamuri, ti proibisco di
darmi questo titolo quando non siamo a corte; e mi
pare, se non sono diventato cieco, che ci troviamo ora in mezzo ad una
magnifica foresta, senza seccanti ministri, grandi marescialli di non si sa che
cosa». «È un ordine che avete istituito voi, signor Yanez».
«Ora va bene. Ma vedi: a questi
indiani bisogna dare grossi gradi e titoli rimbombanti. Marescialli dell'Assam!... Per Giove!... Hanno ragione di andare superbi, mentre
sono più che convinto che nessuno di quei poltroni che vuotano le casse dello
Stato, avrebbe osato prendere parte a questa caccia. Dicevi dunque, mio bravo
Kammamuri?» «Che i bufali si avvicinano». «Hai gli orecchi ben fini, tu!...» «Sono indiano, signore, e sono nato cacciatore». «È
vero; mentre io sono un europeo, figlio del gaio Portogallo, che non ha...» «Alto là, signore: avete ucciso più tigri voi di me».
«Non me lo ricordo» rispose colui
che si faceva chiamare signor Yanez, ridendo. «Dunque, vengono?» «Ne sono
sicurissimo». «Che siano molti?»
«Sapete bene, signor Yanez, che
quei bestioni cornuti, forti quasi quanto i rinoceronti, vanno sempre a grosse
bande». «È vero».
«Il carro è pesantissimo, signor
Yanez, ed io spero che non riusciranno a sgangherarlo, né a sollevarlo».
«Io spero invece che vi si
rompano le corna contro» rispose il signor Yanez,
«M'inquieta l'elefante che il cornac non ha abbastanza allontanato, per poter
assistere anche lui alla grossa caccia. Tutti bricconi quest'indiani».
«Anche io, Altezza?»
«Per tutti i fulmini di Giove,
smettila, Kammamuri!... Vuoi farmi andare in bestia
proprio ora che ho bisogno di avere i nervi ed il sangue tranquilli?» «Ho
finito, Altezza!...» «Che un thug ti strangoli,
briccone! Tu vuoi farmi arrabbiare». «Ma no, signor Yanez».
«Ora ci siamo e non protesto. Ah,
ti dicevo che avevo qualche inquietudine per Sahur. Se i bufali lo scoprono lo
sventreranno, senza badare ai colpi di proboscide».
«Sahur è un coomareah e non già
un merghee, signor Yanez. È massiccio come uno scoglio e forte come cento
cateri».
«Cento giganti indiani? Avevano
ben poca forza quei signori spaventapasseri!... Noi in
Europa ne abbiamo avuti due soli, che si chiamavano Sansone ed Ercole, ma
potevano accoppare anche con una semplice mascella d'asino cinquecento cateri,
e forse... Oh!... Odo anch'io!... Per Giove!... Si direbbe che quei colossi
rovesciano la foresta. Vedremo se saranno capaci di gettare in aria anche noi».
Poi, alzando la voce, comandò con voce secca: «Preparate le carabine!... Fuoco di fila!...»
Un enorme carro, formato di travi
pesanti collegate con arpioni di ferro e con ruote altissime, tutte piene,
stava fermo, un po' affondato nella terra grassa, in mezzo ad una superba
foresta irta di giganteschi tara, di tamarindi, di cocchi e di mangifere.
Non somigliava affatto agli
tciopaya indiani, grossi carri anche quelli, ma più eleganti, perché hanno la cassa sempre dipinta in azzurro color cielo ed
ornata di fiori e di divinità, con belle colonnette. Sembrava più un bastione
rotolante, che solamente la forza illimitata degli elefanti, specialmente dei
coomareah, potevano smuovere.
I bufali non ci sarebbero
riusciti nemmeno accoppiati sei a sei, nonostante il loro
vigore tre volte superiore a quello dei tori e delle vacche d'Europa.
Otto uomini montavano quella strana fortezza, che un vigoroso elefante aveva
trascinato fino a quel luogo, per correre subito ad imboscarsi in mezzo ad un
foltissimo gruppo di mangifere.
Quello che stava dinanzi a tutti
e che si faceva chiamare Altezza, o signor Yanez, a suo piacere, era un bel
tipo d'europeo, sui cinquantacinque anni, colla folta barba brizzolata e la
pelle un po' abbronzata pei lunghi soggiorni nelle regioni equatoriali. Non
indossava affatto un vestito da principe indiano, carico di ricami d'oro.
Aveva un semplice vestito di
flanella bianca, assai largo per non impedirgli nessun movimento, stretto
solamente ai fianchi da un'alta fascia di seta azzurra sulla quale si vedeva
spiccare un grosso S.
Entro quella specie di cintura
erano due grossi pistoloni indiani, a canna lunga, armi che possono valere le
moderne rivoltelle. Il secondo, che si ostinava a chiamarlo signor Yanez, era
un purissimo tipo d'indiano, anche lui già sulla cinquantina, però coi capelli
e la barbetta nerissimi. Piuttosto massiccio, di forme vigorose, però di
lineamenti fini, nobili, quei lineamenti che si riscontrano nelle alte caste
indiane che non hanno mai avuto alcun contatto coi paria.
Assai bruno, cogli occhi sempre
in moto che gli davano un non so che di feroce, faceva tintinnare le sue grosse
buccole d'oro e le numerose collane di perle che gli scendevano su una casacca
tutta verde e ben ricamata, con molto sfarzo d'argento e d'oro.
Qualunque indiano lo avesse veduto,
non avrebbe esitato un solo momento ad esclamare: «Ecco un superbo maharatto!...»
Gli altri sei, che stavano dietro
al maharajah, non erano che degli sikkari, ossia dei cacciatori, molto valenti
così nella jungla infestata di tigri, di pitoni enormi e di coccodrilli, come
contro i colossi della foresta: come bufali, elefanti, rinoceronti.
Non avevano che dei calzoncini di
tela rigata, niente sulle loro teste accuratamente rasate, però nella cintura
di pelle gialla portavano un vero arsenale: pistoloni a doppia canna e tarwar
per tagliare le lingue ai bufali.
Al comando dato dal maharajah, gli sikkari avevano armate precipitosamente le carabine, ed
avevano occupato il davanti del carro.
Si mostravano perfettamente
tranquilli, quantunque non ignorassero con quale formidabile nemico avessero da
fare. «Si avvicinano, è vero, mio bravo Kammamuri?» chiese il signor Yanez.
«Sì, Altezza» rispose il
maharatto, imbracciando rapidamente una grossa carabina.
«Olà!...
Smettila, noioso!... Qui non vi sono né ministri, né grandi marescialli. Vuoi
guastarmi il sangue? Se lo hai giurato, come ti ho detto, ti farò tagliare la
punta della lingua dal grande carnefice del mio impero».
«Ed infatti
ci vorrebbe un po' di lavoro per quel furfante: quanto lo pagate?...»
«Mille rupie all'anno
per non fare niente, giacché io sono un principe umanitario. E poi Surama non
vorrebbe che facessi tagliare il collo a qualcuno dei suoi sudditi». «Hum!... Sudditi malfidi, signor Yanez».
«Lo so meglio di te, mio bravo
Kammamuri» rispose il portoghese. «Finché si può andare avanti filiamo a tutto
vapore. Scateneremo, all'ultimo momento, i montanari di Sadhja. Quelli sono
veramente devoti alla rhani, e per conservarle il trono minato da un tarlo
misterioso, sarebbero capaci di gettarsi anche sul Bengala». «Se avessero un
po' di Tigrotti di Mòmpracem alla testa!» «Ci saranno». «Come? Noi rivedremo
ancora qui quei terribili guerrieri delle folte foreste?»
«Non stupirti, Kammamuri, è un
po' che ci penso. Ho nominato un brav'uomo mio primo ministro e me l'hanno
misteriosamente avvelenato; ne ho nominato un altro, e nel suo letto si è
trovato un serpente del minuto che l'ha portato via, al primo morso, entro
cinquantacinque secondi esatti. Domani cacceranno fra le mie coltri un
cobra-capello, o fra le lenzuola di seta di Surama e del mio Soarez. Morte di
Giove!... Se uccidessero mia moglie e mio figlio...»
Si era interrotto bruscamente, gridando per la seconda volta: «Preparate le
carabine!... Fuoco di fila!...»
Quantunque regnasse una calma
assolutamente completa, la foresta che si stendeva dinanzi al gigantesco carro,
si era messa ad agitarsi come se dei colpi di vento la investissero. Tutte le
piante, eccetto i grossi tara, inattaccabili anche per gli elefanti più
poderosi, si agitavano violentemente, sbattendo le immense foglie e facendo
cadere una vera grandine di frutta. Pareva che sotto i grandi vegetali,
piuttosto che sopra, si avanzasse furibondo un uragano, accompagnato da strani
fragori che non erano altro che muggiti di bhajusa, i formidabili bisonti
indiani, ben più audaci di quelli che un tempo popolavano le praterie del
Far-West americano. Sono animali di dimensioni straordinarie, massicci quasi
quanto i rinoceronti, cattivissimi, specialmente se vengono
feriti.
Non somigliano veramente al bisonte
americano, né al bufalo selvaggio dell'Africa, forse agli uri, razza ormai
scomparsa dalle foreste della Germania e della
Polonia, da una buona cinquantina d'anni. Hanno la testa corta e piuttosto
quadrata, la fronte alta e larga, coronata di ciocche di pelo lungo, rossiccio,
le corna ovali fortemente appiattite che incurvansi indietro per rialzarsi poi
a punta. Il collo è grosso e breve, che si attacca subito ad una vera gobba che
si stende fino a metà lunghezza dei loro corpi, e che perciò li fanno
rassomigliare un po' ai bisonti delle praterie americane. Tutta quella gobba è
coperta d'un pelame nero spesso e lungo; le altre parti sono invece coperte di
peli di color marrone e sono meno folti.
Se vi è un animale terribile è
indubbiamente il bufalo indiano. Mentre i bisonti americani fuggono quasi
sempre e si lasciano massacrare a centinaia, quelli indiani, quantunque abbiano
una vista piuttosto cattiva, ma un odorato ed udito finissimi, vendono
ferocemente la loro pelle. Già vanno sempre in grossi gruppi di quaranta, cinquanta ed anche più capi, quindi possono condurre delle
cariche formidabili anche perché, malgrado la loro mole, sono agilissimi e
corrono meglio dei bisonti gareggiando perfino coi cavalli. Sono sempre di
pessimo umore, pronti a sventrare il povero indiano che incontrano sul loro
passaggio e che non ha avuto il tempo di mettersi in salvo su qualche albero
dai rami bassi.
Producono delle ferite
spaventevoli, e più volte si sono trovati, nelle foreste indiane, dei
disgraziati col ventre aperto fino alla bocca dello stomaco, con un colpo
reciso. Perfino le tigri si guardano, anche se assai affamate, di assalire di
fronte quei pericolosi bestioni, e ben di rado riescono ad abbatterne qualcuno.
Quello che rende il bufalo
assolutamente terrificante è la loro forza prodigiosa, la quale dà loro una
superiorità immensa sull'uomo che abita quelle regioni, pel fatto che anche
attraverso le più folte foreste si apre il passo senza sforzo apparente, mentre
i più destri cacciatori non potrebbero andare innanzi che con somma lentezza.
La malignità poi dei bufali,
siano africani od asiatici e talvolta anche americani, è incredibile.
Perseguitano il cacciatore con una ostinazione
incredibile, facendo degli improvvisi ritorni dietro le macchie, per prenderlo
di fronte e sventrarlo, gettarlo in aria e calpestarlo rabbiosamente.
Il signor Yanez non era alle sue
prime cacce. Conosceva i "grossi polli della foresta", come li
chiamava lui, ed aveva prese le sue precauzioni, facendosi costruire un carro
monumentale che nemmeno i fortissimi elefanti, in una delle loro cariche
spaventevoli, potevano fracassare.
Aveva per di più il maharatto,
cacciatore nato, e sei sikkari dal polso fermo e niente affatto
impressionabili.
I bisonti, fiutati forse i
nemici, continuavano a caricare attraverso alla foresta, sventrando i cespugli
e facendo oscillare gli alberi. Muggivano furiosamente, come se fossero
impazienti d'impegnare la lotta.
«Siete pronti?» chiese Yanez, il
quale tendeva gli orecchi ed aguzzava gli occhi. «Tutti,
Altezza» risposero i sette uomini, imbracciando le carabine.
«Per Giove!...
Voglio vedere la danza dei bisonti. È un po' di tempo che non ne uccido, ma
giacché vengono a devastare le mie selve e sventrare i miei sudditi, faremo
anche noi dei massacri. Olà!... Attenzione!...
Giungono!...»
La banda irrompeva colla violenza
d'una vera tromba. Erano cinquanta o sessanta enormi animali, quasi tutti
maschi, i quali caricavano a testa bassa, colle corna tese.
«Fanno veramente paura!» disse Yanez
colla sua solita voce tranquilla. «Mi spiace che non vi sia qui Tremal-Naik.»
«Veglia su vostro figlio, sul
piccolo Soarez» ebbe appena il tempo di dire il maharatto.
Una scarica echeggiò subito,
scarica secca, terribile. I bisonti, impressionati dal fragore delle armi, si
erano subito arrestati dinanzi a due loro compagni che non davano più segno di
vita, mentre un terzo si dibatteva disperatamente fra le ultime convulsioni
dell'agonia, emettendo formidabili muggiti. «Le carabine di ricambio!...» gridò prontamente Yanez.
Tutti si erano prontamente riarmati, e si erano messi in posizione di sparare.
I bufali ebbero un momento di esitazione, ma il loro straordinario coraggio si
risvegliò ben presto, e si slanciarono dritti contro il carro colla speranza di
fracassarlo a gran colpi di corna, o per lo meno di rovesciarlo. «Fuoco!...» comandò per la seconda volta
Yanez.
Altri otto spari rimbombarono,
formando quasi una detonazione sola e rompendo violentemente l'eco della
foresta. Tre animali caddero morti o feriti, tuttavia gli altri continuarono la indemoniata carica, muggendo spaventosamente, e si
precipitarono all'attacco. Stavano quasi per investire il carro, quando da una
folta macchia irruppe, correndo e barrendo, un grosso elefante montato da un
cornac indiano, quasi nudo.
«Sahur!...»
gridò Kammamuri, riprendendo un'altra carabina di
ricambio, poiché ne avevano ancora. «Che cosa viene a fare qui quello stupido?
A farsi sbudellare?»
«Ci siamo anche noi, pronti a
proteggerlo» disse Yanez. «Vediamo un po' che cosa succede. Per l'elefante non
m'importa, poiché nelle mie riserve ne abbiamo perfino troppi; è per quel
povero diavolo di cornac il quale corre il pericolo, se non riesce a domare
Sahur, di vedere le budella pendenti sulla punta di qualche corno. Non fate
fuoco per ora. Uno di voi ricarichi le armi».
L'elefante, impressionato dai
muggiti veramente spaventosi dei bufali, aveva lasciato il suo nascondiglio,
gettandosi storditamente in mezzo a tutte quelle corna.
È vero che si trattava di un
poderoso coomareah, saldo quanto uno scoglio, dotato d'una forza più che prodigiosa ed armato d'una tromba larga che doveva fare dei
veri miracoli nel caso di un attacco diretto. Il cornac, armato dell'arpione,
invano si sforzava di ricondurlo nelle folte macchie. Il testardo suonava la
sua fanfara di guerra, preparandosi anche lui a slanciarsi.
«Per Giove!...»
esclamò Yanez. «Ha del coraggio quel bestione!... Che venga proprio per proteggerci?»
«Non mi stupirei» rispose
Kammamuri. «Sahur ha una intelligenza meravigliosa.
«Tenetevi sempre pronti a far fuoco».
I bufali, per la seconda volta si
erano arrestati, calpestando rabbiosamente il suolo e scuotendo forsennatamente
le loro grosse teste. Pareva che esitassero fra
l'assalire il carro o l'elefante, il quale si avanzava sempre trombettando a
pieni polmoni.
Finalmente parvero decidersi.
Dovevano aver riconosciuto che era più facile atterrare il pachiderma piuttosto
che il gigantesco carro, il quale presentava la resistenza d'un piccolo
bastione. Si allargarono, formando un semicerchio di oltre cento metri, poi
tornarono a muoversi, mirando all'elefante. Stavano per attaccare a fondo,
quando un nitrito echeggiò improvvisamente a poche centinaia di passi dal
carro.
«Un cavallo!...»
esclamò Yanez, diventando leggermente pallido. «Che
nella mia capitale sia scoppiata la rivoluzione? Sono tutte cariche le
carabine?»
«Sì, Altezza» disse Kammamuri.
«Abbiamo trentaquattro palle da regalare ai bufali». «Troppo poche». «Le
munizioni abbondano».
«Non so se ci lasceranno sempre
il tempo di ricaricare le armi, mio bravo maharatto. Pronti!...
Per tutti i fulmini di Giove! Bindar!» Un bellissimo cavallo nero era sbucato
dalle macchie, correndo verso il carro.
Un indiano magro come un fakiro,
eppur giovane ancora, lo montava tenendo ben raccolte le briglie, e le punte
dei piedi cacciate dentro le staffe, che non erano quelle larghe coi margini
taglienti, usate dai mussulmani indiani. Il cavallo, vedendo i bufali, aveva
fatto un fulmineo dietro front, preparandosi a scappare con tutte le sue forze.
Per istinto, conosceva troppo bene la potenza di quei bestioni. «Bindar!...» urlò Yanez. «Che cosa vieni a
fare qui? A farti sventrare?»
«Mio signore», gridò l'indiano a
gran voce «hanno avvelenato anche il vostro terzo ministro. È morto un paio
d'ore fa». «Corpo di Giove!... Che cosa vieni a
raccontarmi tu?» «La verità, Altezza». «E Surama e mio figlio, il mio piccolo
Soarez?» «Vivi tutti. Tornate presto: Tremal-Naik vi aspetta».
«Fuggi tu intanto. Avremo da fare
a cavarcela con questi animali. Scappa!... Scappa!...
Porta i miei saluti a mia moglie!... Veglia su mio figlio!...» «Sì, maharajah!... Che Visnù ti protegga!...»
Il cavallo aveva già presa una
corsa sfrenata scomparendo quasi subito sotto i grandi vegetali.
I bufali sempre maligni e molto
intelligenti, avevano lasciato in pace il carro ed anche l'elefante, dalla cui
proboscide, oltre che dalle zanne, molto avevano da temere, e si erano
scagliati dietro al cavaliere, come il più debole a reggersi ad un attacco
poderoso. Sotto le immense volte di verzura rintronarono due spari che parvero
di pistola, poi anche la banda indemoniata, inattaccabile sempre muggente,
scomparve, lanciata a gran velocità sulle tracce del cavaliere.
«Hai udito, Kammamuri?» chiese
Yanez, con voce un po' alterata. «Anche il mio terzo ministro avvelenato!... La mia corte è piena di traditori dunque? Domani
avveleneranno me, poi la rhani mia moglie, poi mio figlio ed anche tutti voi
amici fedeli. Corpo d'una saetta!... Ne ho già
abbastanza di questa corona che pesa come se fosse di piombo. Questo impero,
come lo chiamano pomposamente, non vale la nostra piccola isola di Mòmpracem,
per le centomila corna di tutti i diavoli noti ed ignoti».
«La notizia che ci ha recata
Bindar è impressionante, signore. Si direbbe che nella vostra corte si siano stabiliti alcuni di quei dacoiti che hanno avvelenato
mezza popolazione del Bundelkund».
«Io penso ad altro» disse Yanez,
tormentando il grilletto della carabina. «E non è da oggi che questo pensiero
terribile mi perseguita». «Dite, signor Yanez».
«Che Sindhia sia fuggito
dall'ospedale dei pazzi di Calcutta, dove l'avevamo internato».
«Ma che!...
Quell'eterno ubriacone non saprà mai fare nulla anche se libero, signor Yanez».
«Io non condivido affatto la tua
fiducia, mio bravo Kammamuri» rispose il principe. «Intorno a noi regna il
tradimento, ed il tradimento indiano è il più terribile». «Signore, torniamo
subito».
«Se i bufali ci lasceranno il
passo. Ritorneranno, lo vedrai, e ci daranno ancora dei grossi fastidi».
Poi alzando la voce gridò al
cornac che montava il coomareah, e che era riuscito a domare l'enorme bestione:
«Metti in salvo Sahur!... Ci è necessario per tornare alla capitale. Approfitta
di questo momento di tregua».
«Sono ormai padrone io, maharajah,
della mia bestia» rispose il cornac. «Ora lo condurrò in un luogo sicuro, e se
vorrà fare dei capricci lavorerò d'arpione senza badare dove tocco». «Vàttene,
allora!...» «Sì, signore».
L'elefante si era calmato, non
avendo veduto più i bufali, ed obbediva al suo conduttore abbastanza
docilmente.
Dapprima cercò di avvicinarsi al
carro, forse coll'idea fissa di proteggere i cacciatori o di mettersi sotto la
loro protezione, poi, dopo avere scrollato più volte il dorso gigantesco e le
enormi orecchie, ritornò a piccolo trotto dentro la folta macchia.
«Ritornare subito!» disse Yanez.
«Si fa presto a dirlo: vorrei però vedere gli altri cacciatori nella nostra
situazione. Finché non avremo distrutto buona parte di quei maligni animali,
saremo costretti a rimanere qui». «Che abbiano raggiunto Bindar?» chiese
Kammamuri.
«No, è troppo esperto cavaliere,
e poi montava uno dei miei più veloci cavalli. I bufali hanno la carica
impetuosa, però dopo pochi minuti cominciano a sfiatarsi ed a rallentare la
corsa». «Che ritornino?»
«E me lo domandi? Mi sembra già
di vedermeli dinanzi. Quelle bestie non lasciano il campo di battaglia senza
tentare delle rivincite che faranno sempre paura non solo
a tutti i cacciatori dell'Asia, bensì anche a quelli dell'Europa che qualche
volta vengono fra noi a provare le loro grosse carabine. Avvelenato!... Ed è il terzo!... C'è da impazzire». «Da impressionarci
certamente, signor Yanez».
«Questa volta però voglio vedere
ben dentro a questo delitto, e quel cane che lo ha commesso non sfuggirà alla
scimitarra del mio carnefice. Conto assai su Timul: quell'uomo è un
meraviglioso cercatore di piste. Se trova quella dell'assassino la seguirà
anche fino alle grandi montagne dell'Himalaya, anzi più oltre, anche nel cuore
del Tibet. Non comprendo il motivo di questi delitti. Io sono popolarissimo, la
rhani mia moglie più di me ancora, tutti ci amano e... ci avvelenano a
tradimento. Cominciando da questa sera io non mangerò che uova sode che
spaccherò e sguscerò io».
«E farete bene, signor Yanez. Non
c'è più da fidarsi. Impasterò il pane io per voi, per la rhani, per il piccolo
Soarez e per il mio padrone».
«Un vecchio cacciatore che
diventa panettiere!...» disse
il portoghese, tentando di scherzare.
«Noi, maharatti, sappiamo ammazzare
una tigre od un elefante, come impastare e cucinare una pagnotta. Prendo io il
comando delle cucine reali e, se sorprendo qualche cuoco a gettare nei cibi
delle polveri velenose, lo uccido con un solo colpo di tarwar». «E poi darai il
corpo a mangiare alle tigri dei nostri giardini».
«Sissignore. Dobbiamo
impressionare profondamente questi traditori che minacciano di mandarci tutti
tra le braccia di Parvati, la dea della morte». «Aspetta prima di
sorprenderlo!» «Eh!... Chi lo sa!...»
«Vedremo che cosa dovremo fare quando saremo ritornati alla capitale. Intanto, giacché
ti sei offerto come cuoco, per me e per tutti i miei preparerai uova». «Vi
stancherete, signore» disse Kammamuri, ridendo. «Mangeremo anche delle frutta
che sbucceremo noi».
«Non mi fiderei più, signor
Yanez. Si fa presto ad avvelenare un banano iniettando sotto la scorza, con una
sottile siringa, un po' di bava del cobra-capello».
«Mi fai venire freddo, Kammamuri,
eppure il termometro segna 40° e alza sempre. Queste cose a Mòmpracem non
succedevano. Eh!... Tornano?»
«Sì, mi pare» rispose Kammamuri.
«Saranno più furibondi che mai e tenteranno di rovesciare il carro». «Non sono
elefanti» rispose Yanez. «Tutte le carabine sono cariche?» «Sì, Altezza»
risposero ad una voce gli sikkari.
«Daremo un'altra terribile
lezione a quei bruti che minacciano di tenerci qui prigionieri, mentre così
gravi avvenimenti succedono nella mia capitale».
«Udite, signore?» gridò in quel
momento Kammamuri. «Forzano la foresta e cercano di piombarci addosso da un'altra
parte».
«Guarda se qualcuno di quei
bestioni ha le budella del cavallo appese alle corna».
«Siva non lo voglia, poiché
significherebbe che anche Bindar è stato sventrato». «Può essersi salvato su di
un albero. Pronti!...»
I bufali giungevano col solito
slancio, aprendosi impetuosamente il passo attraverso i cespugli che venivano atterrati e quasi polverizzati da tutte quelle
poderose zampe.
Si arrestarono un momento sul
margine della radura in mezzo alla quale si trovava il carro, muggendo
furiosamente. Grondavano sudore e la schiuma imbrattava i loro larghi petti,
scendendo a terra, come tanti piccoli fili d'argento.
Dovevano essere esausti. Il
cavallo li aveva certamente trascinati in una corsa velocissima, sfuggendo
anche al loro attacco, perché dalle corna delle bestie non pendeva nessun
intestino. I loro fianchi pulsavano fortemente ed i loro occhi erano iniettati
di sangue in modo da fare spavento.
«Giù!...»
comandò Yanez, che cominciava ad averne abbastanza
dell'ostinazione di quegli animali.
Otto colpi partono, uno dietro
all'altro, ed una pioggia di palle coniche, rivestite di rame, colpisce
nuovamente in pieno i giganti delle jungle. Tre o quattro cadono, colle spine
dorsali fracassate, poiché i cacciatori non miravano né alla testa, né al petto,
ma gli altri, sempre più inferociti, si scagliano come una tromba, colle corna
ben tese, decisi a non rientrare nella boscaglia senza aver vendicati i compagni. Il momento è terribile. Il carro è pesantissimo
ed assai robusto, tuttavia anche Yanez è diventato un po' pallido. «Non
lasciamoli avvicinare!...» gridò. «Fuoco!... Fuoco!... Fuoco!...»
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