IL DESERTO DI
GOBI
Il veliero
segnalato da Fedoro, era una di quelle massicce navi che i cinesi chiamano ts'
tao ch' wan, che il governo imperiale ha ormai relegate sui grossi
fiumi, dopo la riorganizzazione della flotta, onde tenere in freno i pirati che
pullulano su tutti i corsi d'acqua dell'interno.
Mostruose
carcasse, del resto, che non offrono alcuna resistenza al tiro delle moderne
artiglierie e che non sono affatto maneggevoli, di forme barocche e tozze,
pessimi velieri, insomma.
Scorgendo i
manciù, i quali facevano numerosi segnali, il comandante della nave aveva
modificata la sua rotta per andarli a raccogliere, immaginandosi che qualche
motivo imperioso richiedesse il suo appoggio.
Sapendo Fedoro
che le giunche da guerra portano cannoni e numerosi equipaggi, aveva
consigliato Rokoff di gettarsi subito dietro l'isolotto, onde non rimanere
esposti al fuoco del veliero.
- Vi
giungeremo prima che la giunca abbia imbarcati i manciù - disse il capitano. -
Ha da percorrere ancora un miglio e questo tempo sarà a noi bastevole.
- E potremo
resistere noi, se lo «Sparviero» non sarà pronto a spiccare il volo?
- Ho veduto le
ali muoversi, quindi è segno che il macchinista ha compiuto la saldatura.
Signor Rokoff, appoggiate sull'isola. Vedo i manciù fare dei segnali alla
giunca.
- Ancora pochi
colpi di remo, signore - rispose il cosacco il quale arrancava furiosamente.
In quel
momento si udì la voce del macchinista gridare:
- Capitano!
Quando vorrete!
- Hai finito?
- Sì, signore
e lo «Sparviero» è pronto ad innalzarsi.
La scialuppa
non era che a pochi passi dalla riva e la giunca non era ancora arrivata là
dove si erano raggruppati i manciù.
- A terra! -
gridò il capitano.
Si erano
appena slanciati fra le erbe, quando in lontananza si udirono delle strepitose
detonazioni che si ripercossero lungamente sotto le piante che coprivano le
sponde.
Un istante
dopo una palla colpiva la scialuppa quasi a metà, spaccandola in due.
- Per le
steppe del Don! - esclamò Rokoff facendo un salto. - Un momento di ritardo e
quel proiettile mi sfondava lo stomaco.
Si gettarono
sotto gli alberi, mentre la giunca sparava una seconda bordata massacrando le
querce che crescevano presso la scialuppa e si misero a correre a precipizio
verso lo «Sparviero».
Il macchinista
li aveva già preceduti.
- Vira subito
di bordo ed innalziamoci fuori tiro - disse il capitano.
- Subito,
signore - rispose il bravo giovane, mettendo in moto ali ed eliche.
La giunca
aveva sospeso il fuoco per imbarcare i soldati. Era il momento opportuno per
innalzarsi.
Lo «Sparviero»
prese la corsa sfiorando il suolo, poi virò quasi sul posto e si spinse in alto
descrivendo un immenso semicerchio.
Vedendo quel
mostro elevarsi al disopra dell'isola, i cinesi della giunca e i soldati erano
rimasti come impietriti, senza pensare a far uso delle loro armi.
Quell'istante
di esitazione era stato bastante allo «Sparviero» per raggiungere prima i
cinquecento poi i settecento metri.
Quando le
artiglierie del veliero tuonarono, ormai era fuori di portata, al sicuro da
qualunque offesa.
- Al nord! -
gridò il capitano al macchinista.
L'aerotreno,
che filava con una velocità di trenta miglia all'ora, varcò il fiume, poi
mentre i manciù, furiosi di essere stati così giocati, scaricavano
all'impazzata i loro moschettoni, volteggiò al disopra delle foreste,
dirigendosi verso il settentrione.
- Dateci ora
la caccia, se ne siete capaci - disse Rokoff. - Vi aspettiamo nel deserto di
Gobi per offrirvi una bottiglia di gin.
- Credevo che
non finisse così bene per noi - disse Fedoro. - Se lo «Sparviero» non fosse
stato pronto, non so se a quest'ora saremmo ancora vivi. I cannoni della giunca
ci avrebbero massacrati in pochi minuti.
- Ed infatti
non tiravano male quei marinai d'acqua dolce. Il macchinista deve aver fatto
dei veri miracoli per riparare l'avaria in così breve tempo. Resisterà almeno
l'ala?
- Non abbiate
alcun timore sulla sua solidità - disse il capitano, accostandosi ai due amici.
- L'ho osservata or ora e vi assicuro che non si spezzerà se un'altra palla di
cannone non la fracassa di nuovo.
- E dove
andiamo ora? - chiese Rokoff.
- Siamo a
poche miglia dal deserto e vi ho promesso di farvi assaggiare le trote dei
laghi del Caracorum.
- Andiamo a
pescare le trote, purché poi pieghiamo immediatamente verso il sud-ovest.
- A suo tempo
cambieremo rotta; per ora è impossibile.
- E chi ve lo
impedisce, capitano?
- Un motivo
che non vi posso comunicare e che non vi riguarda. Vi ho promesso di condurvi
in Europa o in India e manterrò la parola e questo deve bastarvi. Macchinista,
puoi preparare la cena, mentre io prendo il timone.
- Dove vuole
trascinarci quest'uomo? - chiese Rokoff a Fedoro, quando furono soli.
- Lasciamolo
fare - rispose il russo. - Noi non abbiamo il diritto d'immischiarci nei suoi
affari. D'altronde un giorno conosceremo il motivo di questa sua corsa
misteriosa attraverso il deserto. Gli occhi li abbiamo anche noi per vedere.
Il deserto
cominciava. Oltrepassata una piccola catena di montagne che limita verso il
nord il bacino dell'Hoang-ho, lo «Sparviero» era sceso sopra una sterminata
pianura priva di vegetazione e coperta di sabbia in gran parte riparata da un
fitto strato di neve.
Era il
principio dello Sciamo o meglio del Gobi, il Sahara dell'Asia centrale, che
occupa buona parte della Mongolia e che forma come una barriera fra la Siberia
meridionale e l'impero cinese propriamente detto.
Non è
veramente un deserto arido, come quello africano, e nemmeno così infuocato,
anzi d'inverno è freddissimo in causa dei venti gelati che soffiano dalla
vicina Siberia e delle nevi che cadono abbondantemente in novembre, dicembre e
gennaio.
Se ha dei
vasti tratti sabbiosi, ha pure delle steppe dove l'erba cresce molto alta, poi
dei corsi d'acqua quali l'Urangu, lo Zankin, l'Oukom e il Kerulen, oltre a
parecchi piccoli laghi, sempre ricchi d'acqua.
Esso va dalla
catena dei Grandi Altai che giganteggia verso l'ovest a quella del grande
Chingan che corre verso l'est, ed è popolato da numerose tribù nomadi che
allevano cavalli, cammelli e montoni in gran numero; però al pari dei terribili
tuareg del Sahara, si dedicano anche al ladroneggio, taglieggiando e
saccheggiando le carovane.
Nel momento in
cui lo «Sparviero» scendeva nel deserto, nessun accampamento appariva,
quantunque vi fosse entrato in un luogo che ordinariamente frequentavano i
nomadi urati, che formano una delle tribù più popolose dello Sciamo.
Non si
vedevano altro che numerose lepri, le quali, spaventate dall'ombra proiettata
dall'aerotreno, fuggivano in tutte le direzioni, nascondendosi fra i radi
cespugli che crescevano qua e là, specialmente nelle bassure.
In alto,
invece, volteggiavano grossi falchi e, non meno spaventati dei piccoli
corridori, s'affrettavano ad allontanarsi da quel mostro che procedeva con un
rombo strano, sbattendo febbrilmente le sue immense ali.
- Che
solitudine - disse Rokoff a Fedoro. - Sono tristi le steppe del Don e del
Caspio, ma anche questo deserto non è allegro, in fede mia. Si vedessero almeno
degli accampamenti!
- Non
desiderarli, Rokoff - rispose Fedoro. - Se ci scorgono non mancheranno di darci
la caccia e di perseguitarci accanitamente.
- Non
potrebbero resistere a lungo a una simile corsa.
- Non dico di
no, tuttavia è meglio che si tengano lontani. Sono meglio armati dei tartari,
comperando fucili dai russi di Kiathta e una palla può raggiungerci.
- Sono lontani
questi laghi del Caracorum?
- Se
continuiamo ad avanzare con questa velocità, vi giungeremo prima di domani
sera.
- Che il
capitano abbia qualche appuntamento in quel luogo?
- Colle trote
forse?
- Uhm! Vedremo
se saranno trote, mio caro Fedoro. Questa volata verso il nord mi è sospetta.
- Verso il
nord-ovest - corresse il negoziante di tè, gettando uno sguardo su una bussola
situata presso la prora.
Mentre si
scambiavano i loro pensieri, lo «Sparviero» continuava la sua corsa
indiavolata, lottando senza fatica contro il gelido vento che soffiava dalla
non lontana Siberia. Si era elevato fino a quattrocento metri e di quando in
quando deviava ora a destra e ora a sinistra, come se il capitano cercasse un
luogo acconcio per discendere.
Vedendo
finalmente delinearsi all'orizzonte una piccola catena di alture, puntò verso
di essa, spingendo la velocità a quaranta e anche più miglia all'ora. La
regione d'altronde era sempre deserta, interrotta solamente da zone nevose
sulle quali si vedevano correre, con fantastica rapidità, numerosi cani
viverrini, animali somiglianti alle martore, col corpo assai allungato, la
testa corta e affilata, le gambe assai basse e il pelame bruno, con striature
più oscure. Probabilmente andavano in cerca di qualche laghetto, essendo
abilissimi pescatori.
Verso le
cinque, nel momento in cui il sole scompariva e che le tenebre calavano
rapidissime, lo «Sparviero» calava dolcemente su una collinetta sulla quale
crescevano macchie di betulle, di lauri e di piccoli pini.
- La cena è
pronta - disse il macchinista.
- E noi siamo
pronti a divorarla - rispose il capitano.
- Speriamo che
nessuno venga a disturbarci - disse Rokoff.
- Qui non
siamo sull'Hoang-ho e finora non abbiamo incontrato alcun abitante. Prima di
discendere ho osservato attentamente i pendii della collina e non ho scorto
alcun accampamento.
- Signori,
quando vorrete.
Quantunque
soffiasse un vento freddissimo, cenarono sul ponte, al riparo d'una tenda di
feltro che il macchinista aveva tesa onde non si spegnesse la lampada ad
acetilene.
- Ritengo
inutile montare la guardia - disse il capitano, quando ebbero finito. -
Chiuderemo il boccaporto e dormiremo tranquillamente.
- Non vi sono
animali feroci nel Gobi? - chiese Rokoff.
- Sì, degli
orsi e dei leopardi delle nevi, ma il fuso è troppo solido per le loro unghie.
Signori, andiamo a dormire.
Alzarono le
ali onde qualche animale non le guastasse, chiusero il boccaporto e si
ritirarono nelle loro cabine, augurandosi la buona notte.
Rokoff, che
non era molto stanco, invece di chiudere gli occhi e di spegnere la sua
lampadina, si gettò sul letto per fumare ancora qualche pipata di tabacco. Di
quando in quando prestava orecchio agli urli del vento che da qualche po' era
aumentato, spazzando la cima della collina e torcendo con mille scricchiolii le
cime dei pini, dei lauri e delle betulle e piegando anche le immense ali dello
«Sparviero».
Senza sapere
il perché, il buon cosacco non si sentiva tranquillo e pensava ostinatamente
agli orsi e alle pantere accennate dal capitano.
Stava però per
chiudere gli occhi e cedere al sonno, quando gli parve udire dal lato della
parete contro cui si appoggiava il lettuccio, degli stridii inesplicabili.
Pareva che
delle unghie robustissime grattassero l'esterno del fuso.
- Che sia il
vento che rotola dei sassi contro la parete metallica? - si chiese. - Oppure
qualcuno che cerca di arrampicarsi sul ponte?
Un po'
inquieto s'alzò a sedere, tendendo gli orecchi. Il vento fischiava fortissimo
al di fuori, imprimendo al fuso un leggero fremito, causato probabilmente dalle
ali, nondimeno udì distintamente certi stridori poco rassicuarnti.
- Qualche
animale cerca d'intaccare la parete metallica - disse Rokoff. - L'alluminio non
cederà di certo, ma se quella bestia giunge sul ponte e se la prende colle ali?
Vedendo
sospesa sopra il letto una grossa rivoltella, la impugnò, poi prese la lampada
ed entrò nella cabina di Fedoro, che si trovava attigua alla sua.
Il russo
dormiva profondamente, ben avvolto nella sua grossa coperta di lana.
- Svegliati -
gli disse, scuotendolo vigorosamente.
- Che cosa fai
qui, Rokoff? - chiese il russo, aprendo gli occhi e guardandolo con stupore.
- C'è qualcuno
che cerca di salire sul ponte.
- Hai sognato,
Rokoff?
- Non ho
ancora chiuso gli occhi.
- Chi può
minacciarci? Qui non vi sono i manciù.
- Vi sono
delle belve, però.
- Il
boccaporto è chiuso e il fuso è solido.
- E se fanno a
brani le ali? O se guastano le eliche e gli strumenti?
- Hai ragione
Rokoff - disse Fedoro balzando dal letto e infilando rapidamente i calzoni. -
Hai svegliato il capitano?
- Siamo in due
e basteremo.
- Hai veduta
la belva?
- No, invece
l'ho udita. Vieni nella mia cabina e prendi anche tu la rivoltella.
Fedoro si
vestì e lo seguì frettolosamente.
- Odi? -
chiese Rokoff, accostando un orecchio alla parete.
- Sì, il vento
che urla.
- Ascolta
attentamente, Fedoro.
- Ah! Qualcuno
tenta d'intaccare il metallo.
- E sopra? Hai
udito?
- Sì, qualche
oggetto è stato rotolato sul ponte.
- Che siano i
nomadi del deserto?
- Rokoff,
andiamo a vedere. Abbiamo dodici palle e di grosso calibro.
- Saliamo,
Fedoro.
- Senza
avvertire il capitano?
- Noi non
sappiamo ancora se esista veramente qualche pericolo; lasciamolo quindi dormire
per ora.
- Andiamo,
Rokoff.
- Tu prendi la
lampada e sta dietro di me.
Salirono in
punta dei piedi i quattro gradini che mettevano sotto il boccaporto, poi il
cosacco tirò risolutamente la sbarra che tratteneva internamente la botola e
saltò fuori, tenendo la rivoltella puntata.
Fedoro lo
aveva subito seguito, ma un furioso colpo di vento aveva spento la lampada che
teneva nella sinistra.
- Ah! Per le
steppe...
Rokoff non
finì la frase. Aveva fatto un salto indietro, urtando così malamente il
compagno da farlo cadere.
Fra le tenebre
aveva veduto un'ombra agitarsi a poppa, presso la ruota del timone. Era un uomo
o una belva?
Il cosacco,
ancora abbagliato dalla luce della lampada, non poté subito sapere con quale
avversario aveva a che fare. Tuttavia puntò risolutamente la rivoltella e
scaricò, uno dietro l'altro, tre colpi.
L'ombra mandò
un urlo rauco, poi, con un balzo, varcò la balaustrata, precipitando giù dal
fuso.
- Colpito? -
chiese Fedoro, che si era prontamente risollevato e che si preparava, a sua
volta, a far fuoco.
- Ferito,
forse - rispose il cosacco, slanciandosi verso la balaustrata.
L'ombra si era
subito rialzata e galoppava fra i cespugli, cercando di guadagnare un folto
gruppo di betulle. In quel momento il capitano e il macchinista comparvero sul
ponte, entrambi armati di carabine.
- Che cosa
fate qui, signori? - chiese. - Contro chi avete fatto fuoco?
- Ho sparato
contro un animale che passeggiava sul cassero - rispose Rokoff.
- L'avete
veduto bene?
- Vagamente.
- Qualche
leopardo delle nevi?
- Mi parve
piuttosto un orso, capitano - disse Fedoro.
- È fuggito?
- Sì - disse
Rokoff.
- Perché non
avvertirci? Potevano essere più d'uno e assalirci.
- Avevamo
dodici colpi.
- Signori
miei, ammiro il vostro coraggio e sono ben lieto d'aver preso con me due uomini
senza paura. Ha guastato qualche cosa quell'animale?
- Non mi pare.
- E come vi
siete accorti che il ponte era stato invaso?
- Ero ancora
sveglio e ho udito qualcuno che cercava di arrampicarsi - disse Rokoff.
- Gli orsi non
sono rari nel Gobi, quantunque non molto pericolosi, se soli. Doveva essere un
melanoleco, un plantigrado che si trova solamente nel Tibet e nella Mongolia.
Domani cercheremo di scovarlo. Andiamo a riprendere il nostro sonno; ritengo
che dopo simile accoglienza non gli salterà più il ticchio di venire a
passeggiare sul nostro «Sparviero».
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