I LEOPARDI
DELLO SCIAMO
Nonostante le
parole rassicuranti del capitano, Rokoff tardò molto a chiudere gli occhi,
parendogli sempre di udire le unghie dell'orso contro la parete esterna del
fuso.
Non fu che
dopo la mezzanotte, quando il vento cominciava a scemare di violenza che, si decise
a spegnere il lume e ad abbandonarsi tra le braccia di Morfeo.
Tutta la notte
però non sognò che battaglioni di orsi accampati intorno al fuso, per impedire
agli aeronauti di uscire e di riprendere il volo.
Quando i primi
albori cominciarono a diffondersi nell'interno delle cabine, passando
attraverso le grosse lenti di cristallo incastrate sui fianchi del fuso, il
capitano svegliò il russo e il cosacco, gridando:
- In piedi,
signori; spero di potervi offrire per colazione un eccellente zampone d'orso,
un boccone da re.
Si era armato
di tre carabine Express armi di corta portata, non superando i quattrocento
metri, preferibili a tutti gli altri fucili da caccia, perché le loro palle,
vuote internamente, oltre a raggiungere una grande velocità, producono delle
ferite terribili in causa della loro larga espansione.
Ne diede una a
ciascuno, poi fece aprire il boccaporto e, dopo aver ascoltato qualche po' salì
sul ponte, girando all'intorno un rapido sguardo. L'orso non doveva più essere
tornato. Gli strumenti, bussole, barometri e termometri sospesi alla
balaustrata, occupavano ancora il medesimo posto di prima, mentre sarebbero
stati per lo meno guastati dal plantigrado, nel superare la murata.
Solamente una
cassa era stata rovesciata, probabilmente nella fuga precipitosa dell'animale.
- Non ha più
osato arrampicarsi sul fuso, - disse il capitano - che sia stato ferito?
Si diresse
verso prora e scorse sul ponte alcune gocce di sangue.
- L'avete
colpito - disse volgendosi verso Rokoff. - Può essere già morto in mezzo a
qualche macchia. Andiamo a cercarlo.
Discesero dal
fuso e si avventurarono fra i cespugli che ingombravano la cima della collina.
Procedevano
cauti, non essendo certi che quell'orso fosse stato solo, anzi Rokoff
sospettava il contrario, avendo udito contemporaneamente raschiare la parete e
il ponte.
A cinquanta
metri dall'aerotreno s'alzava una fitta macchia di betulle, circondata da
cespugli di noccioli selvatici. I tre aeronauti, supponendo che l'animale si
fosse rifugiato là dentro, si diressero a quella volta, tenendo pronte le
carabine, onde evitare qualunque sorpresa.
Avevano già
superata mezza distanza, quando udirono improvvisamente il macchinista urlare:
- Aiuto,
capitano! Aiuto!
- Per
centomila orsi! - esclamò Rokoff, facendo un rapido voltafaccia. - Chi assale
il nostro giovane?
Il
macchinista, con un solo salto, si era precipitato giù dal fuso e correva a
tutte gambe verso i cacciatori, cogli occhi strabuzzati dal terrore e i
lineamenti sconvolti.
- Cos'hai? -
chiese il capitano, muovendogli rapidamente incontro.
- Là!...
là!... sul fuso... un animale!... - rispose il giovanotto, con voce strozzata.
- Stava per balzarmi addosso!...
- Un animale
sul nostro «Sparviero»! - esclamò il capitano.
- Hai sognato?
- No, signore...
l'ho veduto... usciva di sotto la tenda che copre le casse di poppa
- Un orso? -
chiese Rokoff.
- No... non
era un orso... pareva una tigre.
- È
impossibile! - esclamò il capitano.
- Vi dico
invece che è possibile - disse Fedoro. - Non è raro trovarle anche nella
Manciuria.
- La cosa
diventa seria - rispose il capitano. - Preferirei affrontare una coppia d'orsi.
L'hai veduta fuggire?
- Non so se
sia rimasta sul ponte o se sia balzata fra i cespugli - rispose il macchinista.
- Appena l'ho veduta comparire sono saltato a terra.
- Signori -
disse il capitano, volgendosi verso il russo e il cosacco. - Siete bravi
tiratori?
- Entrambi -
rispose Fedoro.
- Non mancate
ai vostri colpi; le tigri non hanno paura e si gettano coraggiosamente sui
cacciatori.
- Le ho già
conosciute in India - disse Fedoro.
- E io farò la
loro conoscenza ora - aggiunse Rokoff.
- Dove si
trovava nascosta? - chiese il capitano al macchinista.
- A poppa,
signore.
- Attaccheremo
dalla prora.
Tenendosi
curvi per non farsi vedere dal sanguinario felino, si diressero lentamente
verso l'aerotreno, seguiti a breve distanza dal macchinista, il quale si era
armato d'un grosso ramo di pino che aveva trovato al suolo.
La tigre,
(supposto che fosse veramente tale) non dava segno di vita. Era fuggita approfittando
del terrore del macchinista o si teneva nascosta dietro alla macchina e alle
casse, per poi piombare improvvisamente sui cacciatori?
- Pare che non
sia troppo coraggiosa - disse Rokoff. - Che si sia accorta che noi siamo uomini
capaci di levarle la pelle? Non riesco a vederla.
- Si terrà
nascosta - rispose il capitano.
- La
vigliacca! Saremo costretti ad andarla a prendere per la coda.
- Un'impresa
che affiderò a voi solo, signor Rokoff.
- Se si
ostinasse a non mostrarsi, bisognerà andarla a cercare.
- La snideremo
egualmente prendendola alle spalle.
Erano giunti
dinanzi alla prora del fuso, ma la tigre non si scorgeva sul ponte.
Il capitano
fece il giro del tribordo per vedere se si trovava rannicchiata dietro la
macchina.
- Nulla, -
disse - deve essere fuggita.
- Peccato -
rispose Rokoff. - Sarei stato contento di vederla balzare fuori.
- Sarà per
un'altra volta - disse il capitano. - Saliamo.
- E l'orso? -
chiese il cosacco, che voleva assolutamente affrontare qualche animale.
- Passeremo
sopra le macchie e se lo vedremo scenderemo. Macchinista innalziamoci.
- Non domando
che due minuti, signori.
Salirono sul
fuso e si accertarono che il pericoloso animale non vi fosse più. Sotto la
tela, però, trovarono alcuni fiocchi di pelo che non appartenevano certo a un
orso.
- La briccona
si era nascosta lì sotto - disse Rokoff. - Contava di fare colazione colle
nostre bistecche.
Deposero i
fucili a prora, appoggiandoli alla balaustrata e si radunarono a poppa per
sorseggiare una eccellente tazza di tè, che il capitano aveva preparato
servendosi d'una lampadina ad alcool.
Lo «Sparviero»
intanto s'innalzava lentamente, descrivendo una specie di spirale, onde
raggiungere i trecento metri.
- Adagio -
disse al macchinista. - Cerchiamo di scoprire l'orso. Mi rincrescerebbe non
mantenere la promessa.
- Quale,
signore? - chiese Rokoff.
- Di offrirvi
per colazione uno zampone squisitissimo. Aprirò per bene gli occhi. Le macchie
non sono molto folte e, se è vero che l'orso è stato ferito, non deve essere
andato molto lontano.
Lo
«Sparviero», raggiunta l'altezza voluta, stava filando sopra i pini e gli
aceri, quando Rokoff e il capitano videro il macchinista abbandonare
precipitosamente la macchina.
- Che cosa c'è
ancora? - chiese il comandante, stupito.
- Signore... -
balbettò il giovane pallido come un morto. - La tigre è a bordo!...
- Ma tu
vaneggi, giovanotto mio - disse Rokoff. - Tu hai una tigrite acuta indosso.
- Ho udito...
un grido rauco... là... sotto il boccaporto...
- Per
l'inferno! - esclamò il capitano, impallidendo. - Possibile!
Stava per
slanciarsi a prora onde prendere le carabine, quando vide sorgere dal
boccaporto una testa che lo fece retrocedere precipitosamente.
Un animale si
era aggrappato al margine della botola e tentava di giungere sul ponte. Era una
bestia superba che rassomigliava un po' alle tigri, di corporatura massiccia,
con zampe corte, la testa allungata col muso sporgente e il pelame grigio
biancastro a riflessi giallastri, sparso di macchie nere di forma circolare.
Un animale
pericoloso senza dubbio. Se non raggiungeva la mole delle grandi tigri reali,
non la cedeva di certo, per grossezza, a quelle comuni. Pareva molto sorpreso e
fors'anche spaventato di sentire il fuso ondulare. I suoi grandi occhi dalle
pupille giallastre, manifestavano un vivo terrore e il suo pelame era irto.
- Un irbis!
- aveva esclamato il capitano. - Un leopardo delle nevi! Badate! Vale una
tigre!
- Per le
steppe del Don! - gridò Rokoff. - E i fucili sono a prora!...
- Non
muovetevi! - Comandò il capitano. - L'irbis potrebbe precipitare
l'assalto.
II cosacco,
invece di obbedire, fece due passi innanzi e s'impadronì rapidamente d'una
specie d'arpione, che serviva al macchinista per tendere la seta dei piani
inclinati.
- Almeno
servirà a qualche cosa - disse, raggiungendo sollecitamente i compagni. - La
punta è acuta e forerà la pelle della belva.
- Se potessimo
abbassarci, l'irbis sarebbe ben contento d'andarsene - disse Fedoro. -
Mi pare che sia più spaventato di noi.
- Bisognerebbe
avvicinarsi alla macchina - rispose il capitano. - Chi oserebbe farlo?
- Volete che
provi io? - chiese Rokoff.
- No, sarebbe
troppo pericolosa una tale mossa.
- Volete
continuare il viaggio con un simile compagno? Non oserei chiudere gli occhi.
- Come
abbassarci? - chiese Fedoro. - Non v'è alcun mezzo, capitano?
- Nessuno se
non rallentiamo la battuta delle ali - rispose il comandante. - Ah! Pare che si
decida a sgombrare! Se si provasse a saltare!
- Un
capitombolo di quattrocento metri! Non lo tenterò di certo - disse Rokoff.
L'irbis,
dopo essere rimasto qualche minuto immobile presso il boccaporto, rannicchiato
su se stesso, aveva fatto un passo indietro, senza staccare gli occhi dai
quattro aeronauti.
Non pareva
troppo contento di quel viaggio intrapreso involontariamente.
Brontolava
sordamente, arricciava il pelo e agitava nervosamente la lunga coda inanellata.
Di quando in quando un brivido lo faceva sussultare e girava la testa a diritta
e a manca come se cercasse di scorgere qualche albero su cui slanciarsi.
Aveva
cominciato a indietreggiare lentamente allungando, con precauzione, prima una
zampa e poi le altre, senza abbandonare tuttavia la sua posa d'assalto. Vedendo
Rokoff fare un passo innanzi coll'arpione teso, arrestò la sua marcia
retrograda e si raccolse su se stesso come fanno i gatti quando si preparano a
slanciarsi sul topo.
Aprì le
formidabili mascelle, mostrando due file di denti, bianchi come l'avorio e
aguzzi come triangoli, mandando un rauco brontolio che finì in un soffio
poderoso.
- No, Rokoff!
- disse Fedoro. - Si prepara ad assalirci.
- Fermatevi -
comandò il capitano, il quale si era impadronito d'una pesante cassa per
scaraventarla contro la belva, nel caso si fosse slanciata innanzi. -
Lasciatela indietreggiare.
- Finiamola -
disse il cosacco. - Siamo in quattro.
- E tre sono
inermi - disse Fedoro. - Vuoi farci sbranare?
- Lasciate che
si allontani dalla macchina - rispose il capitano. - Poi scenderemo.
L'irbis
stette qualche po' immobile, continuando a brontolare, poi con un balzo di
fianco si avventò verso la balaustrata, aggrappandosi ai ferri e guardando
abbasso. Per un momento i quattro aeronauti credettero che si slanciasse nel
vuoto; la loro speranza però ebbe la durata di pochi secondi.
La fiera,
spaventata dall'abisso che le si apriva dinanzi, si era lasciata ricadere sul
ponte. Tremava, come se avesse la febbre e gettava all'intorno sguardi
smarriti, nei quali però balenava sempre un lampo di ferocia.
Ricominciò a
retrocedere verso la prora, guatando cupamente gli aeronauti che non osavano
ancora muoversi e si rannicchiò dietro una cassa, manifestando la sua rabbia
con frequenti brontolii e con un incessante agitare della coda.
- La macchina
è libera - disse Rokoff. - Approfittiamone.
- Lasciate
fare a me - rispose il capitano. - Voi non muovetevi.
- Non vi
assalirà?
- Può darsi.
- Allora
signore vi domando il permesso di affrontare io il pericolo. Voi siete il
capitano e dovete essere l'ultimo a esporre la vostra vita.
- Ma anch'io
reclamo l'onore di farmi divorare per salvare voi - disse Fedoro.
- Né l'uno né
l'altro - rispose il comandante. - D'altronde voi non sapete maneggiare la
macchina.
Vedendo poi
che il russo ed il cosacco aprivano le labbra per replicare, aggiunse con voce
quasi dura:
- Basta,
signori. Mi rincresce ricordarvi che il capitano sono io e che perciò voi mi
dovete obbedienza assoluta.
Poi con un
sangue freddo ed un'audacia ammirabile, s'avanzò verso la macchina,
dardeggiando sulla fiera uno sguardo che pareva di sfida.
L'irbis
non si era mosso; solamente le sue poderose unghie si erano infisse
profondamente sulla cassa, sgretolando il legno.
Il capitano
fece agire la leva, poi retrocesse tranquillamente, senza staccare i suoi occhi
dal feroce avversario.
- Ecco fatto -
disse con una voce perfettamente tranquilla. - Fra cinque minuti saremo a
terra.
Lo «Sparviero»
cominciava infatti a discendere. Il movimento delle eliche era stato arrestato
e le ali non battevano più che leggermente.
- Dove
cadremo? - chiese Rokoff. Il capitano si curvò sulla balaustrata.
La collina era
stata attraversata e l'aerotreno scendeva sul deserto che in quel luogo era
coperto da un lieve strato di neve già indurita dal gelido vento del
settentrione.
- Tutto va
bene - disse. - Tenetevi pronti ad afferrare le carabine, appena il leopardo ci
lascerà.
Lo
«Sparviero», sorretto solamente dai piani inclinati, continuava ad abbassarsi
dolcemente.
L'irbis
sempre più spaventato dalle ondulazioni che subiva il fuso, continuava a
brontolare e a dare segni d'inquietudine. S'alzava sulle zampe posteriori
fiutando rumorosamente l'aria e girava continuamente la testa in tutti i sensi.
A un tratto avvenne un urto: lo «Sparviero» aveva toccato terra.
- Attenzione!
- gridò il capitano.
Il leopardo
con un salto immenso aveva varcata la balaustrata precipitandosi sulla neve.
Stette un
momento immobile, stupito forse di trovarsi a terra, poi spiccò tre o quattro
salti dirigendosi verso un gruppetto di betulle nane.
Il capitano,
Rokoff e Fedoro si erano precipitati sulle carabine.
- Fuoco!...
Tre spari
rimbombarono formando quasi una sola detonazione.
Il leopardo
che si trovava a solo cento passi dal fuso, si rizzò di colpo mandando un urlo
prolungato, girò due volte su se stesso, poi cadde in mezzo alla neve, agitando
pazzamente le zampe.
Quasi nel
medesimo istante si udirono dei clamori selvaggi, poi degli spari.
- Mille
folgori! - esclamò Rokoff. - Che cosa succede ancora?
- I mongoli! -
gridò il capitano. - Su, alziamoci!
- E il
leopardo?
- Lo lasceremo
a quei banditi; ci manca il tempo di raccoglierlo. Presto: grandina e
s'avanzano al galoppo.
Un istante
dopo lo «Sparviero» s'alzava maestosamente, salutato da una scarica di fucili.
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