L'INSEGUIMENTO
DEI MONGOLI
Una banda di
cavalieri era uscita improvvisamente dalle macchie di betulla e s'era
slanciata, a corsa sfrenata, verso lo «Sparviero», urlando a piena gola e
scaricando all'impazzata colpi di fucile.
Erano quaranta
o cinquanta, tutti di statura bassa ma vigorosi, coperti per la maggior parte
di pelli di montone, colla lana all'infuori e di ermellini, con lunghi stivali
di feltro nero simili a quelli che usano i manciuri, ed il capo difeso da
berrettoni di pelo di cane o di zibetto.
Brutti tipi
d'altronde, con facce lunghe e piatte color dei meloni, cogli occhi obliqui e
sporgenti, con lunghe barbe arruffate e code pure lunghissime, adorne di nastri
sbrindellati.
Erano tutti
armati di fucili antichissimi, parte a miccia e parte a pietra, di pistoloni,
di scimitarre dalla lama larghissima e di coltellacci somiglianti un po' agli jatagan
degli afgani e montavano dei cavallucci magrissimi, colle teste molto
allungate, dalle gambe secche e nervose che correvano come il vento, agitando
le lunghe code.
In mezzo a
loro saltellavano abbaiando, degli splendidi molossi di razza tibetana, dai
dorsi poderosi, le labbra penzolanti, il muso raggrinzato, reso maggiormente
feroce da due profonde piegature, e le code villose, terribili animali usati
per guardare gli armenti e che non temono di affrontare gli orsi delle steppe,
vincendoli facilmente.
- Chi sono
costoro? - chiese Rokoff, il quale aveva introdotta una nuova cartuccia nella
carabina. - Dei briganti?
- Nomadi
mongoli - rispose il capitano, che li osservava attentamente. - Se non sono
veramente dei briganti, sono egualmente da temersi e non vorrei trovarmi fra le
loro mani.
- E vogliono
darci la caccia?
- Spereranno
d'impadronirsi del mio «Sparviero».
- Si vede che
non lo hanno scambiato per un mostruoso drago come i cinesi. Sono meno
superstiziosi e più coraggiosi.
- E poi ci
hanno veduti - aggiunse Fedoro. - Avranno pensato che un drago non si lascia
montare dagli uomini e avranno indovinato che questa è una superba macchina
volante.
- Rovineranno
inutilmente i loro cavallucci - disse Rokoff. - Non possono lottare con noi, è
vero capitano?
- Speriamolo -
rispose il comandante, con un certo accento però che colpì vivamente il russo e
il cosacco.
- Perché dite
«speriamolo» signore? - chiese Rokoff, guardandolo.
Una banda di
cavalieri s'era slanciata a corsa sfrenata scaricando colpi di fucile...
- Temo che
dovremo respingerli con le armi.
- Se corriamo
con una velocità di trenta e più miglia all'ora?
- Durerà?...
- Ah! Signore!
Forse che è avvenuto qualche guasto nella macchina?
- No, è ancora
l'ala spezzata dalla palla dei manciù che non resisterà a lungo - rispose il
capitano, il quale teneva gli sguardi fissi in alto. - Temo che il vento che è
soffiato violentissimo la scorsa notte abbia danneggiata la saldatura, fatta
troppo frettolosamente.
- Per le
steppe del Don!
- La vedo
oscillare sempre più e non oso forzare la corsa, anzi saremo costretti a
rallentarla. Guardate, signori.
Rokoff e
Fedoro, molto inquieti per quelle parole scoraggianti, alzarono gli sguardi.
L'ala,
indebolita dai soffi poderosi del vento siberiano, e saldata alla meglio dal
macchinista a cui era mancato il tempo, in causa dell'improvviso arrivo della
giunca, subiva delle oscillazioni violentissime, accennando a piegarsi.
- Che cosa ne
dici macchinista? - chiese il capitano.
- Che finirà
per cadere nuovamente - rispose l'interrogato. - Temendo che i manciù ci
piombassero addosso, non ho potuto completare il mio lavoro e non ho fatto che
delle rilegature, signore. La colpa è mia, ma il tempo stringeva ed il pericolo
incalzava.
- Tu hai fatto
quello che hai potuto, mio bravo ragazzo - rispose il capitano. - La colpa è
dei manciù.
- O meglio di
quel cane di tartaro che io avrei appiccato con molto piacere - disse Rokoff.
- Rallenta la
corsa.
- Sì, signore
- rispose il macchinista.
- Ed i
mongoli? - chiese Rokoff.
- Lasciamo che
ci corrano dietro, per ora. Vedo all'orizzonte delle colline e se potremo
superarle li lasceremo indietro - disse il capitano. - Tuttavia prepariamoci a
far parlare i fucili. Ho delle carabine di lunga portata, degli ottimi
Remington che a millecinquecento metri non sbagliano il bersaglio e anche dei
fucili americani da sedici per mitragliare cavalli e cavalieri a
duecentocinquanta passi.
- Voi
possedete un vero arsenale, signore!...
- E che come
vedete ci serve. Lasciate le carabine Express che hanno una portata troppo
limitata e che sono più adatte ad affrontare le fiere che a combattere gli
uomini e armiamoci coi Remington.
Mentre il
macchinista, abbandonata la ruota al capitano, andava a prendere le armi, i
mongoli continuavano vigorosamente la caccia, sferzando e speronando le loro
cavalcature.
Dopo il primo
slancio dello «Sparviero», erano rimasti subito indietro, ma da qualche minuto,
rallentata la marcia dell'aerotreno per non compromettere l'ala già troppo
malferma, avevano cominciato a guadagnare qualche centinaio di passi.
Si trovavano
però ancora a mille e duecento o trecento metri, ossia troppo lontani perché le
palle dei loro moschettoni potessero giungere fino allo «Sparviero». Tuttavia
di quando in quando, forse per entusiasmarsi o forse per intimorire gli
aeronauti, sparavano qualche colpo, assolutamente inoffensivo, perché quelle
vecchie armi non dovevano avere che una portata molto limitata, malgrado le
grosse cariche di polvere.
- Pare che
siano proprio decisi a prenderci - disse Rokoff a Fedoro.
- Finché i
loro cavalli non cadranno, continueranno a darci la caccia.
- Sono cattivi
questi mongoli?
- Forse no,
anzi sono ospitali, tuttavia non c'è da fidarsi di loro.
- L'hanno più
collo «Sparviero» che con noi.
- Vorranno
impadronirsene.
- Resisterà
l'ala?
- Lo dubito,
Rokoff. Oscilla sempre più forte e m'aspetto di vederla cadere da un momento
all'altro.
- E
precipiteremo anche noi dopo.
- Vi sono le
eliche.
- Non basteranno
ad innalzarci.
- Impediranno
o almeno ritarderanno molto la nostra discesa.
- Se potessimo
raggiungere prima quelle colline che occupano tutto l'orizzonte settentrionale!
- Riusciremo a
superarle?
- Non mi
sembrano molto alte - rispose Fedoro, che le osservava attentamente.
- E noi ci
troviamo?
- A
quattrocento metri d'altezza.
- Se potessimo
innalzarci di più!
- Il capitano
non osa forzare troppo le ali.
- Ah,
- Cos'hai
Rokoff?
- I mongoli
accelerano la corsa e riprendono il fuoco.
- Sono ancora
troppo lontani perché le loro palle giungano fino qui.
- E noi siamo
abbastanza vicini per fucilarli - disse il capitano che li aveva raggiunti,
portando tre splendidi Remington. - Volete provare! Il bersaglio non è che a
mille metri ed è molto visibile. A voi, signor Rokoff; i cosacchi sono, in
generale, dei buoni tiratori.
- Cercherò di
non smentire la loro fama, capitano. Mirerò il capofila, quello che monta quel
cavalluccio morello. L'uomo o l'animale?
- Il cavallo
prima; d'altronde il mongolo a piedi è come il gaucho della pampa
argentina. Non conta più, essendo un pessimo camminatore.
- Vediamo -
disse Rokoff.
S'appoggiò
alla balaustrata di poppa, si piantò bene sulle gambe, poi abbassò lentamente
il fucile mirando con grande attenzione.
L'arma rimase
un momento ferma, tesa quasi orizzontalmente, poi uno sparo risuonò lungamente
fra le collinette sabbiose del deserto.
Il cavallo
morello s'impennò violentemente rizzandosi sulle gambe posteriori e scuotendo
la testa all'impazzata, poi cadde di quarto, sbalzando a terra il cavaliere
prima che questi avesse avuto il tempo di sbarazzare i piedi dalle staffe.
Altri tre cavalli che venivano dietro a corsa sfrenata, inciamparono nel
caduto, stramazzando l'uno addosso all'altro e scavalcando gli uomini che li
montavano.
- Ben preso,
signor Rokoff - disse il capitano. - Scommetterei un dollaro contro cento che
la vostra palla ha colpito quell'animale in fronte. Vi ammiro.
- Tiro come un
cosacco delle steppe - rispose Rokoff, ridendo.
I mongoli,
sorpresi e anche spaventati da quel colpo maestro si erano arrestati intorno ai
caduti urlando. La loro sosta fu brevissima. Appena videro i compagni
rialzarsi, ripartirono al galoppo, sparando e vociando.
- Ah! Non ne
hanno abbastanza! - esclamò il capitano. - Vogliono farsi smontare? Sia!
Stava per
puntare il fucile, quando in aria si udì uno scricchiolio, poi il fuso si
spostò, piegandosi un po' su un fianco.
- Maledizione!
- gridò il capitano. - L'ala ha ceduto! Macchinista, le eliche prima che la
discesa cominci!
Il fuso non si
era ancora abbassato, quantunque il movimento delle ali fosse stato subito
arrestato. Soffiando un fresco venticello i piani inclinati lo avevano sorretta
in modo da far conservare al fuso la sua altezza di quattrocento metri.
- Ci
raggiungeranno, è vero capitano? - chiese Rokoff.
- I mongoli?
- Sì.
- Guadagnano
già.
- Ed il vento
è debole - aggiunse Fedoro.
- Signori, si
tratta di non risparmiare le cartucce, almeno fino a quando avremo raggiunto o
superate quelle colline.
- Rokoff -
disse Fedoro. - A me il cavaliere di destra; a te quello di sinistra.
- Ed a me
quello che li segue - aggiunse il capitano. - Vediamo se possiamo arrestarli.
Puntarono le
armi appoggiandole sulla balaustrata, poi fecero fuoco a pochi secondi
d'intervallo.
Questa volta
non erano stati tutti cavalli a cadere. Due avevano continuata la loro corsa
senza i loro padroni, i quali giacevano sulla neve senza moto. Il terzo invece
era stramazzato come fosse stato fulminato, facendo fare al suo signore una
superba volata in avanti.
I mongoli,
vedendo quel massacro, per la seconda volta si erano arrestati, urlando
ferocemente e scaricando i loro moschettoni, le cui palle non potevano ancora
giungere fino allo «Sparviero».
La paura
cominciava a prenderli. Passarono parecchi minuti prima che si decidessero a
continuare l'inseguimento.
Conoscendo
ormai l'immensa portata delle armi degli aeronauti, non si avanzavano più colla
foga primitiva e rallentavano sovente lo slancio dei loro cavalli.
- La nostra
scarica ha prodotto un buon effetto - disse il capitano.
- È stata una
vera doccia fredda che ha calmato i loro entusiasmi bellicosi - rispose Rokoff.
- Volete continuare capitano?
- È inutile
sacrificare altre vite umane. Sono dei poveri selvaggi che meritano
compassione. Finché si tengono lontani e non ci fucilano, lasciamoli galoppare.
D'altronde, fra una mezz'ora noi li perderemo di vista; le colline sono poco
lontane.
- Non potranno
superarle? - chiese Fedoro.
- Non credo.
Le ho osservate poco fa col cannocchiale e mi sono accertato che sono
assolutamente impraticabili per cavalli. Sono dei veri ammassi di rocce
colossali, quasi tagliate a picco, senza passaggi - rispose il capitano. -
Prima che i mongoli possano girarle, trascorreranno molte ore e noi
guadagneremo tanta via da non temere più di venire raggiunti.
- Nondimeno
teniamoci pronti a fare una nuova scarica - disse Rokoff, il quale tormentava
il grilletto del fucile. - Ce la prenderemo ancora coi cavalli.
I mongoli
invece si tenevano ad una distanza considerevole, pur continuando la caccia.
Che cosa attendevano? Che lo «Sparviero» si decidesse a scendere o che, esausto
capitombolasse?
Magra
speranza, perché l'aerotreno non accennava ad abbassarsi nemmeno d'un metro.
Sorretto dai piani inclinati e dalle eliche orizzontali e rimorchiato da quella
proviera, continuava la sua marcia, quantunque il vento non accennasse ad
aumentare.
Solamente la sua
velocità da trenta miglia all'ora era discesa ad appena dieci e se i mongoli
avessero voluto, avrebbero potuto facilmente raggiungerlo e moschettarlo. Alle
dieci le colline non si trovavano che a cinquecento metri. Formavano una
immensa doppia collina, la quale si estendeva dall'est all'ovest per parecchie
decine di miglia.
Più che
colline erano rocce colossali e aridissime. Non si vedeva spuntare, né sui loro
fianchi né sulle loro cime, la menoma pianticella ed erano così rigide da non
permettere la scalata nemmeno a una scimmia.
Non essendo
alte più di trecento metri lo «Sparviero», che manteneva i suoi quattrocento
metri, poteva facilmente sorpassarle senza urtarvi contro.
I mongoli,
accorgendosi che la preda agognata stava loro per sfuggire, sferzavano
violentemente i cavalli e raddoppiarono i loro clamori, ricominciando un fuoco
violentissimo, quantunque ancora inefficace per la poca portata delle loro
armi. Si agitavano furiosamente sulle loro cavalcature, snudavano le loro
scimitarre trinciando colpi a destra ed a manca ed insultavano gli aeronauti i
quali si accontentavano di sorridere a quell'impotente rabbia.
- Ci
prenderete un'altra volta? - gridò a loro Rokoff, minacciandoli col fucile. -
Per ora non abbiamo tempo di occuparci di voi.
Una scarica
violentissima fu la risposta, ma ormai lo «Sparviero» filava maestosamente
sulla prima catena di rocce, attraversando un immenso abisso. I mongoli
s'arrestarono dinanzi a quegli ostacoli insormontabili, continuando a sparare,
poi si slanciarono a corsa sfrenata verso l'est.
- Che cerchino
di girare le colline? - chiese Rokoff.
- Pare che ne
abbiano l'intenzione - rispose il capitano. - Dovranno però percorrere almeno
una quarantina di miglia prima di giungere là dove declinano e poi altrettante
e anche più per raggiungerci.
- I loro
cavalli non potranno di certo percorrere d'un fiato un centinaio e mezzo di
chilometri - disse Fedoro. - Sono già esausti.
- Mi rincresce
- disse Rokoff. - Questa caccia emozionante m'interessava.
- E se fossimo
caduti? - chiese il capitano. - I mongoli non ci avrebbero risparmiati, ve lo
assicuro, essendo assai vendicativi.
- Il vostro
«Sparviero» è troppo ben costruito per fare un capitombolo.
- Un guasto
poteva avvenire nella macchina. Meglio che la sia finita così, signor Rokoff.
- Ed ora dove
andiamo? - chiese Fedoro.
- A gettare le
nostre reti nei laghi del Caracoruzn - rispose il capitano con uno strano
sorriso.
- Tanto ci
tenete alle trote di quei laghi, signore? - domandò Rokoff.
- Si dice che
siano così eccellenti?
- Le avete
assaggiate ancora?
- No, me l'ha
detto un mio amico.
- Le
giudicheremo - concluse Rokoff, quantunque non credesse affatto che lo scopo di
quella corsa fossero veramente le trote.
Lo «Sparviero»
aveva allora superata anche la seconda catena di rocce e ridiscendeva verso il
deserto piegando un po' verso l'ovest.
Lo Sciamo, al
di là di quelle colline, perdeva molto della sua aridità. Se vi era maggior
copia di neve su quelle immense pianure si vedevano anche molte erbe altissime
e gruppi di betulle e di pini i quali formavano dei graziosi boschetti popolati
dai nidi di falchi, di pernici da neve, di lepri e di ermellini. Era quella la
regione abitata dai Chalkas, tribù di nomadi ospitali, che si dedicano
all'allevamento del bestiame e che vivono sotto vaste tende di feltro che
piantano qua e là, secondo che li spinge il capriccio.
In quel luogo,
in quel momento non si vedeva alcun attendamento. Probabilmente il freddo li
aveva ricacciati verso l'est per cercare pascoli più abbondanti sui pendii dei
Grandi Chingan o sulle rive del Kerulene della Chalka.
Poco dopo il
mezzodì lo «Sparviero» che aveva incontrata una corrente d'aria favorevole che
spirava dal sud-est, si librava a poca distanza da un laghetto, le cui rive
erano coperte da una vegetazione abbondante, composta di abeti giganteschi, di
betulle, di larici, di lauri, di cespugli, di rose canine, di pomi selvatici e
di noccioli.
- Possiamo
scendere - disse il capitano, facendo cenno al macchinista di arrestare le
eliche. - Le nostre trote ci aspettano.
- Ci fermeremo
molto qui? - chiese Rokoff.
- Finché il
macchinista avrà riparata l'ala in modo da garantirmi che non si spezzi più.
Avete forse fretta di tornare in Europa?
- Nessuna,
signore - rispose il cosacco.
- Ah! Il telegramma!
- Quale,
capitano?
- Quello del
vostro compagno. Signor Fedoro, volete scriverlo?
Il russo
guardò il capitano, il quale sorrideva.
- Vi è qui
qualche ufficio telegrafico? - chiese Fedoro.
- Qui no, ma
non è molto lontano.
- Se siamo nel
cuore del Gobi?
- E perciò?
Badate a me, preparate il telegramma per la vostra casa. Ah? Signor Rokoff, voi
non avete paura degli orsi, è vero? Vi avverto che qui non sono rari. Io vi
farò assaggiare le trote; voi uno zampone di plantigrado. Vi piace?
- Farò il possibile
per soddisfarvi, capitano - rispose il cosacco.
- Eccoci a
terra: facciamo colazione, poi a me le reti ed a voi i fucili. Passeremo qui
una bella giornata.
Poi balzò
verso la riva del lago, mentre Rokoff e Fedoro, sempre più sorpresi si
guardavano l'un l'altro, chiedendosi:
- Chi capirà
quest'uomo?
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