LE TROTE DEL
CARACORUM
Appena
terminata la colazione, Rokoff e Fedoro prendevano i fucili per andare in cerca
dell'orso, mentre il capitano andava a gettare le sue reti per prendere le
famose trote. Il macchinista invece, certo di non venire disturbato, si era
messo al lavoro per accomodare quella disgraziata ala, che per la seconda volta
aveva messe in così grave pericolo le vite degli aeronauti. La giornata era
splendida, quantunque dalla vicina Siberia soffiasse sempre un venticello
freddissimo che irrigidiva le mani e screpolava le labbra.
Il sole,
abbastanza tiepido, faceva scintillare vivamente le acque del lago, le quali
assumevano le più svariate tinte con striature d'argento e di porpora. Il russo
ed il cosacco, si erano subito cacciati sotto i boschi, levando numerose bande
di pernici da neve e di galli selvatici, che si erano ben guardati dal
salutarli a colpi di fucile per tema di spaventare la grossa selvaggina che poteva
celarsi in mezzo ai folti cespugli di nocciuoli e di betulle nane.
Procedevano
adagio adagio, girando intorno ai colossali tronchi degli abeti e dei pini con
mille precauzioni e fermandosi sovente per ascoltare.
- Credi che
noi troveremo qualche orso? - chiese ad un tratto Rokoff dopo che avevano
percorso quasi un miglio, senza aver incontrata nemmeno una lepre. - Mi pare
invece che queste macchie siano assolutamente deserte.
- Le trote le
troveremo questa sera; in quanto al prosciutto ho i miei dubbi. Che i
plantigradi non siano rari in queste regioni, è vero; ma trovarli subito, sotto
la canna del fucile non sarà cosa facile - rispose Fedoro.
- Mi
spiacerebbe non poter accontentare quello strano comandante. Sai che deve
essere un bell'originale?
- Comincio a
essere convinto. Non so; quell'uomo deve essere molto eccentrico.
- Allora sarà
un inglese.
- Non credo
non avendone la pronuncia.
- E perché
vuol conservare l'incognito?
- Non so che
cosa rispondere, Rokoff.
- Che sia
pazzo?
- Oh!
- Ha dei modi
così bizzarri!...
- Non dico il
contrario.
- L'altra
volta, per esempio, l'aveva col tè e come hai veduto, per procurarselo, per
poco non comprometteva la sicurezza di tutti. Questa volta invece l'ha con le
trote.
- È vero,
Rokoff.
- Un uomo
assai misterioso, Fedoro.
- Comunque sia
noi non possiamo lagnarci di lui.
- Oh no,
tutt'altro.
- Lasciamolo
quindi fare; forse un giorno riusciremo a conoscerlo meglio ed a comprendere le
sue eccentricità.
- E fors'anche
a sapere da dove è venuto ed a quale razza appartiene.
- Lui e anche
il macchinista.
- To'!
Chiacchieriamo come pappagalli e dimentichiamo gli orsi.
- Ne hai
veduto qualcuno?
- Non scorgo
che pini e abeti, betulle e pini. Se piegassimo verso il lago? In mancanza di
orsi fucileremo oche e anitre.
- Saremo più
fortunati e almeno non torneremo al campo colle mani vuote - rispose Fedoro.
Lasciarono le
macchie e si diressero verso il lago, il quale doveva essere vicinissimo,
udendosi le onde sollevate dal vento siberiano, infrangersi contro le sponde.
Attraversate
parecchie macchie, giunsero sulle rive d'una profonda insenatura sulle cui
acque si vedevano volteggiare dei giganteschi volatili dalle piume candidissime
e che mandavano dei lunghi fischi.
- Dei
pellicani? - chiese Rokoff, preparandosi a far fuoco.
- No, dei
superbi cigni - rispose Fedoro.
- Valgono bene
uno zampone d'orso.
- Sì, Rokoff.
- Lasciamoli
calare in acqua; mi pare che ne abbiano il desiderio.
- Non
resistono molto al volo essendo troppo pesanti. Teniamoci però nascosti dietro
questi cespugli perché sono molto diffidenti. Ecco che calano.
I cigni si
lasciavano infatti cadere, tenendo le ali aperte le quadi servivano da
paracadute.
Ben presto
quindici o venti si trovarono in acqua.
Rokoff aveva
già puntato il Remington, quando si sentì prendere per le spalle.
- Fermati! Non
sparare! - aveva detto Fedoro precipitosamente.
- Perché? -
chiese il cosacco, sorpreso.
- Vi è
qualcuno che ci spia.
- Chi?
- Non lo so,
ma ho veduto un'ombra nascondersi in mezzo a quella macchia di betulle.
- Un mongolo?
- Non ho
potuto osservarlo bene.
- O l'orso che
cercavamo?
- Non
muoverti: aspettiamo.
Il russo ed il
cosacco, un po' inquieti, temendo d'aver da fare con qualche banda di mongoli,
quantunque fossero certi di aver lasciato ben indietro quelli che li avevano
inseguiti, si nascosero in mezzo ai cespugli, senza più occuparsi dei cigni.
Qualcuno,
animale od uomo, si teneva celato fra le betulle.
Si vedevano i
rami agitarsi e si udivano anche le foglie secche scrosciare.
- Che sia
qualche altro leopardo delle nevi? - chiese Rokoff, che non poteva rimanere
fermo.
- Preferirei
un orso - rispose Fedoro. - Almeno si mangia.
- Prima che se
ne vada andiamo a scovarlo.
- Volevo
proportelo.
- Vieni
Fedoro.
Strisciarono
fuori dai cespugli e si diressero verso le betulle, le quali continuavano ad
agitarsi.
Pareva che
l'uomo o l'animale che fosse, cercasse d'aprirsi un passaggio.
- Tu a destra
e io a sinistra - sussurrò Rokoff.
Stavano per
separarsi, quando le betulle s'aprirono ed un animale comparve, arrestandosi
subito e fiutando l'aria.
Doveva essere
un orso, quantunque fosse molto piccolo per crederlo tale, essendo non più
lungo d'un metro.
Aveva il muso
assai corto e la testa piuttosto larga, le zampe basse, coi piedi massicci e rotondi
ed il pelame foltissimo, biancastro al dorso e nero sulla testa e sul collo.
Essendo i due
cacciatori nascosti dietro una piega del suolo, non poteva averli ancora
scorti, però il vento che soffiava dal lago doveva aver portato fino a lui le
loro emanazioni. Ed infatti non pareva molto tranquillo. Si alzava di frequente
sulle zampe posteriori per spingere lo sguardo più lontano, raggrinzava il
naso, aspirava l'aria, poi si lasciava ricadere a terra per poi tornare poco
dopo ad alzarsi. Di quando in quando mandava una specie di grugnito che
somigliava un po' al nitrito d'un mulo.
- Che cos'è? -
chiese Rokoff a Fedoro, il quale non aveva veduto che i giganteschi orsi neri
degli Urali e quelli bruni delle steppe.
- Un melaneco
- rispose il russo.
- Ne so meno
di prima.
- Uno dei più
piccoli orsi.
- Vado a
prenderlo pel collo e lo porto vivo al capitano.
- Sei pazzo
Rokoff?
- Non è più
grosso d'un montone.
- Non vorrei
provare le sue unghie.
- È dunque
pericoloso!
- Assalito si
difende al pari di tutti gli altri orsi.
- Sono buoni i
suoi zamponi?
- Come quelli
dei maiali.
- Allora
prendi, mio caro.
Rokoff aveva
afferrato il fucile, slanciandosi risolutamente contro il melanoteco.
Questi,
scorgendo il cacciatore, si era alzato bruscamente sulle zampe deretane,
spingendo innanzi quelle anteriori e sfoderando gli artigli.
A dieci passi,
Rokoff aveva fatto fuoco.
Il melanoleco,
quantunque colpito in direzione del cuore, si precipitò furiosamente, cercando
di stringere l'avversario fra le poderose zampe e di soffocarlo. Fedoro, che si
teneva a pochi passi dall'amico, fu pronto a puntare il fucile ed a scaricarlo.
La palla
fracassò la mascella destra dell'animale e penetrò nel cervello.
- Morto! -
gridò Rokoff, vedendolo cadere.
- Fulminato -
rispose Fedoro, lieto del suo colpo.
Il povero
melaneco aveva avuto appena il tempo di voltarsi su un fianco, rimanendo subito
immobile.
- Ecco gli
zamponi pel capitano - disse Rokoff. - Non credevo che avessimo tanta fortuna.
- Quell'uomo
deve essere uno stregone - disse Fedoro. - Ci aveva promesso un orso e ce lo ha
fatto subito trovare.
- Che sia
venuto ancora qui a cacciare questi animali? Che cosa ne dici. Fedoro?
- Non so che
cosa risponderti, amico Rokoff. Posso solamente dirti che quell'uomo diventa
ogni giorno più straordinario. Prima pareva che non fosse mai venuto in Cina,
ora conosce il deserto a menadito, sa che vi sono delle trote squisite nei
laghi del Caracorum e degli orsi sulle sue rive, come se avesse soggiornato a
lungo in questi paraggi. Domani ci dirà forse che in mezzo a queste macchie ha
confezionato dei pasticci di carne di cigno o che ha fumato la pipa coi
Chalkas. Io non capisco più nulla.
- Ed io
capisco meno di te, Fedoro - rispose Rokoff.
- Scommetterei
che quando attraverseremo il Tibet, troverà degli amici fra i Lama.
- Che abbia
già fatto il giro del mondo con il suo «Sparviero»?
- Non mi
stupirei, Rokoff.
- Lasciamo il
capitano e occupiamoci del nostro orso.
- Portiamolo
all'accampamento, intero. Non pesa molto, forse cento chilogrammi.
- Costruiamo
una barella?
- Sì, Rokoff;
faticheremo meno.
Tagliarono
alcuni rami di pino e di betulla, intrecciandoli alla meglio e legandoli colle
loro fasce di lana, caricarono il melaneco e si diressero verso
l'accampamento costeggiando il lago, onde non smarrirsi fra le macchie che
diventavano sempre più fitte.
Quando vi
giunsero, non trovarono che il macchinista, il quale lavorava febbrilmente a
riparare la disgraziata ala.
- Ed il capitano?
- chiesero.
- Eccolo che
ritorna - rispose il giovane.
Infatti il
comandante saliva in quel momento la riva, portando un canestro che pareva
molto pesante e un ammasso di reti.
- Vedete che
non mi ero ingannato - disse, quando vide l'orso che Rokoff stava già
scuoiando. - Anch'io però ho mantenuto la promessa e porto delle superbe trote
che domani assaggeremo.
- E perché non
questa sera? - chiese Fedoro.
- Perché
domani voglio offrirvi un pranzo veramente squisito. -
- Si festeggia qualche lieto avvenimento?
- Può darsi -
rispose il capitano col suo solito sorriso enigmatico. - Oh, non vi lamenterete
di questo ritardo; ho ucciso un magnifico cigno che sta già cucinando al forno,
è vero macchinista?
- Deve essere
già pronto, signore.
- Allora
prepara la tavola, mentre io lo dissotterro.
- L'avete
sepolto? - chiese Rokoff.
- Io cucino la
grossa selvaggina alla moda africana - rispose il capitano. - Non avete mai
assaggiato un piede d'elefante od un pezzo di proboscide cucinato dai negri?
- Mai,
capitano.
- Ed io sì.
- Voi dunque
siete stato in Africa? - chiese Fedoro.
- Sì.
- Col vostro
«Sparviero»?
Il capitano
invece di rispondere a quella domanda girò intorno al fuso, si armò d'una corta
zappa e mostrò al cosacco ed al russo un fuoco che ardeva sopra un piccolo
rialzo di terra.
- Il mio forno
- disse. - Il cigno deve essere arrostito a perfezione. Sbarazzò il suolo dai
tizzoni e dalle braci, poi scavò dolcemente la terra e mise allo scoperto una
massa avvolta fra larghe foglie avvizzite, che mandava un profumo così
appetitoso da far venire l'acquolina in bocca al cosacco.
Tolse le
foglie e mise allo scoperto un grosso cigno, cucinato intero e che depose su un
gigantesco piatto d'argento, portato dal macchinista.
- Andiamo a
dare l'assaggio - disse. - Sarà squisito.
La tavola era
stata preparata presso il fuso, accanto ad un allegro fuoco di rami di pino e
col solito lusso. L'assalto dato dai quattro aeronauti fu tale, che dopo
mezz'ora del superbo arrosto non ne rimaneva che un terzo.
- Capitano -
disse Rokoff, che aveva divorato per quattro. - Siete un cuoco ammirabile!
- Vedremo che
cosa direte domani delle mie trote - rispose il comandante, con un leggero
accento ironico.
Passarono
buona parte della serata attorno al fuoco, fumando e sorseggiando
dell'eccellente ginepro e del whisky, poi verso le dieci si ritirarono nelle
loro cabine.
Il macchinista
invece aveva continuato il suo lavoro, punto seccato dal vento freddissimo che
soffiava dalle non lontane vette dei Kentei.
All'indomani la riparazione era finita. L'ala
era stata rinforzata così robustamente, da non temere che dovesse cedere anche
dinanzi al vento più furioso.
- Resisterà
quanto e forse più dell'altra - disse il capitano, che aveva osservato
attentamente il lavoro compiuto dal macchinista.
Poi, senza
aggiungere altro, diede mano a preparare il pranzo che doveva far stupire i
suoi ospiti.
Questi, avendo
appreso che la partenza non si sarebbe effettuata che nel pomeriggio, si erano
recati sulle rive del lago a fucilare le oche, le anitre ed i cigni che si
mostravano sempre numerosi nelle piccole insenature, dove trovavano abbondante
nutrimento.
Quando
tornarono, così carichi di selvaggina da non potersi quasi reggere, il capitano
stava levando dai suoi forni gli zamponi del melaneco, mentre il
macchinista si aggirava fra cinque o sei pentole dove friggevano o bollivano
pesci, anitre e legumi. La tavola, questa volta, era stata preparata sul ponte
dello «Sparviero», anzi era stata levata perfino la tenda che era servita al
macchinista per ripararsi dal freddo durante il lavoro notturno ed era stato
imbarcato anche il fornello.
- Pranzeremo
in aria? - chiese Rokoff.
- Ma... ah!
Udite?
- Che cosa,
signore?
- Queste
grida.
- Per le
steppe del Don! Ancora i mongoli?
In lontananza,
verso l'est, si vedevano alzarsi sulla pianura sabbiosa dello Sciamo un
nuvolone di polvere e si udivano echeggiare delle urla.
- Sì, i
mongoli - disse il capitano. - Fortunatamente arrivano troppo tardi.
Fece portare a
bordo gli zamponi e le pentole, gli avanzi dell'orso e la selvaggina uccisa dal
russo e dal cosacco, poi disse:
-
Innalziamoci.
La macchina
era già sotto pressione. Le eliche orizzontali cominciarono a funzionare
elevando il fuso, poi le due immense ali si misero in movimento. Lo «Sparviero»
saliva veloce, un po' obliquamente, fendendo rumorosamente l'aria.
I mongoli
giungevano a corsa sfrenata urlando e sparando, ma era troppo tardi. La preda
tanto agognata, ancora una volta sfuggiva loro.
- Buon
viaggio! - gridò ironicamente il capitano, salutandoli col berretto, mentre lo
«Sparviero» s'allontanava velocemente verso il nord. - Badate di non storpiare
i vostri cavalli.
Poi volgendosi
verso Rokoff e Fedoro aggiunse:
- A tavola,
signori e fate onore al mio pranzo.
Il capitano,
che doveva essere un buongustaio raffinato, aveva preparato un pranzetto
veramente luculliano: zuppa di anitra con legumi, lingua di orso, zampone al
forno, trote in salsa bianca e fritte nel burro, ananas di Tahiti, banane della
Nuova Caledonia e ignami mostruosi, pasticci di varie specie e pudding.
Attese che i
suoi ospiti avessero finito, poi offrì loro dei sigari di Manila e un certo
liquore color dell'ambra, dicendo:
- Ebbene, che
cosa ne dite delle mie trote?
- Squisite,
capitano - rispose Rokoff, che era ancora entusiasmato di quel pranzo. - Quelle
che si pescano qui non uguagliano certo, per sapore e anche per grossezza,
quelle che si prendono nei fiumi e nei laghi del mio paese.
- Ve lo avevo
detto - disse il comandante ridendo. - E questo liquore? L'avete assaggiato?
- Delizioso!
L'avete fatto voi?
- Sì, e la
ricetta me l'ha data un monaco del monte Athos.
- Ma dove
siete stato voi? Si direbbe che nessun angolo del mondo vi sia sconosciuto.
Avete attraversato l'Asia Minore col vostro «Sparviero»?
- Mi sembra -
rispose il capitano, con un sorriso misterioso. - Bevetene pure, non vi farà
male, anzi.
Guardava i
suoi ospiti sempre ridendo, senza però accostare alle sue labbra il suo
bicchierino che rimaneva sempre pieno.
Né Rokoff né
Fedoro vi avevano fatto caso. Quel liquore era eccellente e da veri russi, che
sono i più famosi bevitori dell'Europa, ne approffittavano per digerire meglio
quel troppo copioso pasto.
Rokoff
soprattutto, sempre assetato come lo sono tutti i cosacchi, cacciava giù un
bicchierino dietro l'altro, non stancandosi mai di lodare l'aroma di quel
liquido.
- Se i frati
del monte Athos ne fanno uso, non devono essere lugubri - diceva celiando. - Se
mi nominassero loro cantiniere, non so quali vuoti farei nelle loro riserve. Vi
deve essere dentro dell'essenza dei famosi e antichissimi cedri del Libano.
Squisito! Delizioso! Capitano, un altro bicchierino che vuoterò alla salute
vostra.
- Ed un altro
a me che berrò alla buona riuscita del vostro viaggio - diceva Fedoro, che
diventava d'un'allegria strana.
- Anche dieci
- rispondeva il capitano. - Ne ho parecchie bottiglie e poi colla famosa
ricetta ve ne posso fare quanto voglio.
- Quel frate
era più bravo di papà Noè - riprendeva Rokoff, i cui occhi rilucevano come
quelli degli ubriachi. - Se lo conoscessi gli bacerei la barba. Scommetto che
qui c'entrano delle gocce d'acqua del Giordano.
- No, del Mar
Morto - rispondeva Fedoro, che aveva il viso acceso.
- Ma che!
Saprebbe di bitume questo meraviglioso elixir! Quanto deve prolungare la
vita!
- Sì, Rokoff,
perché tutti i monaci del Monte Athos diventano vecchissimi. Me lo ha narrato
un viaggiatore mio amico.
- Vecchissimi!
T'inganni Fedoro! Non muoiono mai.
- Buono questo
liquore, è vero Rokoff?
- Capitano, un
altro bicchierino ancora?
- Una
bottiglia!
- Anche dieci
bottiglie, Fedoro! Il capitano ha la ricetta!
Il Comandante
dello «Sparviero» non aveva cessato di ridere. Aveva fatto portare una seconda,
poi una terza bottiglia e pareva che si divertisse immensamente dei discorsi
dei suoi ospiti e che gradisse assai gli elogi fatti a quel meraviglioso
liquore.
Già Rokoff e
Fedoro avevano tracannato il, decimo od il quindicesimo bicchiere, quando uno
dopo l'altro si rovesciarono sulle loro sedie, pallidissimi e come morti. Il
macchinista ad un cenno del capitano, era accorso.
Prese la
bottiglia ancora semipiena ed il bicchiere del suo padrone che non era stato
toccato e gettò l'una e l'altro fuori dalla navicella.
- Portiamoli
nelle loro cabine - disse il comandante. - Non si sveglieranno, signore?
- Il narcotico
è potente.
- Che cosa
diranno poi?
- Non sono
forse io il padrone qui? Non devo rendere conto a chicchessia delle mie azioni.
Aiutami.
Presero prima
Rokoff e lo portarono entro il fuso, deponendolo nel suo letto, poi fecero
altrettanto con Fedoro. Né l'uno, né l'altro avevano fatto un gesto durante
quel trasporto. Parevano morti.
- A tutta
velocità - disse il capitano, quando risalì. - Non dobbiamo essere lontani più
di centosessanta miglia e ci si aspetta.
- E il
telegramma del russo? - chiese il macchinista.
- Andrò a
spedirlo io. I cavalli non mancano in questa regione ed entrerò in città senza
che nessuno se ne accorga. Aumenta più che puoi. In quattro o cinque ore vi
saremo.
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