LE AMBIZIONI
D'UN CALMUCCO
I calmucchi in
quel frattempo erano rimasti sempre in ginocchio, in una specie d'adorazione,
colle mani sempre tese verso lo «Sparviero» che, presumibilmente, scambiavano
per la luna o per qualche altro astro del firmamento.
Erano in
tredici con cinque cammelli molto villosi e tre cavalli ossuti e così magri che
mostravano le costole. Dinanzi a tutti, inginocchiato su un vecchio tappeto
sfilacciato stava un sacerdote, un mandiki, ossia monaco d'un ordine
inferiore, d'una obesità enorme, elefantesca, rassomigliante a una massa di
grasso coperta di pelle, con un viso così paffuto da, rassomigliare a una vera
luna piena, con due occhietti che si intravedevano a malapena attraverso due
fessure carnose. Indossava una lunga e lurida tonaca di feltro giallo, cinta da
un rosario di pallottoline d'osso ed aveva la testa nuda, con una sola ciocca
di capelli in mezzo al cranio che formava un ciuffo untuoso. Gli altri erano
tipi di briganti, coi lineamenti angolosi, la pelle bruno-giallastra, il viso
piatto e molto largo, gli occhi un po' obliqui e con barbe incolte. Avevano
lunghe casacche di stoffa grossolana con maniche ampie, calzoni larghissimi,
fasce ripiene di pistoloni a pietra e di coltellacci, e a terra si vedevano
certe specie di tromboni colle canne che s'allargano in forma di imbuto.
- Che musi -
disse Rokoff, che li osservava. - E voi dite, capitano, che questi uomini non
sono da temersi? I calmucchi godono una fama incontrastata di essere ospitali
quanto gli arabi.
- Giudicheremo
dall'accoglienza che ci faranno.
Lo
«Sparviero», che al momento in cui il capitano aveva dato il comando al
macchinista, si trovava a soli trecento metri d'altezza, in meno d'un minuto
toccò il suolo a soli cinquanta passi dall'accampamento.
Rokoff, Fedoro
e il comandante, dopo essersi armati di fucili a palla, lasciarono la
navicella, dirigendosi verso quel gruppetto di nomadi.
Il monaco
s'era alzato, mandando grida di gioia.
- Non abbiate
alcun timore - disse il capitano in cinese.
- Ma voi siete
uomini! - esclamò il calmucco, nella egual lingua.
- E chi
volevate che fossimo?
- Figli del
sole e della luna.
- Se vi piace
crederci tali, noi non ci opporremo.
- E quella
bestia? - chiese il monaco, accennando, con un gesto di terrore, lo
«Sparviero».
- Ah!
Quell'uccello sì che è un figlio della luna.
- E, come si
trova in vostro possesso?
- Gli uomini
bianchi sono amici della luna e possono montare i suoi figli.
- E non vi
mangia?
- Non ne ha
bisogno. Quell'uccello fa a meno delle colazioni e dei pranzi, non vivendo che
d'aria.
- Anche a noi
non farà male?
- A nessuno.
- Signore -
disse il monaco - voi che siete uomini così potenti, volete degnarvi
d'accettare l'ospitalità d'un povero mandiki?
- Siamo
discesi appunto per questo - rispose il capitano.
- Io ne
acquisterò gran fama e riuscirò forse a realizzare il mio sogno di diventare
finalmente ghetzull e chissà, fors'anche hellung.
- Il monaco è
ambizioso, - disse Fedoro a Rokoff.
- Perché? -
chiese questi, che non aveva capito niente.
- Questo
monaco è un mandiki, ossia uno dei più infimi della casta e si capisce
che vorrebbe guadagnare uno degli ordini superiori e diventare ghezull
o, meglio ancora, hellung.
- Ciò non gli
ha impedito però d'ingrassare enormemente.
- Sono tutti
così rotondi i sacerdoti dei calmucchi.
- Devono
condurre una vita beata.
- Sono i più
neghittosi di tutti e anche i più formidabili mangiatori. Vivono alle spalle
dei pastori e non pensano che a divorare, bere e dormire.
- I furbi!
- Sono volponi
matricolati.
- E dove
andava questo prete?
- A quanto ho
udito, si reca a Turfan per la festa delle lampade.
- Una
cerimonia religiosa?
- E delle più
importanti e anche delle più curiose.
- Che il
capitano voglia andare a vederla?
- Non mi
stupirei.
Mentre
chiacchieravano, il seguito del monaco aveva rizzato le tende, o meglio le kibitkas,
formate da pali molto sottili che all'estremità superiore vengono piegati ad
arco, in modo da formare una specie di cupola, che poi viene coperta da uno
spesso tessuto di feltro.
Nel centro vi
si attacca una grossa pietra sospesa a una fune, onde dare al leggero edificio
maggior stabilità e porlo in grado di resistere ai venti, che talvolta soffiano
impetuosissimi sugli altipiani dell'Asia centrale e nel deserto di Sciamo. Il
monaco aveva invitato il capitano e i suoi due amici nella sua tenda, che era
la più vasta e la più bella, offrendo tosto del koumis, miscuglio
composto di latte di cammello agro e d'acqua, non sgradevole, e un mezzo
agnello arrostito qualche ora prima.
Il capitano,
dal canto suo, aveva fatto portare dal macchinista alcune bottiglie di whisky
e dei pasticci, acquistati chissà quanti mesi prima in America o in Australia,
ma che il freddo intenso della ghiacciaia aveva mirabilmente conservati. Il
monaco non solo aveva assalito ingordamente i pasticci, ma si era attaccato anche
alle bottiglie, tracannandone il contenuto con un'avidità da vero selvaggio.
Alla seconda, era già tanto commosso che grosse lacrime bagnavano il suo
faccione da luna piena.
Si era messo a
raccontare le sue sventure. Da sette anni, nonostante tutta la sua buona
volontà e la sua ambizione, era sempre rimasto un umile mandiki, mentre
aveva sognato di poter diventare un giorno un potentissimo Lama, ossia capo
della religione. Eppure aveva preso parte a tutte le feste religiose, aveva
mangiato e bevuto a crepapelle per acquistare quella rotondità necessaria per
far buona figura, rovinando una mezza dozzina di tribù di pastori, alle quali
aveva divorato, a poco a poco, perfino l'ultimo agnello.
Ormai non
contava più che sopra un avvenimento straordinario per diventare almeno ghetzull
se non hellung.
- Voi soli
potreste darmene il mezzo - disse finalmente, quand'ebbe vuotata la terza
bottiglia.
- E in quale
modo? - chiese il capitano, che rideva fino alle lagrime delle comiche sventure
dell'obeso calmucco.
- Facendomi
scendere dal cielo.
- Non vi
comprendo.
- Prendetemi
con voi, sulla vostra bestia e conducetemi a Turfan. Vedendomi scendere dalle
nuvole, io acquisterò una tale fama, che i miei confratelli non esiteranno più
a passarmi di grado. Un uomo che vola? Un uomo che è in relazione colla luna!
Figuratevi che successo!
- Ah!
Briccone! - esclamò Rokoff, a cui Fedoro aveva tradotte le parole del calmucco.
- È più furbo di tutti! Se io fossi voi, capitano, lo accontenterei.
L'avventura sarebbe buffa.
- Volete che
andiamo a vedere la festa delle lampade? - chiese il comandante, che non
riusciva a frenare il riso.
- Andiamoci,
signore - disse Fedoro. - Sotto la protezione d'un monaco nulla avremo a
temere.
- E il
seguito? - chiese Rokoff.
- Se ne andrà
a Turfan per suo conto - rispose il capitano.
Il progetto fu
comunicato al monaco, il quale per la gioia si mise a piangere come una vite
appena potata.
- La mia
carriera è assicurata - gridava, sbuffando come una foca. - Sarò ghetzull,
fors'anche hellung e chissà anche Lama. Oh! miei buoni figli della luna!
Quanta riconoscenza vi dovrò! Metterò a contribuzione tutti pastori di Turfan
per empire la vostra bestia di agnelli e di capretti.
- Compiango
quei poveri diavoli - disse Rokoff. - Purché, invece di agnelli, non ci
regalino del piombo o delle legnate!
- I monaci dei
calmucchi sono onnipossenti e nessuno oserebbe ribellarsi ai loro voleri.
- Andiamo
dunque a Turfan.
Il mandiki,
dopo molti sforzi, era riuscito ad alzarsi. Traballava però così male sulle sue
gambe elefantesche, che il troppo abbondante whisky aveva reso
estremamente pesanti, che Rokoff e Fedoro si videro costretti a sorreggerlo per
non fargli perdere la sua dignità di monaco buddista.
Quando gli
uomini della scorta appresero la sua decisione di recarsi a Turfan su quella
bestia alata, non poterono fare a meno di manifestare la loro ammirazione pel
coraggio del loro sacerdote. Ebbero bensì qualche apprensione vedendolo
dirigersi verso la bestia in compagnia di stranieri, però si rassicurarono,
dopo che ebbero promesso di aspettarli a Turfan.
Ci volle anche
l'aiuto del capitano e del macchinista per imbarcare quell'enorme massa, che
non doveva pesare meno d'un quintale e mezzo.
- Siete sempre
deciso? - gli chiese il comandante, prima di dare ordine d'innalzarsi.
- Sì - ebbe
appena la forza di borbottare il monaco. - Ghetzull... hellung...
Lama...
E si lasciò
cadere di peso su un materasso, che fortunatamente si trovava presso di lui,
chiudendo gli occhi.
- L'aria
fresca gli farà passare presto l'ubriachezza - disse Rokoff. - Che bevitore!
Sono curioso di vedere come finirà questa amena avventura.
Lo «Sparviero»
aveva preso lo slancio e s'innalzava quasi verticalmente, battendo vivamente le
ali.
I calmucchi,
vedendolo andarsene, ebbero un'ultima esitazione.
- No! No! -
gridarono, con voce singhiozzante. - Non portatelo via!
Ma già lo
«Sparviero» fuggiva sopra il deserto, con una velocità di quaranta miglia
all'ora, passando sopra gli ultimi contrafforti del Tan-Sciang.
- Ci vorrà
molto a giungere a Turfan? - chiese Rokoff al capitano, il quale stava
osservando una carta della Mongolia.
- Fra un paio
d'ore ci saremo - rispose il comandante. - È un centro grosso?
- Eh! Una
borgata perduta lungo la via carovaniera che attraversa lo Sciamo occidentale.
Lo «Sparviero»
si era molto innalzato per poter superare la catena, la quale spingeva i suoi
picchi rocciosi a settecento, a ottocento e perfino a mille metri. Era un
ammasso enorme di rupi brulle, senza alcuna traccia di vegetazione verso le
cime, con spaccature profondissime che disegnavano delle vallate selvagge, in
fondo alle quali si vedevano scorrere dei torrentacci impetuosi. Laggiù la
vegetazione non mancava, anzi si vedevano vere foreste di betulle, di pini e di
larici, ma nessuna abitazione.
Solo degli argali,
specie di stambecchi, con due corna molto ramose ai lati della testa, balzavano
fra le rupi, fuggendo con rapidità fantastica; in alto invece qualche aquila in
vedetta su qualche picco e che alla comparsa dello «Sparviero», invece
d'inseguirlo, fuggiva precipitosamente, calando sugli altipiani inferiori.
Il treno aereo
avendo trovato un vallone profondo che pareva tagliasse in due la catena, si
era abbassato fino a quattrocento metri, radendo talvolta, coll'estremità
inferiore del fuso le punte degli abeti e dei pini.
Il capitano
aveva ordinato al macchinista di abbassarsi sperando di fare un buon colpo
sugli argali che si vedevano sempre numerosissimi, ma quei sospettosi e
agilissimi animali non si lasciavano accostare.
Appena scorta
l'ombra proiettata dallo «Sparviero» s'affrettavano a cacciarsi nei boschi,
rendendo così impossibile l'inseguimento.
Verso le tre
pomeridiane, ossia due ore dopo lasciato l'accampamento dei calmucchi, il treno
aereo sboccava nello Sciamo meridionale, presso la via carovaniera di Chami e
d'Urumei. Quasi subito, fra due colline, apparve un aggruppamento di
costruzioni in legno e di tende.
- Turfan -
disse il capitano.
- È ora di
svegliare il monaco - disse Rokoff.
- Anche per
nostra salvaguardia - aggiunse Fedoro. - È incaricato di proteggerci.
- Aprirà poi
gli occhi? - chiese il cosacco. - Sarà ancora ubriaco.
- Gli
somministreremo un po' d'ammoniaca in un bicchier d'acqua - disse il capitano.
- Se dovessimo sbarcarlo in questo stato, i calmucchi sarebbero capaci di
prendersela con noi.
Il
macchinista, il quale aveva ceduto il timone allo sconosciuto, che si era
sempre tenuto da parte senza mai parlare, portò il bicchiere e forzò il monaco
a berlo. Il povero diavolo lo mandò giù facendo delle smorfie e sternutendo
sonoramente parecchie volte.
- Questo non è
koumis! - esclamò. - Briganti di servi! Che cosa avete dato al vostro
sacerdote?
Probabilmente
credeva di trovarsi ancora sotto la sua tenda. Accortosi dell'errore e vedendo
sopra di sé agitarsi le immense ali dello «Sparviero», impallidì e si portò le
mani alla fronte.
- Dove sono? -
si chiese, con accento smarrito.
- Sopra Turfan
- rispose il capitano, ridendo. - Su, in piedi, se volete diventare ghetzull
o hellung.
- Turfan! -
esclamò il calmucco, che penava molto a raccapezzarsi.
D'un tratto
mandò un grido:
- I figli della
luna!
- Pare che
l'ubriachezza gli sia finalmente passata - disse Rokoff.
- E che sia
molto spaventato - aggiunse Fedoro. - Non c'è più alcool nel suo corpo che gli
dia del coraggio.
- Gliene
faremo ingollare dell'altro.
Il monaco,
aiutato dal capitano, si era alzato aggrappandosi alla balaustrata. Appena ebbe
dato uno sguardo all'abisso che gli si apriva sotto i piedi, retrocesse
vivamente, agitando le braccia come un pazzo.
- Ho paura! -
esclamò. - Non gettatemi giù! Sono un povero mandiki.
- Che cosa vi
salta pel capo, ora? - chiese il capitano. - Volevate andare a Turfan coi figli
della luna e noi vi abbiamo accontentato.
- E non ci
ammazzeremo tutti? - chiese il monaco, che sudava freddo.
- Giungerete
in ottimo stato, ve lo prometto.
- E questa
bestia non mangerà nessuno?
- Non le
piacciono gli uomini, specialmente quelli della vostra razza.
Il mandiki,
un po' rassicurato, si riaccostò alla balaustrata, poi tornò a retrocedere,
coprendosi gli occhi colle mani.
- Cadiamo! -
gemette.
- Animo -
disse il capitano. - pensate che da questa discesa dipende il vostro
avanzamento. Ecco gli abitanti che vi acclamano.
Una folla
numerosissima si accalcava sulla piazza del villaggio, mandando urla di
sorpresa e anche di terrore. Si vedevano donne e fanciulle fuggire e uscire
invece dalle tende uomini armati di fucili e di tromboni.
- Fatevi
vedere - disse il capitano al monaco. - Se fanno fuoco io non scenderò e sarete
costretto a rimanere con noi.
- Ho paura! Ho
paura! - balbettava il mandiki.
- Se non
obbedite vi getto giù!
A quella
minaccia il calmucco impallidì come un cencio lavato e fu lì lì per lasciarsi
cadere. Vedendo però il capitano avanzarsi, si fece animo e si curvò sulla
balaustrata, gridando alcune parole.
Le urla erano
subito cessate. I calmucchi avevano lasciato cadere le armi, facendo gesti di
maraviglia e di stupore.
Il loro mandiki
scendeva dal cielo, portato da quel mostruoso uccello! La cosa doveva sembrare
ben meravigliosa a quei poveri nomadi, che non avevano mai udito parlare né di
aerostati, né tanto meno di macchine volanti. La loro sorpresa era tale, che
parevano come pietrificati.
Lo «Sparviero»
intanto scendeva descrivendo dei larghi giri che a poco a poco si
restringevano, poi le sue ali rimasero tese formando un paracadute assieme ai
piani orizzontali e la massa si lasciò cadere proprio in mezzo alla piazza. La
folla, vedendolo abbassarsi, si era ritirata precipitosamente per non farsi
schiacciare, mentre il monaco, che aveva riacquistato il coraggio, ritto a
prora con un'aria da trionfatore, trinciava benedizioni a destra e a manca,
invocando Buddha.
Grida
d'ammirazione scoppiavano da tutte le parti. Si urlava, si applaudiva il monaco
che aveva saputo, certo per opera del dio, domare quell'enorme mostro e
renderlo docile ai suoi voleri. Tuttavia nessuno osava accostarsi a
quell'uccellaccio di nuova specie, anzi alcuni avevano armato i fucili, temendo
un improvviso attacco. Il mandiki, con un gesto da sovrano, impose
silenzio alla turba e gridò con un vocione da basso profondo:
- Giù le armi,
figli miei. Questa bestia non farà male a nessuno, perché io l'ho domata e fate
buona accoglienza agli uomini che mi accompagnano, che sono i figli di Buddha.
- Ah! Il
volpone! - esclamò Rokoff. - Per lui eravamo figli della luna; ora siamo
diventati, per gli altri, nientemeno che figli del dio. Sfrutta bene
l'ignoranza di questi poveri calmucchi.
Il mandiki,
dopo molti sforzi e anche coll'aiuto del cosacco e di Fedoro, era riuscito a
scavalcare la balaustrata, muovendo, con incedere maestoso, verso la folla che
gli si era subito stretta intorno disputandosi l'onore di baciargli l'orlo
della veste.
I calmucchi
parevano in preda a un vero delirio. Finirono per sollevare il monaco,
nonostante il suo enorme peso, portandolo in trionfo per la piazza.
- Ci lascia? -
chiese Rokoff. - Non sarei stupito che se ne andasse dimenticandosi d'inviarci
i promessi montoni.
Ma il cosacco
giudicava male il mandiki, perché questi, appena calmatosi un po'
l'entusiasmo della folla, si fece deporre a terra e s'avvicinò allo
«Sparviero», dicendo al capitano:
- Signore,
degnatevi d'accettare l'ospitalità nella tenda della principessa che comanda in
Turfan. Si sta preparando il pranzo pei figli di Buddha.
- Durante la
nostra assenza nessuno toccherà il mio uccello?
- Oh! Non
temete! Questi stupidi hanno troppo paura e non oseranno nemmeno accostarsi.
Non sono sacerdoti essi.
- Per prudenza
lasciamo qui il macchinista e quel signore - disse il capitano. - E noi, signor
Rokoff e voi, Fedoro, armiamoci delle rivoltelle. Non si sa mai quello che può
accadere.
Nascosero le
armi sotto le larghe fasce, delle rivoltelle di grosso calibro, vere Colt
americane e seguirono il monaco fiancheggiati da due o trecento calmucchi, i
quali però si tenevano a una certa distanza.
- Sarà giovane
o vecchia questa principessa? - chiese Rokoff al capitano.
- Se sarà
bella e giovane, vi concedo il permesso di corteggiarla - rispose il
comandante, ridendo. - Non rimarrà insensibile agli omaggi d'un figlio di Buddha.
- Non mi
comprenderà.
- Ah, sì, mi
dimenticavo che non parlate nemmeno il cinese.
- Ditemi,
capitano, comandano le donne qui?
- Sarà la
vedova di qualche capo.
- Allora sarà
vecchia.
- Aspettate a
giudicarla.
All'estremità
della piazza s'alzava una vastissima kibitka di forma quasi ovale,
coperta di grosso feltro impermeabile, con un'apertura sulla cima per lasciar
penetrare la luce e uscire il fumo, non conoscendo i calmucchi, al pari dei
duzungari loro vicini e anche dei mongoli, i camini.
Il mandiki
alzò un lembo della tenda e li introdusse, pregandoli di aspettare la
principessa, la quale stava abbigliandosi in una tenda vicina. L'interno era
montato con un lusso, che stupì perfino il capitano. In un canto vi era un
letto monumentale, con una coperta di seta azzurra a fiorami rossi e gialli,
con baldacchino pure di seta e tende bianche e rosa.
Dinanzi stava
un divanetto con un ricco tappeto di provenienza persiana o tibetana e in
disparte un ricco cofano d'origine cinese, a colori brillanti e lacca, carico
di coppe ricolme di riso e di frumento, di sonagliuzzi di varie grandezze, con
due bambole vestite di seta, simili a quelle che vendono i cinesi. In mezzo si
vedeva una statuetta di Buddha coperta da una mussola ricamata in oro. Intorno
poi alla tenda v'erano numerosi cuscini di seta, posti su piccoli tappeti,
destinati di certo ai visitatori.
- Che lusso! -
esclamò Rokoff, che non poteva star zitto un minuto. - La principessa deve
essere bella e molto graziosa per avere un così ricco letto. Mi rincresce di
dover starmene muto dinanzi a lei.
- Eppure voi,
che siete cosacco, dovreste conoscere qualche parola di calmucco - disse il
capitano. - Questa razza, nomade fra le nomadi, si è sparpagliata fino ai
confini dell'Europa e ha tribù numerose perfino nel Caucaso e nell'Astrakan.
- Ha invaso
mezza Asia?
- Se non di
più, signor Rokoff. È una razza di conquistatori, che ha avuto, secoli
indietro, parecchie fasi di gloria e di potenza, e che sotto il famoso Genghiz
Khan portò le sue armi vittoriose fino in Russia. Sapete che si dice che gli
unni, che con Attila invasero perfino l'Italia, siano stati gli antenati di
questi nomadi, che ora vedete così miserabili?
- Ne ho udito
parlare. Ora però non sono capaci d'altro che di condurre al pascolo i loro
montoni e i loro cammelli.
- Perché si
sono troppo dispersi e suddivisi in un numero infinito di tribù indipendenti le
une dalle altre.
- Ecco la
principessa - disse Fedoro.
I tre
aeronauti si erano alzati guardando curiosamente verso l'entrata della tenda,
che l'enorme monaco teneva alzata.
- Ah! La
brutta vecchia! - esclamò Rokoff. - Ma questa è una strega!
La principessa
si era avanzata, facendo colle mani un saluto rispettoso.
Era una donna
piccola, magra come un chiodo, colla pelle del viso color del pan bigio,
grinzosa e incartapecorita, con due occhietti neri ancora vivaci e di una
mobilità straordinaria. Quale età poteva avere? Ottanta o cent'anni? Rokoff
gliene avrebbe dati anche di più.
Come tutte le
ricche calmucche, indossava una lunga veste che le scendeva fino ai piedi,
aperta in alto in modo da lasciar vedere la camicia di seta bianca. Sul capo
portava una specie di berretto colla parte superiore quadrata e l'inferiore
rialzata da una parte e aveva i capelli raccolti in trecce e ancora neri e
abbondanti, chiusi in una fodera di seta nera.
Le dita ossute
erano coperte di anelli d'oro e d'argento e anche al collo portava pesanti
monili formati da tael cinesi e da grani d'oro. Nonostante quello sfarzo
di gioielli, il colore azzurro della veste e le ricche babbucce di pelle rossa
con ricami d'argento, la principessa era d'una bruttezza ripugnante.
Il monaco, che
pareva all'apice del suo trionfo, presentò alla vecchia i figli viventi di
Buddha, chiamandoli suoi amici e suoi protettori, poi li fece sedere sui
cuscini mentre egli prendeva posto sul divanetto assieme alla principessa.
Quasi subito
entrarono parecchi servi portando quattro capretti arrostiti interi, vasi
ricolmi di koumis e focacce di frumento e di riso.
- Diamo un saggio
della capacità degli stomachi dei piccoli Buddha - disse Rokoff.
Il mandiki,
nella sua qualità di monaco, aveva servito agli ospiti dei pezzi enormi su
piatti d'argento, invitandoli a far onore alla modesta cucina della principessa
Khurull-Kyma-Chamik.
- Mi pare che
abbia sternutato - disse Rokoff.
- No, ha
pronunziato il nome della bella principessa - rispose Fedoro.
- Un nome
superbo! Compiango suo marito, se ne ha avuto uno, costretto a sternutare forse
cinquanta volte al giorno per chiamare la sua sposa.
Si erano messi
a mangiare con molto appetito, trovando tutto squisito. Anche la principessa,
quantunque quasi sdentata, si sforzava di tener dietro agli ospiti, masticando
come meglio poteva e bevendo molto koumis. Durante quella laboriosa
operazione, alzava sovente il viso, guardando di sfuggita i tre uomini bianchi
e fermando soprattutto i suoi occhi su Rokoff, le cui forme erculee e la barba
rossastra dovevano averle prodotto un certo effetto. Anzi, sovente si curvava
verso il monaco, che divorava per quattro e beveva per otto, mormorandogli
all'orecchio qualche parola e indicandogli il cosacco.
Il capitano,
che si era accorto di quelle manovre, urto Rokoff, dicendogli:
- Badate! La
principessa fa troppa attenzione a voi. Temo che le abbiate toccato il cuore.
- Per le
steppe del Don! Non ditelo nemmeno per scherzo.
- E che, non
vi piacerebbe diventare principe di Turfan?
- Con quella
vecchia!
- Non è poi
tanto brutta - disse il capitano, frenando a stento le risa.
- Che il
diavolo se la porti!
- E sarà anche
ricchissima.
- Non
continuate, o scappo via.
- Non guastate
le nostre buone relazioni con questi calmucchi. Sarebbero capaci di mandarci in
pezzi lo «Sparviero».
- Dopo il
pranzo ce ne andremo.
- Dobbiamo
assistere alla festa delle lampade. La popolazione sta già facendo i
preparativi.
- Chi ve lo ha
detto?
- Il mandiki.
- Avrei
preferito andarmene.
- Più tardi,
quando avremo ricevuto i montoni promessi.
Mentre
chiacchieravano, la principessa continuava a guardare sottocchi il cosacco e
bisbigliare col monaco il quale, troppo affaccendato a rimpinzarsi di pasticci
e di focacce, si limitava a rispondere con dei cenni del capo.
Avevano appena
terminato il pasto, quando al di fuori si udirono rullare dei tamburelli e
strepitare dei gong. Il monaco si era alzato dicendo:
- Ecco che la sulla
comincia. I figli del possente Buddha onorino la festa colla loro presenza.
Tutti uscirono
dalla tenda, preceduti dalla principessa. La notte era calata, ma miriadi di
lumi brillavano nelle vie della borgata e intorno alle tende, avanzandosi verso
la piazza come un immenso serpente fiammeggiante.
Dinanzi alla
dimora della principessa, dei servi avevano alzato una specie d'altare, il dender,
formato con rami d'abete intrecciati e piantati su pezzi di legno coperti
d'erba.
Su due lati
ardevano due piccoli falò ed in mezzo ai rami s'alzava una statua di Buddha
formata d'argilla seccata al sole e abbellita di pezzi di carta dorata e da
collane di tael.
La festa della
sulla ossia della lampada, è una delle più grandi ed anche delle più
originali che celebrano i calmucchi ed ha qualche somiglianza coi quella delle
lanterne dei vicini cinesi.
Giacché riesca
di maggior effetto, si aspetta la notte. Allora tutta la popolazione della
tribù si schiera, munita di lampade ripiene di grasso, i cui lucignoli sono
formati dagli steli d'una pianta ben secca, avvolti in un po' di cotone, e
devono essere tanti quanti sono gli anni di colui che deve portare il lume.
Preceduti da una musica indemoniata, devono fare tre volte il giro dell'altare,
sempre ballando e procurando di non cadere, perché la via che devono percorrere
deve essere prima stata interrotta da fossati e da buche scavate appositamente.
Un uso molto
curioso poi, vuole che un bambino nato il giorno prima della sulla,
debba venire considerato l'indomani come già vecchio d'un anno. Mentre la
principessa attendeva l'arrivo della tribù che s'avanzava fra un clamore
assordante, il monaco si era accostato al capitano, impegnando con lui una
misteriosa conversazione, accompagnata da gesti maestosi.
- Che cosa può
raccontare il mandiki? - si chiese il cosacco, il quale, senza conoscere
il motivo, non si sentiva punto tranquillo. - Deve essere molto interessante,
perché vedo che il capitano ride a crepapelle.
- Io non so,
ma vedo una cosa.
- Quale?
- Che la
principessa, a poco a poco si avvicina a te e che non ti stacca di dosso gli
sguardi.
- Che quella
vecchia pazza...
- Signor
Rokoff - disse il capitano, che gli si era accostato. - Sono stato incaricato,
dal mandiki, d'una commissione per voi. Permettete che fin d'ora vi
faccia le mie congratulazioni. Corbezzoli! Quanto v'invidieranno i sudditi di
Khurull-Kyma-Chamik.
- Una
commissione per me? - chiese il cosacco, che si sentiva bagnare la fronte da
freddo sudore.
- Quattromila
montoni, trecento cammelli, sette tende e non so quanti cofani pieni di pezzi
di seta e di gioielli ed un titolo! Sono fortune che non capitano tutti i
giorni.
- Che cosa
c'entrano i montoni... i cammelli...
Il capitano,
fattosi serio disse, inchinandosi comicamente:
- Io saluto in
voi il principe di Turfan.
- Io principe!
- gridò Rokoff che pareva in procinto di scoppiare.
- Mi hanno
pregato di chiedere la vostra mano da parte della bellissima, ricchissima e
potentissima principessa Khurull-Kyma-Chamìk, che si è degnata di scegliervi
per suo quinto sposo.
- Fulmini del
Don!
- Fortunato
amico! - gridò Fedoro, schiattando dalle risa. - E il briccone si lagnava
d'avermi accompagnato in Cina!
FINE PARTE PRIMA
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