L'URAGANO DI
NEVE
Lo «Sparviero»
con un'ultima volata aveva raggiunto i primi picchi degli Tschong-kum-kul,
precipitando subito in un immenso vallone fiancheggiata da due imponenti
ghiacciai per sottrarre gli aeronauti alla rarefazione dell'aria, che
cominciava a produrre i suoi effetti pericolosi con tale intensità, da far
vacillare e impallidire anche il capitano e il macchinista.
In fondo a
quell'abisso che s'abbassava per oltre mille metri, si vedeva scorrere un
fiume, qualche affluente del lago Kum-kul-darja, che si slanciava con salti
immensi attraverso rupi e scaglioni, formando una serie di cascate maestose, i
cui fragori, centuplicati dall'eco delle montagne, giungevano fino agli orecchi
degli aeronauti.
Quale panorama
selvaggio! Era una di quelle scene che in nessuna parte del mondo se ne può
vedere. Era il bello orrido in tutta la sua imponente grandezza.
Lo
«Sparviero», che s'avanzava colla velocità di trenta chilometri all'ora, ora
s'abbassava nell'abisso, ora volteggiava invece sopra i ghiacciai scroscianti,
dai cui margini precipitavano a un tempo enormi massi di ghiaccio e colonne
d'acqua: ora invece s'alzava per evitare qualche nuova piramide che sbarrava la
via, giganteggiante sopra l'enorme spaccatura.
Faticava assai
però a mantenere la sua direzione.
Di quando in
quando dalle gole della montagna soffiavano raffiche così furiose, da farlo
deviare ora a destra ed ora a sinistra, piegandogli perfino i piani
orizzontali.
Qualche volta
cedeva all'impeto del vento e scartava bruscamente, rovesciandosi su un fianco
o sull'altro, con gran terrore di Rokoff e di Fedoro, che temevano di vederlo
precipitare in quel baratro spaventevole.
Un colpo di
timone, dato opportunamente, lo rimetteva quasi subito sulla sua primiera
rotta; nondimeno anche il capitano più volte era diventato pallido, credendo
imminente una catastrofe.
Alle sei di
sera lo «Sparviero» abbandonava quel vallone, scendendo verso gli opposti
altipiani. La catena era stata superata e agli ultimi raggi del sole morente si
era scorto scintillare verso l'est il lago, incassato fra gigantesche montagne.
Una fermata
era necessaria, essendo tutti non solo stanchi, ma anche gelati.
Il capitano si
era messo in osservazione per cercare un luogo acconcio e che fosse riparato
dai venti e anche dalle valanghe.
- Là - disse a
un tratto, indicando una specie di bacino circondato da un anfiteatro di
muraglie granitiche. - Sembra fatto apposta per noi.
Lo «Sparviero»
cominciava ad abbassarsi lottando faticosamente coi venti, che continuavano ad
investirlo.
Sorpassò le
rocce e si adagiò dolcemente sullo strato di neve che copriva il fondo di
quella depressione del terreno.
Furono
visitate innanzi tutto le ali e le eliche, per vedere se avevano sofferto, poi
tutti s'affrettarono a entrare nel fuso, dove era stata accesa una piccola
stufa a carbone.
Al di fuori,
dopo la scomparsa del sole, il freddo era diventato intenso e il vento
crudissimo e nembi di neve turbinavano sugli altipiani.
Chiusero il
boccaporto, cenarono alla lesta e si cacciarono sotto le coperte, ben contenti
di trovarsi in un ambiente riscaldato, dopo tutta quella neve e quelle
raffiche.
La notte passò
tranquilla. D'altronde, chi poteva importunarli, su quei deserti di ghiaccio,
dove nessun essere umano poteva abitare?
Alle otto del
mattino lo «Sparviero» riprendeva la sua corsa verso il sud-est, diretto verso
la catena dei Crevaux e gli altipiani del Kuku-Nor.
Il tempo era
pessimo. Nevicava abbondantemente e il vento spazzava il deserto con foga
incessante, facendo scricchiolare le armature d'acciaio delle due ali.
- Avremo
bufera - disse il capitano con qualche inquietudine.
- Non sarebbe
stato meglio fermarci dove ci siamo accampati? - chiese Rokoff.
- Il vento ci
avrebbe guastato le nostre ali sbattendole al suolo. Preferisco affrontare la
burrasca. Ci terremo però vicini al suolo, non essendovi altezze da superare,
almeno fino ai Crevaux, che non raggiungeremo prima di questa sera. Sapete che
seguiamo una via già percorsa da un europeo?
- Da chi? -
chiese Fedoro.
- Da Donvalot
nel 1889-90.
- Capitano! -
esclamò Rokoff. - Vedo delle abitazioni in quell'avvallamento.
- Anche Donvalot
ne aveva trovato in questa parte dell'altipiano. Quale esistenza devono
condurre quei disgraziati!
- Da
esquimesi, se non peggio. Non lasciano le loro casupole che nell'estate, per
dedicarsi alla caccia o per condurre i loro montoni e i loro cammelli al
pascolo.
- E quali
piante possono spuntare su questi desolati altipiani?
- Delle misere
graminacee e pochi ciuffi d'un'erba corta e legnosa che non deve essere troppo
eccellente anche per le bestie più accontentabili.
- E quella
costruzione che vedo laggiù in fondo a quell'orribile burrone, che cos'è? -
chiese Fedoro.
- Un monastero
buddista - rispose il capitano.
- Fabbricato
in mezzo a questo deserto?
- Questo
deserto è santo, mio caro amico, al pari dei dintorni del Tengri-Nor e di Chassa.
Tutto il Tibet è terra venerata, perché tutto appare meraviglioso agli occhi
dei pellegrini. Qualunque spaccatura, pei fanatici, è stata aperta dal Dio;
qualunque piramide deve essere d'origine divina; perfino i sassi sono cose
sante e si portano religiosamente via come reliquia d'una delle
trecentosessanta montagne che si elevano in questa regione.
- E che cosa
fanno quei monaci in queste gole e fra questi dirupi?
- Raccolgono
le salme dei pellegrini morti in causa delle lunghe sofferenze, delle fatiche e
della fame, o delle frecce o delle palle dei briganti, per cremarle e quindi
mandare le ceneri ai monaci del Tengri-Nor affinché le gettino nell'acqua più
sacra della terra.
- Se
scendessimo presso quel monastero, ci accoglierebbero male? - chiese Rokoff.
- Nella nostra
qualità di stranieri non buddisti, avremmo più da temere che da sperare un
cordiale ricevimento - rispose il capitano. - Continuiamo perciò il nostro
viaggio e teniamoci lontani da tutti.
Il viaggio
però minacciava di diventare molto difficile e anche assai pericoloso.
La bufera di
neve aumentava di violenza, e i venti, ormai scatenati, soffiavano con furia
irresistibile minacciando di travolgere lo «Sparviero».
Una fitta
nebbia si estendeva a poco a poco sull'altipiano, coprendo le spaccature, i
burroni, gli abissi e facendo velo alle montagne.
La neve cadeva
a larghe falde, turbinando burrascosamente, levandosi poi in cortine così fitte
che talvolta Fedoro, il capitano e Rokoff non riuscivano a scorgere più il
macchinista e il silenzioso passeggero che si trovavano a poppa del fuso.
Lo
«Sparviero», quantunque le sue ali e le sue eliche funzionassero rabbiosamente,
descriveva dei bruschi soprassalti e piegava ora a destra e ora a sinistra,
imitando il volo incerto e irregolare dei pipistrelli.
Talvolta il
vento riusciva a vincerlo, abbattendolo verso qualche abisso, ma passata la
raffica il fuso si risollevava slanciandosi nuovamente attraverso gli
altipiani.
Nondimeno
tutti erano inquieti, compreso il capitano, il quale temeva di dover cedere o
di doversi abbassare in mezzo al turbine di neve. E poi vi era anche un altro
pericolo gravissimo, quello di trovarsi improvvisamente dinanzi a qualche picco
che la nebbia, che diventava sempre più fitta, alzandosi verso lo «Sparviero»,
non permetteva di distinguere a tempo.
- Come finirà
questa corsa? - chiese Rokoff al capitano. - Potremo noi continuarla senza
riportare qualche grave avaria? Pensate che una delle ali è stata spezzata
sull'Hoang-ho.
- Lo so -
rispose il comandante, la cui fronte si abbuiava. - E dove scendere?
L'altipiano non si scorge più e potremmo cadere in qualche abisso.
- Se ci
alzassimo ancora?
- Nelle alte
regioni il vento sarà più impetuoso. Guardate le nuvole come vengono
scompigliate e lacerate dalle raffiche.
- Sapete dove
ci troviamo?
- So che
corriamo verso i Crevaux.
- Saranno
ancora lontani?
- Lo suppongo.
- Non ci
fracasseremo contro quei picchi?
- Non sono
molto alti, signor Rokoff; uno solo, il Ruysbruk mi dà molto da pensare,
ignorando le sue dimensioni.
- Speriamo che
il vento non ci spinga da quella parte. Dove si trova quella montagna?
- All'ovest.
- E il vento
soffia sempre dall'est, signore - disse il cosacco. - E non poter vedere più
nulla! La nebbia avvolge tutto l'altipiano e aumenta sempre, salendo verso di
noi.
- E l'ala
ferita scricchiola - disse il capitano, le cui preoccupazioni aumentavano. -
Finiremo per vederla ripiegarsi.
- E cadremo?
- Ci sono i
piani orizzontali, signor Rokoff, e ci sosterranno benissimo. Una discesa,
anche con questo vento, non mi spaventa.
La situazione
dello «Sparviero» si aggravava di momento in momento. Le raffiche, sempre più
violente, lo gettavano a ogni istante fuori di rotta, travolgendolo nonostante
le battute poderose delle ali e pareva che anche il timone non servisse quasi
più.
Il fuso
cadeva, si rialzava, volteggiava in mezzo al turbine, poi tornava ad
abbassarsi: non aveva più alcuna direzione.
E intanto la
nebbia saliva avvolgendolo e la neve, spazzata dai venti, investiva gli uomini,
impedendo loro di tenere quasi aperti gli occhi.
D'un tratto lo
«Sparviero» si rovesciò violentemente su un fianco. Rokoff aveva mandato un
grido:
- L'ala ha
ceduto! Cadiamo!
Era vero.
L'ala, già guastata dalla palla dei cinesi e poi raccomodata dal macchinista,
si era nuovamente spezzata a metà piegandosi in due. Il capitano, vedendola
cadere sul fuso, era diventato pallido, però aveva subito riacquistato il suo
sangue freddo.
- Arrestate la
macchina! - gridò.
- Si rovescerà
lo «Sparviero»? - chiesero a una voce Rokoff e Fedoro.
- No, non c'è
pericolo - rispose il capitano. - Lasciamoci portare dal vento.
- Dove
cadremo? - chiese Rokoff.
- Non lo so,
vedremo poi.
Lo «Sparviero»
cadeva, ma lentamente, essendo sempre sorretto dai piani orizzontali e dalle
eliche, le quali funzionavano ancora.
Il vento lo
spingeva verso ponente, facendogli descrivere degli zig-zag che impressionavano
il russo e il cosacco, i quali temevano sempre che venisse trascinato contro
qualche picco e fracassato.
Il capitano,
curvo sulla balaustrata di prora, cercava di discernere la terra che la nebbia
e la neve turbinante gli nascondevano.
Dove cadeva lo
«Sparviero»? Sull'altipiano, sulla cima di qualche rupe o in fondo a qualche
spaventevole abisso?
- Non vedete
nulla? - chiese Rokoff, che si teneva da un lato onde il fuso non si
squilibrasse.
- Nulla, ma la
terra non deve essere lontana.
- Il vento ci
porta e minaccia di travolgerci. Toccheremo rudemente.
- Tenetevi
saldi; possiamo venire rovesciati.
- Maledetta
nebbia!
- Macchinista!
- Signore!
- Ferma anche le
eliche.
- Capitano! -
esclamò a un tratto Fedoro. - Il vento è improvvisamente cessato.
- Me ne sono
accorto.
- Dove siamo
dunque noi?
- Suppongo che
scendiamo in un abisso. Non udite dell'acqua scrosciare? Pare che qualche
cascata ci sia vicina.
- Sì, l'odo
anch'io - disse Rokoff.
- E a me pare
d'aver veduto un'enorme muraglia fra uno squarcio della nebbia - disse Fedoro.
- Dobbiamo
scendere in qualche abisso - rispose il capitano. - Diversamente il vento
continuerebbe a soffiare. Preparatevi a saltare a terra appena toccheremo.
Lo «Sparviero»
continuava la sua discesa, lentamente, senza scosse, come un aquilone che viene
tirato al suolo. Il vento non ruggiva più attorno ad esso, anzi regnava una
certa calma.
Doveva aver
già raggiunto l'orlo dell'altipiano spazzato dalla bufera; la nebbia però non
permetteva agli audaci aeronauti di vedere dove calavano. Lo scrosciare della cascata
si udiva sempre verso destra e diventava anzi più assordante. Qualche enorme
colonna d'acqua, proveniente da qualche ghiacciaio, doveva precipitarsi
attraverso quella spaccatura, o burrone, o abisso che fosse.
Il capitano
cercava d'indovinare dove scendevano e non gli riusciva di discernere le pareti
del vallone che la nebbia ostinatamente teneva celate. Era già trascorsa quasi
una mezz'ora dalla rottura dell'ala, quando il fuso subì una scossa, piegandosi
per un momento sul fianco destro.
- Capitano! -
gridò Rokoff, aggrappandosi fortemente alla balaustrata. - Abbiamo toccato.
Il comandante
si era spinto fuori dal bordo per riconoscere l'ostacolo e vide confusamente
una punta aguzza che si piegava sotto il peso del fuso.
- È la cima
d'un abete o d'un pino - disse. - Pare che vi sia una foresta sotto di noi.
- Potremo
scendere?
Invece di
rispondere il capitano si slanciò verso la macchina mettendo in movimento
l'elica anteriore. Cercava di spingere innanzi lo «Sparviero», temendo che
dovesse cadere in mezzo a qualche foresta, ciò che avrebbe prodotto qualche
catastrofe o per lo meno dei gravi danni.
E infatti il
fuso, non trovando spazio sufficiente, poteva rovesciarsi e piombare in mezzo
alle piante fracassando i piani orizzontali e lacerandosi le ali.
Sembrava però
poco credibile al capitano che sotto di lui si estendesse una vera foresta,
essendo gli altipiani del Tibet settentrionale quasi privi di piante d'alto
fusto.
Qualche abete
o qualche pino, trovato il terreno favorevole, poteva essere cresciuto, ma non
di più.
Fortunatamente
lo «Sparviero», rimorchiato dall'elica, a poco a poco si spostava, cadendo
molto lontano da quell'ostacolo che aveva sfiorato l'estremità inferiore del
fuso.
Il capitano,
che non aveva abbandonato il suo posto a prora, non ne aveva scorto altri. La
nebbia però era sempre foltissima, anzi più che sull'altipiano.
D'improvviso
il fuso tornò a toccare. Si udì un urto, seguito poco dopo da uno scricchiolare
di tavole o di rami, accompagnato da grida acute.
- Mille
milioni di fulmini! - esclamò Rokoff. - Schiacciamo della gente noi?
- Mi pare che
siamo caduti su un'abitazione - disse il capitano.
Urla di
terrore risuonavano fra la nebbia, mentre il fuso s'inclinava verso poppa,
trattenuto da un impedimento che non gli permetteva di adagiarsi
orizzontalmente.
A un tratto
però l'ostacolo cedette sotto il peso e si sfasciò con mille scricchiolii.
L'abitazione
doveva essersi spezzata, perché lo «Sparviero» riprese il suo appiombo,
rimanendo immobile.
- Le armi! Le
armi! - gridò il capitano.
Attraverso la
nebbia aveva scorto delle ombre umane agitarsi.
Il macchinista
e il suo muto compagno avevano portato in coperta degli Snider e dei Remington.
Il capitano
era balzato a terra assieme a Fedoro e a Rokoff, gridando in lingua mongola.
- Pace! Pace!
Non temete! Siamo amici!
Degli uomini
coperti di pellicce che li facevano rassomigliare ad orsi, si erano accostati.
- Chi siete! -
chiese una voce imperiosa.
- Amici -
rispose il capitano.
- Da dove
siete caduti? Avete schiacciato la mia capanna.
- Siamo pronti
a indennizzarvi dei danni che vi abbiamo recato.
- Siete mongoli?
- Europei che
non vi faranno alcun male.
- Che cosa
sono questi europei?
- Degli uomini
bianchi - rispose il capitano. - Chi comanda qui? Conduceteci dal vostro capo.
Quindici o
venti uomini si erano radunati attorno al capitano e ai suoi compagni, mentre
altri s'aggiravano presso lo «Sparviero», cercando di distinguere che cosa
fosse quella massa enorme che cadeva dall'alto schiacciando le case.
Un uomo,
grosso come una botte, che aveva un enorme berretto di pelo e una casacca di
grosso feltro, si era avvicinato al capitano, dicendo:
- Se cercate
il capo del villaggio, sono io. Che cosa volete? Da qual parte siete scesi in
questa valle senza chiedermi il permesso e mettendo in pericolo i miei sudditi?
Per poco non avete schiacciato una intera famiglia.
- È l'uragano
che ci ha fatto cadere qui. Se il vento non ci avesse spinti, non saremmo
discesi.
- E che cos'è
quella bestia? Sarà poi una bestia?
- È la nostra
casa.
- Gettata giù
dal vento? E non vi siete uccisi? Siete uomini o demoni?
- Vi ho già
detto che siamo degli uomini bianchi.
- Venite nella
mia capanna; voglio vedere se somigliate a quelli che sono passati per di qui
molti anni or sono.
- Vi consiglio
di far ritirare tutti i vostri uomini e di non toccare la nostra casa. Potrebbe
scoppiare e farvi saltare tutti in aria.
- Allora la
vostra casa è una bestia cattiva! - esclamò il tibetano, retrocedendo
vivamente.
- Non
toccatela e non farà male ad alcuno. Se ci accordate ospitalità, noi vi faremo
dei regali.
- So che gli
uomini bianchi sono generosi. Anche gli altri mi hanno fatto dei regali.
- A quali
europei allude? - chiese Rokoff, cui il capitano traduceva le risposte del
tibetano.
- A quelli
della missione Bonvalot - rispose il comandante. - Questo selvaggio
probabilmente ha veduto il principe Enrico d'Orléans, il figlio del duca di
Chartres e cugino del pretendente al trono di Francia. Giacché acconsente a
offrirci ospitalità, andiamo subito nella sua capanna. Qui fa un freddo cane e
non si vede a due passi di distanza.
- E il
macchinista e il vostro amico? - chiese Fedoro.
- Rimarranno a guardia dello «Sparviero».
- Che corrano
qualche pericolo?
- Ho detto
loro di montare la piccola mitragliatrice e con un simile arnese possono
tenersi sicuri. D'altronde non mi pare che questi montanari abbiano intenzioni
ostili. Andiamo nella casa di questo capo.
I tibetani,
dopo aver ronzato un po' attorno allo «Sparviero», senza poter indovinare che
cosa fosse, in causa della foltissima nebbia che lo avvolgeva, a poco a poco si
erano dileguati.
Era rimasto
solamente il capo, il quale continuava a infagottarsi nelle sue pelli.
- Vi seguiamo
- disse il capitano, dopo essersi fatto dare dal macchinista dei viveri, alcune
bottiglie e delle bazzecole che contava di regalare al montanaro.
Tenendosi per
mano onde non smarrirsi, si lasciarono condurre. A destra e a manca scorgevano
confusamente delle masse oscure che dovevano essere o tende o capanne e che
erano avvolte fra un denso fumo che il nebbione impediva di disperdersi.
Dopo trenta o
quaranta passi il tibetano aprì una porta e li introdusse nella sua abitazione
formata da una sola stanza ingombra di pelli, di caldaie di rame, di quarti di jacks
quasi gelati e ammassi di vecchi tappeti di feltro che dovevano servire da
letto.
Nel mezzo, su
quattro sassi, bruciava dell'argol, il quale non è altro che dello sterco di
toro indurito, l'unico combustibile usato sull'altipiano e che produce fumo in
abbondanza. Un'apertura però, fatta nel tetto, permetteva che bene o male
uscisse; ve ne rimaneva tuttavia tanto dentro, che gli aeronauti credettero per
un momento di morire asfissiati.
- All'inferno
i palazzi tibetani! - esclamò Rokoff, che tossiva fragorosamente. Questa è una
tana da volpi!
- Ci
abitueremo presto a questo fumo - rispose il capitano.
Il capo si era
intanto sbarazzata del suo immenso mantello, formato da una intera pelle di jack,
che portava col pelo all'infuori, e del suo berrettone di pelle d'orso, che gli
nascondeva mezzo volto.
Era il vero
tipo del montanaro tibetano, basso di statura, secco, con occhi piccoli, un po'
obliqui come quelli della razza mongola, senza un pelo sul volto e invece con
una capigliatura lunga e abbondante, molto ruvida e che portava raccolta in
trecce cadenti sulla fronte bassa e depressa e sulle spalle.
Aveva gli
zigomi molto più pronunciati dei cinesi, il naso grosso, la bocca larga fornita
di denti lunghi e acuti come quelli delle belve, male disposti e sporgenti in
modo che gli uscivano dalle labbra. La sua pelle poi scompariva sotto un vero
strato di sporcizia. Probabilmente quell'uomo non si era mai lavato dal giorno
che era venuto al mondo.
Prima
d'accostarsi agli aeronauti, fece un goffo inchino alzando poi i pollici delle
mani fino all'altezza della fronte e cacciò fuori dalle labbra una lingua lunga
quasi mezza piede, che lasciò penzolare per alcuni istanti.
- Per le
steppe del Don! - esclamò Rokoff, guardandolo con stupore e con disgusto. - Sta
appiccandosi costui?
- Ci saluta -
rispose il capitano.
- Con quella
lingua! Da dove l'ha cacciata fuori!
- Tutti i
tibetani l'hanno così lunga.
- Dite
mostruosa. È ributtante! Sembra quella d'un orso formichiere.
- Se saremo
costretti a fermarci qui ne vedrete ben altre più enormi.
- Mille storioni!
Il tibetano,
dopo quel saluto, con una mimica molto espressiva, aveva invitato i suoi ospiti
a sedersi attorno al fuoco, dove già si trovavano dei grossolani tappeti di
feltro.
Tutti i
montanari di quei desolati altipiani, per lo più non si esprimono che con moti,
come se incontrino qualche difficoltà nel parlare. Dipende forse dalle
mostruose dimensioni della loro lingua e anche dalla pessima disposizione dei
loro denti? Il fatto sta che fra di loro non parlano quasi mai. Si esprimono e
si comprendono benissimo con moti della bocca e della lingua, agitando le
labbra in vari sensi, aiutandosi anche coi pollici delle mani per meglio far
comprendere i loro desideri.
Anche quando
vogliono salutare, invece di dare un cordiale «buon giorno» o la «buona sera»,
si limitano a sporgere più che possono la lingua.
Il capo andò a
prendere un coltellaccio e da un quarto di jack che era sospeso alla
parete, staccò alcuni enormi pezzi che depose dinanzi agli ospiti invitandoli a
mangiare.
- Mille
milioni di fulmini! - esclamò Rokoff. - Questo scimmiotto ci prende per tigri o
per lupi per darci della carne cruda.
- Non usano
cucinarla - disse il capitano. Questi montanari vivono nel modo più primitivo
che si possa immaginare e non si nutrono che di farina d'orzo e di carne cruda.
Immaginatevi che non conoscono nemmeno il tè!
- Io non farò onore a questo pasto da
cannibali - disse Fedoro.
Abbiamo le
nostre provviste e vedrete che il capo non si farà pregare per assaggiarle.
Aveva portato
delle scatole di carne conservata, un pudding gelato, dei biscotti,
dello zucchero per prepararsi il tè e due bottiglie di ginepro.
Depose ogni
cosa intorno al fuoco e invitò il capo a prendere parte al pasto.
Il montanaro,
vedendo gli ospiti lasciare intatta la carne cruda era rimasto un po' confuso,
però aveva subito accettata la parte che il capitano gli offriva, gettandosi
avidamente sul pezzo di pudding e sulle gallette e guardando cogli occhi
accesi i pezzetti di zucchero.
- Io conosco
quei pezzi di pietra - disse. - Gli uomini bianchi che sono passati per di qua
molti anni or sono, me ne hanno fatto assaggiare.
- To'! Li
chiama pezzi di pietra! - esclamò Rokoff, dopo aver udita la traduzione. - A
te, mio caro selvaggio, addolcisciti la bocca; poi te la riscalderai col
ginepro.
Terminato il
pasto il capo, che era diventato molto loquace dopo parecchi bicchieri della
forte bevanda, spiegò al capitano che erano caduti in una profonda vallata
racchiusa fra montagne tagliate a picco, che aveva una sola uscita verso il
Ruysbruck, il più alto ed imponente picco dei Crevaux e che il suo villaggio si
componeva di sessanta famiglie di pastori.
Si dimostrava
però sempre curioso di sapere in qual modo erano caduti da una così spaventevole altezza senza fracassarsi le
ossa e di sapere che cosa era quella massa enorme che aveva schiacciata una
capanna.
La spiegazione
fu laboriosa ma senza successo, non avendo quel tibetano mai udito parlare né
di palloni, né di macchine volanti e tanto meno di uomini che viaggiavano fra
le nubi.
- Se è vero
quello che tu mi racconti - concluse il montanaro - tu devi essere l'uomo più
potente della terra. Finché però non ti vedrò volare come le aquile, non ti
crederò mai, perché solo Buddha, potrebbe tentare una simile cosa.
Volle in
seguito vedere i fucili degli aeronauti senza poter comprendere come facessero
fuoco non avendo la miccia.
Gli sguardi
d'ardente cupidigia che lanciava su quelle armi erano tali da impressionare il
capitano.
- Finirà per
chiedercele - disse a Rokoff ed a Fedoro. - Noi però non gliele daremo. Si
accontenti del suo moschettone a miccia.
Dopo un paio
d'ore lasciarono la capanna, non fidandosi di dormire in compagnia del capo.
Il nebbione
non si era ancora alzato e la neve cadeva abbondante anche nel vallone.
Il macchinista
e lo sconosciuto per riparare il ponte del fuso, avevano in quel frattempo tesa
una immensa tenda di tela cerata e messa in batteria una piccola mitragliatrice
a sette canne disposte a ventaglio, arma sufficiente per tenere in rispetto i
tibetani, nel caso che avessero tentato di saccheggiare o di guastare lo
«Sparviero».
- È venuto
nessuno ad importunarvi durante la nostra assenza? - chiese il capitano.
- Abbiamo
veduto, a più riprese, aggirarsi fra la nebbia alcune ombre che si sono subito
dileguate al mio grido d'allarme - rispose il macchinista.
- Si direbbe
che voi non siete tranquillo - disse Fedoro, un po' sorpreso.
- I tibetani
non vedono volentieri gli stranieri - rispose il capitano. - E poi qui, in
queste gole, non vivono che dei briganti, non essendovi pascoli fra questi
orridi dirupi. E poi sapete che cosa m'inquieta?
- Dite,
signore.
- L'assenza
completa delle donne; ne avete vedute voi?
- Io no.
Dunque non credete che le capanne e le tende siano abitate da famiglie.
- Solamente da
uomini.
- Che ci diano
delle noie? - chiese Rokoff.
- Non mi
sorprenderei. Durante la buona stagione, all'epoca dei pellegrinaggi, tutte le
vie che attraversano gli altipiani sono infestate da banditi. Chi mi assicura
che non lo siano anche questi? Vegliamo amici e non lasciamoci sorprendere.
- Brutto
affare, collo «Sparviero» immobilizzato.
- Aiuteremo il
macchinista ad accomodare l'ala. I pezzi di ricambio sono già pronti.
- Sarà lunga
la riparazione?
- Non avrò
terminato prima di domani a mezzodì - disse il macchinista. - Il vento ha
spezzato più di mezze verghe.
- Al lavoro -
disse il capitano. - Intanto uno di noi veglierà passeggiando intorno al fuso,
onde i Tibetani non ci guastino i piani orizzontali. Se sventrano la seta, per
noi sarebbe finita e l'idea di un viaggio a piedi attraverso il Tibet,
specialmente in questa stagione così fredda, vi assicuro che non mi sorride
affatto.
- M'incarico
io del primo quarto di guardia - disse Rokoff.
Si gettò sulle
spalle un ampio gabbano di tela impermeabile, si calcò in testa il suo berretto
di pelo simile a quello che portano i tartari della steppa e armatosi dello
Snider balzò a terra, scomparendo nella nebbia.
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