L'ASSALTO DEI
MONTANARI
L'uragano che
da tante ore continuava ad imperversare sugli immensi altipiani, non accennava
ancora a cessare, anzi pareva che ricominciasse a riprendere lena.
Si udiva in
alto, verso la cima delle enormi pareti che formavano la vallata o meglio
l'abisso, ruggire il vento e di quando in quando si udivano pure dei fragori
strani e terribili, prodotti probabilmente dal rotolare di enormi valanghe.
La neve,
spinta dalle raffiche, cadeva abbondantissima nel vallone, mentre la nebbia passava
e ripassava ad ondate ed a cortine sempre più fitte, intercettando
completamente la luce.
- Pare che sia
calata la notte, eppur non devono essere che le tre o le quattro del pomeriggio
- disse Rokoff, il quale aveva già fatto il suo primo giro intorno allo
«Sparviero». - Come fanno a vivere in quest'orribile abisso questi tibetani?
Bel paese in fede mia! Lo sdegnerebbero perfino i lupi. Apriamo gli occhi; non
si sa mai quello che può succedere. Se il capitano non è tranquillo, deve avere
i suoi motivi.
Non avendo
veduto nessuno presso lo «Sparviero», allargò il suo giro, spingendosi verso le
capanne dei tibetani, le quali erano allineate su due file. Anche là nulla di
sospetto. Tutte le abitazioni erano ermeticamente chiuse e Rokoff non vedeva
uscire che del fumo il quale, invece d'innalzarsi, si manteneva presso il suolo
come se la nebbia lo soffocasse.
- Non si
occupano più di noi - disse. - Preferiscono scaldarsi intorno ai loro camini
primitivi e bruciare argol. Buon segno, almeno per ora.
Sul ponte del
fuso, il fuoco del fornello brillava, lanciando fra la caligine qualche
scintilla e si udivano i martelli rimbombare sonoramente.
I suoi
compagni avevano cominciato a lavorare onde riparare quella maledetta ala, che
per la seconda volta aveva messo in grave pericolo gli aeronauti. Rokoff, fatto
un terzo giro, si sedette su un mucchio di neve, avvolgendosi nel gabbano,
tirandosi il cappuccio sugli occhi e mettendosi il fucile fra le ginocchia.
Di quando in
quando si alzava cercando di forare, cogli sguardi, la nebbia che si addensava
con un'ostinazione desolante. Nel vallone tutto era silenzio. Non si udivano
che i colpi di martello del macchinista.
In alto però
il vento ruggiva sempre ed i rombi delle valanghe si seguivano.
- Se qualcuna
cadesse qui e ci fracassasse lo «Sparviero»?
- si chiese ad un tratto il cosacco. - Tutto è possibile in questo
dannato paese.
Stava per
alzarsi, quando gli parve di vedere un'ombra strisciare sul suolo. Veniva dalla
parte del fuso e si dirigeva verso le casupole dei tibetani. Procedeva in un
certo modo da crederlo più un animale che un uomo.
- Sarà qualche
cane - disse Rokoff. - Mi hanno detto che questi pastori tengono dei molossi di
statura gigantesca.
Si provò a
dare il chi vive e, non ottenendo risposta, tornò a sedersi, più che mai
convinto che quell'ombra non potesse essere un uomo.
Un quarto
d'ora dopo però, ne scorgeva un'altra. Anche questa proveniva dal fuso e
scivolava silenziosamente in direzione delle capanne.
- Che i cani
vadano a ronzare intorno allo «Sparviero»? - si chiese Rokoff, un po' inquieto.
- To! Ed eccone là un terzo che se ne va.
Lasciò il
posto e fece alcuni passi innanzi, ma già anche quell'ombra era scomparsa nella
nebbia.
Curioso di
chiarire quel mistero, fece un altro giro intorno al fuso e ne vide altri
allontanarsi velocemente.
- Ciò non è
naturale - disse.
S'avvicinò
allo «Sparviero» sul cui ponte il capitano, Fedoro e gli altri due lavoravano
martellando lunghe lamine di acciaio, alla luce del fornello.
- Signore -
disse - è venuto nessuno qui?
- Ah! Siete
voi, signor Rokoff? - chiese il capitano, accostandosi alla balaustrata. - Come
va la vostra guardia?
- Mi pare che
non vada bene.
- Perché dite
questo?
- Avete veduto
dei cani ronzare intorno al fuso?
- Dei cani! -
esclamò il capitano, stupito.
- Io ho veduto
degli animali fuggire.
- Saranno
stati dei lupi.
- Si
dirigevano tutti verso le casupole dei tibetani.
- Siete sicuro
che fossero animali?
- Almeno mi
parvero tali, capitano.
- Noi non
abbiamo veduto alcuno, signor Rokoff.
- Manca nulla
qui?
- Nessuno è
salito sul fuso; col fuoco che brilla, lo avremmo veduto.
- È strana.
- Cercate di
sorprenderne qualcuno.
- È quello che
farò; torno al posto.
Rokoff rifece
per la quinta volta il giro del fuso, senza notare alcunché di straordinario.
Stava per
tornare al suo cumulo di neve che gli era servito da sedile, quando vide
un'altra ombra fuggire dinanzi a sé.
- Questa volta
non mi fuggirai - disse, alzando il fucile. - Uomo od animale ti prenderò.
Si era
slanciato a tutta corsa dietro quell'ombra che cercava di dileguarsi nella
nebbia. Aveva percorsi appena quindici o venti passi, quando incespicò in
qualche cosa che gli si aggrovigliò attorno alle gambe come una rete od uno
straccio.
- Per le
steppe...! - esclamò, cadendo in mezzo alla neve.
Si rialzò
prontamente ma l'ombra aveva approfittato per sparire fra il nebbione.
Si curvò per
cercare l'ostacolo che lo aveva fatto cadere e che doveva essergli stato
gettato fra le gambe dal fuggiasco e mandò un grido di rabbia.
- Canaglia!
Si trattava
realmente d'un lungo pezzo di stoffa che aveva subito riconosciuta. Era un
pezzo di seta levato dai piani orizzontali.
- Ci guastano
lo «Sparviero»! - urlò, slanciandosi verso il fuso. - Ci hanno rubata la seta
dei piani! All'armi!
Il capitano era
balzato a terra seguito dal macchinista il quale portava una lampada.
- La seta dei
piani! - esclamò, pallido d'ira.
- Ne ho
trovato un pezzo. Le ombre che fuggivano erano uomini e non cani o lupi.
- Se è vero,
me la pagheranno cara!
Prese la
lampada e si diresse velocemente verso i piani di babordo.
- Canaglie! -
gridò. - Ci hanno rovinati!
I tibetani,
approfittando del nebbione, avevano strappata tutta la seta del terzo piano,
ossia di quello che posava al suolo e che doveva opporre la maggior resistenza.
La perdita era
grave, perché il capitano non aveva seta sufficiente per sostituire tutta
quella rubata. E non era tutto! Anche i piani di tribordo erano stati privati
d'una buona parte del tessuto.
- Non potremo
alzarci egualmente? - chiese Rokoff.
- Non oserei -
rispose il capitano. - È necessario ritrovare la seta e l'avrò, dovessi
mitragliare tutti questi ladri - rispose il capitano, che una bella collera
bianca rendeva furibondo. - È in questo modo che il capo ci fa pagare l'ospitalità?
Avrà da fare con me. Signor Fedoro! Le nostre carabine! -
- Cosa volete
fare, capitano? - chiese Rokoff.
- Recarmi dal
capo e costringerlo a farci restituire la seta.
- Cattiva
mossa, signore, perché saremo costretti a dividere le nostre forze e poi, chi
mi assicura che i tibetani, approfittando della nebbia, non ci abbiano
preparato qualche agguato? Ormai sanno che noi ci siamo accorti del furto.
- Temete un
attacco?
- E contro lo
«Sparviero» - rispose Rokoff. - Se non avessimo da difendere il nostro
aerotreno, io per primo vi consiglierei di agire senza indugio; lasciarlo con
due soli uomini non mi sembra prudente.
- Hanno la
mitragliatrice.
- Lo so,
tuttavia pensate che le palle dei moschettoni a miccia possono danneggiare
gravemente anche l'altra ala.
- È vero -
disse il capitano che a poco a poco s'arrendeva alle giuste riflessioni
dell'uomo di guerra. - Potrebbero guastarci le ali e distruggerci anche i piani
e allora lo «Sparviero» non ci servirebbe più a nulla. Eppure io non posso
perdere la seta che mi è necessaria quanto l'aria liquida per poterci
sorreggere. Ce ne hanno rubati almeno cento metri, mentre io non ne possiedo
più di quaranta, avendo già subito un altro guasto gravissimo sulle Montagne
Azzurre del continente australiano.
- Aspettiamo
che la nebbia si alzi prima d'affrontare i tibetani. Impegnare un combattimento
con simile oscurità contro un nemico che può essere cinquanta volte più
numeroso di noi, sarebbe una vera pazzia, signore. Saremmo costretti a sparare
a casaccio, senza o con scarsissimi risultati - disse Rokoff.
- Condivido pienamente le tue idee - disse
Fedoro, che li aveva raggiunti coi fucili. - Il fuso per noi rappresenta, in
questo momento, una piccola fortezza, sulla quale potremo resistere lungamente.
- Sì, avete ragione
- rispose il capitano, che riacquistava il suo sangue freddo. - Se però i ladri
tornano, non li risparmieremo. Signor Rokoff, voi sorvegliate il piano di
babordo ed io quello di tribordo e voi, signor Fedoro, andate ad aiutare il
macchinista. È necessario che per domani l'ala sia riparata onde essere pronti
a partire. Spero di potermi innalzare fino al margine di questo vallone anche
coi piani semi-sventrati, ma non lo faremo che all'ultimo momento, nel caso
d'un gravissimo pericolo.
Tornarono
verso il fuso. Fedoro si unì al macchinista e allo sconosciuto, il quale
lavorava non meno febbrilmente del compagno, dimostrando molta perizia, mentre
Rokoff ed il capitano si collocavano a babordo ed a tribordo, coi fucili in
mano.
Essendosi la
nebbia un po' diradata, potevano sorvegliare i piani che s'allungavano ai due
lati del fuso.
Nel piccolo
villaggio pareva che tutti dormissero, nondimeno né il comandante né il cosacco
si lasciavano ingannare da quel silenzio, il quale poteva invece nascondere
qualche sorpresa.
Nessuna ombra
più vagava fra le nebbie, tuttavia le due sentinelle non rallentavano la loro
vigilanza. Anzi talora scendevano dal fuso spingendosi fino alle estremità dei
piani.
La sera era
calata e l'oscurità era aumentata in quel selvaggio burrone, rendendo più
difficile la sorveglianza.
L'uragano
continuava intanto ad imperversare sull'altipiano. Il vento ruggiva sempre in
alto, lanciando nel vallone nembi di neve, le quali s'accumulavano in masse
enormi qua e là, e si udivano ancora i rombi delle valanghe.
Doveva essere
la mezzanotte quando Rokoff vide alcune ombre scivolare cautamente fra i mucchi
di neve, cercando di accostarsi allo «Sparviero»
- Capitano! -
gridò. - Vengono.
- I tibetani?
- Sì, li vedo
strisciare verso di noi.
- Salutateli
con un colpo di fucile.
- Faccio di
meglio, signore; metto in opera la mitragliatrice. Si persuaderanno in tal modo
che possediamo delle armi terribili.
Il cosacco
s'avvicinò al pezzo che era stato collocato a prora.
Le ombre
aumentavano di numero di momento in momento. Cercavano d'accostarsi ai piani
per rubare dell'altra seta o muovevano all'assalto dello «Sparviero» sperando
di sorprendere gli aeronauti e di opprimerli colla loro enorme superiorità?
Il cosacco che
aveva già maneggiato altre mitragliatrici nella sanguinosa guerra russo-turca,
mise in azione il terribile istrumento di distruzione, scatenando un uragano di
piombo.
Urla terribili
seguirono quella salva di detonazioni, poi si videro le ombre gettarsi
precipitosamente al suolo e scomparire in direzione del villaggio.
- Pare che
abbia levato la pelle a più d'uno - disse Rokoff. - Speriamo che ci lascino ora
in pace.
Aveva sospeso
il fuoco e si era slanciato giù dal fuso, assieme al capitano ed a Fedoro, per
vedere se i tibetani si erano realmente allontanati.
Aveva fatto
venti o trenta passi, quando vide alcune scintille brillare fra le tenebre.
- Guardatevi!
- gridò. - Le micce bruciano
Si erano
lasciati cadere a terra tutti e tre, riparandosi dietro un cumulo di neve.
Quattro o cinque
spari rimbombarono in quel momento e udirono sibilare in alto.
- Si tenevano
in agguato - disse Rokoff. - Nemmeno la mitragliatrice è stata sufficiente a
calmarli.
-
Ripieghiamoci verso il fuso - disse il capitano. - Qui corriamo il pericolo di
farcì fucilare a tradimento e anche di venire circondati.
Vedendo
brillare altri punti luminosi, si gettarono in mezzo ai cumuli di neve,
salutati da una seconda scarica, che come la prima non ebbe alcun effetto.
Quei
moschettoni, non dovevano tirare troppo bene, tuttavia qualche palla, anche per
puro caso, poteva giungere a destinazione e costringere il macchinista, il
quale aveva dovuto scendere dal fuso per lavorare intorno all'ala ferita, a
sospendere la riparazione.
- La cosa
minaccia di diventare grave - disse Rokoff. - Siamo caduti in mezzo a dei veri
briganti.
- Che cosa mi
consigliereste di fare? - chiese il capitano, le cui inquietudini aumentavano.
- Scacciare
questi banditi.
- Non siamo in
numero sufficiente.
- Ritiratevi
tutti a bordo e facciamo lavorare la mitragliatrice e le carabine.
- E voi?
- Io vado ad
incendiare il villaggio.
- Fatelo
saltare con una bomba d'aria liquida.
- To'! Non
avevo pensato che disponiamo di mezzi così potenti. Datemene una e m'incarico
io di mandare in aria tutte le catapecchie di questi briganti.
- Teneteli
occupati per cinque minuti ed io m'incarico del resto.
- E se vi
sorprendono?
- Con questa
oscurità! E poi mi difenderò. Datemi un paio di rivoltelle.
- Sbrigatevi,
signor Rokoff. Vedo i tibetani avanzarsi e tremo per i miei piani orizzontali
che possono venire distrutti in pochi minuti.
- Sono pronto
a partire.
Risalirono
precipitosamente a bordo. Il cosacco prese le rivoltelle e la bomba che il
capitano erasi recato a prendere e discese dalla parte opposta.
I montanari
avevano ricominciato a sparare e la mitragliatrice rispondeva vigorosamente,
appoggiata dagli Sniders del macchinista; di Fedoro e dello sconosciuto,
il quale anche in quel terribile frangente non si era lasciato sfuggire una
sola parola che avesse potuto tradire la sua vera nazionalità.
Rokoff
appesosi il tubo di ferro, che racchiudeva l'aria liquida, alla cintura ed
impugnate le sue rivoltelle, si era messo a strisciare lungo il piano di
tribordo.
Fortunatamente
per lui, i tibetani invece di accerchiare lo «Sparviero», avevano cominciato
l'attacco su un solo punto, ossia verso il piano di babordo. Dall'altra parte
non si vedevano né ombre avanzarsi, né scintillare le micce dei vecchi moschettoni.
Nondimeno il cosacco procedeva cautamente, temendo di trovarsi improvvisamente
dinanzi a qualche drappello di nemici.
- Mi parve che
le casupole fossero disposte su una vasta fronte - disse - e che si trovassero
su due file. Salteranno tutte insieme.
A un tratto un
pensiero lo trattenne.
- E la seta
dei piani? - si chiese. - Non verrà distrutta? M'immagino che i ladri l'avranno
nascosta nelle loro capanne. Bah! In qualche modo la surrogheremo più tardi.
Pensiamo per ora a salvare la pelle.
Dall'altra
parte le fucilate continuavano, aumentando d'intensità. I tibetani non cedevano
nemmeno dinanzi alle poderose scariche della mitragliatrice le cui palle
dovevano spazzare il terreno in tutte le direzioni, essendo le canne disposte a
ventaglio.
Rokoff, raggiunta
l'estremità del piano, si gettò al suolo per non venire colpito dai proiettili
dei montanari che passavano sopra il fuso e si spinse risolutamente innanzi,
brancolando fra l'oscurità.
Sapeva press'a
poco dove si trovavano le capanne. Non dovevano distare che tre o quattrocento
metri dallo «Sparviero».
Si era messo a
correre, udendo le urla dei tibetani aumentare, come se si incoraggiassero per
un assalto decisivo.
Ad un tratto
andò a urtare contro un ostacolo. Era una parete in legno od in muratura.
- Una casupola
- disse. - Fosse almeno quella del capo!
Girò
rapidamente intorno finché trovò un'apertura e vi si cacciò dentro. Un po' d'argol
bruciava su alcuni sassi, spandendo all'intorno una vaga luce. Rokoff depose il
tubo di ferro in un angolo, mise a posto il rocchetto, svolse il filo e poi
fuggì a tutte gambe per non saltare assieme al villaggio. La fucilata in quel
momento era diventata furiosa. Presso il fuso, si combatteva ferocemente fra
gli aeronauti e i tibetani, i quali parevano più che mai decisi d'impadronirsi
dello «Sparviero» e dei suoi difensori o meglio delle loro formidabili armi.
Già il cosacco
stava per raggiungere il piano di babordo, quando vide sorgere dalla terra
alcune ombre.
- Largo! -
gridò.
Vedendo altri
uomini accorrere alzò le due rivoltelle e aprì un vero fuoco di fila facendone
cadere alcuni, poi approfittando del terrore dei superstiti si slanciò verso il
fuso, urlando:
- Tenete
fermo! Il villaggio sta per saltare!
E sprigionò la
scintilla elettrica, servendosi del filo che non aveva abbandonato. Una
spaventevole detonazione rimbombò nel vallone, seguita da urla di spavento e da
un precipitare di rottami.
La spinta
dell'aria era stata così violenta da spostare perfino il fuso e da atterrare di
colpo gli aeronauti.
Per alcuni
minuti si udirono dei clamori assordanti che si allontanavano verso l'uscita
del vallone, poi una luce intensa s'alzò forando il nebbione.
- Il villaggio
ha preso fuoco! - gridò Rokoff, il quale si era risollevato. Il capitano si era
slanciato verso il cosacco aiutandolo a salire.
- Grazie -
disse. - Stavamo per venire sopraffatti.
- Non avrà
sofferto lo «Sparviero»? - chiese Rokoff.
- Nulla di
guasto - gridò il macchinista, che si era precipitato verso le ali.
- E i
tibetani? - chiese Fedoro.
- Fuggiti -
rispose il capitano.
- E credo che
non torneranno nemmeno più - aggiunse Rokoff.
Intanto le
fiamme aumentavano, distruggendo tutto ciò che l'esplosione aveva risparmiato.
Lingue di fuoco s'alzavano dappertutto rischiarando il vallone come in pieno
giorno.
Nembi di
scintille, che il vento spingeva altissime, facendole turbinare fino ai margini
superiori dell'altipiano, solcavano le tenebre come miriadi di stelle.
- Capitano! -
gridò ad un tratto Rokoff. - Se provassimo a qualche cosa? Vi è la nostra seta
in quelle casupole.
- È quello che
pensavo anch'io - rispose il comandante. - E poi vedo anche delle tende di
feltro che potrebbero servire pei nostri piani. Signor Fedoro, venite con noi e
voialtri guardate lo «Sparviero».
I tre uomini
si slanciarono verso il villaggio, il quale ardeva come un fastello di legna
secca.
La violenza
dell'esplosione aveva atterrato una terza parte delle abitazioni e parecchie
tende. Le altre però erano ugualmente perdute, perché le le avevano ormai
avviluppate divorando i legnami con rapidità incredibile.
Sarebbe stata
una follia il volersi cacciare fra quella fornace ardente per cercare la seta
rubata.
Il capitano ed
i suoi compagni s'impadronirono di tre vaste tende che erano state gettate al
suolo, formate di spesso feltro e le trascinarono presso lo «Sparviero». La
stoffa era più che sufficiente per coprire i piani e poteva surrogare,
quantunque assai più pesante, la seta presa dai tibetani.
- Lasciamo che
il fuoco termini di consumare le catapecchie e occupiamoci dell'ala - disse il
capitano. - Vorrei andarmene prima che sorgesse l'alba.
- Che i
briganti ritornino? - chiese Rokoff.
- Se hanno
altri compagni in questo vallone, non mi stupirei di vederli ricomparire, per
vendicare la loro disfatta e punirci d'aver incendiate le loro case. Se il
freddo non vi importuna andate a esplorare i dintorni, onde non ci sorprendano
nuovamente.
- Un cosacco
non sente la neve. Contate su di me, signore.
Mentre Rokoff
s'inoltrava nel vallone, verso la parte donde erano fuggiti i tibetani, il
macchinista, il capitano e i loro compagni si rimettevano al lavoro con
febbrile attività.
Già il
macchinista aveva preparate le traverse che dovevano surrogare quelle spezzate
dall'uragano e non si trattava che di saldarle, operazione però che richiedeva
un certo tempo onde la grave avaria non si ripetesse più tardi per la terza
volta e in circostanze maggiormente difficili.
Alle quattro
del mattino, con uno sforzo supremo, l'ala era accomodata con una serie di
robuste saldature, rinforzate da anelli d'acciaio.
Non rimaneva
che coprire i piani inclinati nei luoghi dove la seta era stata levata, cosa
facilissima perché non si trattava che di tagliare il feltro delle tende e
d'inchiodarlo.
Rokoff non era
ancora tornato dalla sua esplorazione. Quel coraggioso doveva essersi spinto
ben innanzi per impedire una nuova sorpresa.
-
Affrettiamoci - disse il capitano. - Fra un'ora potremo innalzarci e
riguadagnare l'altipiano. Intanto mettiamo in funzione la macchina.
Avevano appena
tagliato il feltro e lanciata l'aria liquida attraverso i tubi della macchina,
quando udirono improvvisamente echeggiare la voce di Rokoff:
- All'armi!
Poi uno sparo,
seguito a breve distanza da un altro e da un fragore assordante misto a muggiti
ed a nitriti.
- Quale
valanga sta per rovesciarsi su di noi? - si chiese il capitano.
Delle grida e
delle detonazioni formidabili si udivano in lontananza, verso l'estremità del
vallone e si vedevano anche delle linee di fuoco solcare di quando in quando la
nebbia.
La voce di
Rokoff, improntata d'un profondo terrore, era echeggiata più vicina:
- All'armi!
Preparate la mitragliatrice! Ecco il nemico!
Poco dopo
usciva dalla nebbia, correndo all'impazzata.
I clamori
erano diventati assordanti. Muggiti, nitriti, urla umane e spari si
confondevano con un crescendo spaventevole.
- Signor
Rokoff! - gridò il capitano, balzando dietro la mitragliatrice, mentre il
macchinista portava in coperta Winchester, Snider, Mauser, Remington e
parecchie rivoltelle. - Che cosa succede?
- Non so -
rispose il cosacco, scavalcando rapidamente la murata del fuso. - Una torma
infinita d'animali sta per irrompere addosso a noi. Mi parve che fossero jacks.
- E i
tibetani?
- Spingono le
bestie attraverso la valle, spaventandole con colpi di fucile e con rami
resinosi accesi.
- Mille tuoni!
Se quegli animali ci rovinano addosso, fracasseranno i nostri piani. Del fuoco!
Mi occorre del fuoco!
- Le casupole
stanno per spegnersi e poi sono dietro di noi - disse Rokoff.
- Ma sì!
Possiamo salvarci! Per due o trecento metri potremo sorreggerci anche senza i
piani... Macchinista, è sotto pressione la macchina?
- Sì, signore.
- Metti in
movimento tutto... ali..., eliche... Signor Rokoff! Venite!
Il capitano si
era precipitato verso il boccaporto, seguito dal cosacco. Un momento dopo
risalivano portando ognuno due barili della capacità di cinquanta litri
ciascuno.
- Partite! -
gridò il capitano. - Non occupatevi di noi! Aspettateci dietro al villaggio...
La valanga
vivente stava per rovesciarsi addosso allo «Sparviero». Era un'enorme mandria
di jacks, probabilmente ammaestrati, la quale scendeva attraverso il
vallone a galoppo sfrenato, con mille muggiti.
Dietro si
vedevano galoppare confusamente numerosi tibetani, montati su piccoli cavalli.
Per spaventare i grossi ruminanti, agitavano dei rami di pino infiammati e
sparavano colpi di moschetto.
Il capitano e
Rokoff si gettarono in mezzo alle casupole quasi interamente consunte,
stapparono due barili e lasciarono sfuggire il liquido sui tizzoni fumanti.
Era brandy
e di prima qualità.
Le fiamme che
stavano per spegnersi, d'un tratto si ravvivarono. Una cortina di fuoco, alta
parecchi metri, che mandava dei riflessi sinistri e lividi in un baleno si estese
su una larghezza di oltre cento metri.
In quel
momento lo «Sparviero» s'alzava precipitosamente, appena in tempo per evitare
l'urto formidabile di tutti quegli animali, che il terrore rendeva pazzi.
Spinto anche
dal vento che soffiava in favore, la macchina volante passò sopra la cortina di
fuoco, abbassandosi quattrocento passi dietro le ultime casupole.
Gli jacks,
vedendo fiammeggiare quel fuoco immenso che pareva dovesse divorare l'intera
valle, nonostante le urla e le fucilate dei pastori, si erano arrestati di
colpo, muggendo spaventosamente.
Rimasero un
momento irresoluti, poi con un volteggio fulmineo si scagliarono a testa bassa
contro i loro padroni, volgendo le spalle alle fiamme. Successe allora una
confusione indicibile.
I cavalli
tibetani, colpiti dalle corna dei furibondi ruminanti, cadevano l'uno
sull'altro, sferrando calci in tutte le direzioni, poi i superstiti fuggirono
all'impazzata, fra un clamore immenso.
- Ecco una
disfatta pagata cara da quei bricconi - disse Rokoff. - Se tornano ancora
dovranno avere il diavolo in corpo e la protezione di Buddha.
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