UNA CACCIA AL
VOLO
Quella
sconfitta inaspettata, doveva aver tolto ai tibetani la speranza di riprendersi
una rivincita sugli uomini bianchi.
La carica
degli jacks, carica irresistibile, formidabile, che avrebbe dovuto
spazzare via lo «Sparviero» o per lo
meno ridurlo in uno stato così miserando da non poter più riprendere il
viaggio, era stata veramente disastrosa per coloro che l'avevano organizzata.
Più di trenta
cavalli erano rimasti a terra, atrocemente mutilati e parecchi tibetani
giacevano al suolo senza vita, coi fianchi fracassati ed i ventri squarciati.
- Un vero
massacro - disse il capitano che si era spinto oltre il villaggio assieme a
Rokoff. - Se noi non arrestavamo quei furibondi animali, potevamo considerare
il nostro viaggio finito per sempre.
- Sì, senza la
vostra idea. Mi rincresce solamente pel vostro brandy - rispose Rokoff. - Si
poteva fare un punch migliore.
- Non lo
rimpiangerò mai, perché ci ha salvato la vita.
- Andiamocene,
capitano. Ne ho abbastanza di questo vallone e anche degli altipiani del Tibet.
- Hanno già
accomodato i piani, avendo avuto il tempo di ritirare il feltro prima che
venisse stracciato dagli jacks. Viaggeremo colla massima velocità e non
ci arresteremo che al lago di Mont-calm. Se nessun incidente sopraggiunge, fra
tre giorni anche gli altipiani saranno superati e scenderemo verso regioni più
civili.
- Vorrei già
essere in India.
- Vi
arriveremo, signor Rokoff, non dubitate. Spero però che non rinuncerete a
vedere Lhassa, la capitale del Tibet, la sede del Buddha vivente e del Gran
Lama, una delle città più celebri del mondo e che ben rarissimi europei hanno
potuto vedere.
- Giacché lo
volete, andremo a Lhassa.
Non vedendo comparire
più alcun tibetano, levarono la lingua ad un jack che doveva essere
stato ucciso, durante la carica da qualche cavaliere, e tornarono verso lo
«Sparviero».
Il macchinista
aiutato da Fedoro e dallo sconosciuto, aveva allora terminato d'inchiodare il
feltro sui piani danneggiati.
- È tutto
pronto? - chiese il capitano.
- Sì, signore
- rispose il macchinista.
- Allora
innalziamoci!
Salirono tutti
sul fuso.
In quel
momento il sole, forata la nebbia, proiettò un fascio di luce nel vallone
illuminandolo da un'estremità all'altra.
Più che un
vallone era un immenso abisso di tre o quattro miglia d'estensione, largo
cinque o seicento passi, colle pareti tagliate quasi a picco e alte per lo meno
cinquecento piedi.
Un solo
albero, un pino colossale, s'alzava quasi nel mezzo. Era su quello che lo
«Sparviero» aveva urtato nella sua discesa e che per poco non aveva rovesciato
il fuso.
Dall'altra
parte invece, una gigantesca cascata saltava nell'abisso, con un fragore
assordante, precipitando entro un profondo bacino.
Lo «Sparviero»
mise in moto le ali e le eliche e si alzò maestosamente, salendo verso
l'altipiano.
Aveva già
raggiunto i duecento metri, quando dietro alcune rocce si udirono rimbombare
dei colpi di fucile.
Erano i
tibetani che cercavano, ancora una volta, di abbattere gli stranieri. Si erano
nascosti in mezzo ad alcuni crepacci aperti nella parete e vedendo i loro
nemici fuggire, li avevano salutati con una scarica.
Gli aeronauti
non si degnarono nemmeno di rispondere. D'altronde lo «Sparviero» s'innalzava
con crescente rapidità, aumentando di momento in momento la distanza.
Sorpassò il
margine dell'enorme spaccatura e si slanciò attraverso gli altipiani nevosi con
una velocità di trentacinque miglia all'ora.
L'uragano
erasi calmato e anche la nebbia si era completamente dileguata sotto i vigorosi
colpi di vento del settentrione.
Che caos però
presentava l'altipiano, dopo lo scatenamento degli elementi! La neve, strappata
dalle raffiche irresistibili, si era accumulata in mille guise, formando qui un
bastione, più oltre una montagna, più innanzi una serie di cumuli che si
profilavano indefinitivamente. In certi luoghi vi erano delle enormi valanghe
staccatesi dai Crevaux e soprattutto dal Ruysbruck, la cui mole imponente
giganteggiava un po' al sud, all'estremità occidentale della catena e degli
ammassi di ghiaccio capitombolato dai ghiacciai che si mostravano numerosissimi
in quei luoghi.
- Guai se
invece di scendere nel vallone noi ci fossimo arrestati qui - disse il
capitano. - Il nostro «Sparviero» sarebbe rimasto schiacciato subito, non
credendo io che i Crevaux ci fossero così vicini.
- Ed è anche
stata una fortuna che l'ala si sia spezzata - disse Fedoro. - Diversamente ci
saremmo fracassati contro quelle montagne che la nebbia c'impediva di scorgere.
- Sì, una
disgrazia ed una fortuna ad un tempo.
- Che si rompa
ancora l'ala?
- Non lo
credo, essendo stata saldata perfettamente, meglio dell'altra volta.
- E anche i
piani funzionano come prima?
- Sono
diventati più pesanti, ma lo «Sparviero» ha una forza ascensionale poderosa e
non se ne risente. Attenti, amici, passiamo i Crevaux.
- I Crevaux! -
esclamò Rokoff. - Un nome francese in mezzo al Tibet.
- Dato a
questi monti da Bonvalet - rispose il capitano. - Quella missione ha battezzati
anche parecchi laghi con nomi che ricordano la Francia.
Lo «Sparviero» s'innalzava facendo forza
d'ala, onde superare la catena, la quale appariva imponente, e con una massa di
piramidi e di picchi altissimi, coperti di neve e di ghiaccio.
Esso si
dirigeva fra l'estremità occidentale dei Crevaux ed il Ruysbruck, dove si
vedeva una enorme spaccatura, che doveva servire di passo ai pellegrini
provenienti dalla Mongolia.
Che orribile
regione era quella! Abissi, valloni selvaggi, creste che pareva si spingessero
fino in cielo, punte aguzze, nevi e ghiacciai. Non un albero, non una
pianticella qualsiasi, nemmeno dei modesti licheni. Una vera regione polare,
forse peggio; perché anche nelle isole dell'Oceano Artico e anche in quelle
dell'Antartico, durante la breve estate nasce un po' di vegetazione. E poi non
un animale, non un volatile. Perfino le aquile mancavano.
- Questa si
potrebbe chiamare la terra della desolazione - disse Rokoff.
- In questa
stagione sì - rispose il capitano. - In estate invece vi sono dei pastori che
si spingono anche quassù colle loro mandrie di jacks e di montoni.
- A pascolare
che cosa?
- Le magre
erbe che spuntano timidamente fra i crepacci.
- Questa
regione non potrà mai essere popolata stabilmente.
- Eh! Chissà,
signor Rokoff. Io non mi stupirei se fra due o trecent'anni anche questi
spaventevoli deserti avessero una popolazione. Pensate che gli abitanti del
nostro globo aumentano ogni anno prodigiosamente e che la nostra Terra rimane
sempre eguale per estensione.
- Oh! Ve ne
sono ancora degli spazi inoccupati.
- Meno di
quello che credete, signor Rokoff. Guardate l'America del Nord per esempio.
Cinquant'anni or sono le sue immense praterie erano popolate solamente da poche
centinaia di migliaia d'indiani; oggi tutti quei terreni sono stati invasi
dalla razza bianca che non è meno prolifica di quella mongola, e spazi liberi o
semideserti non ve ne sono quasi più.
- Non dico di
no.
- Guardate
l'Africa. Cent'anni or sono aveva immense plaghe abitate da tribù di negri; ora
gran parte di quel continente è stato invaso e fra altri cinquant'anni non vi
saranno più terre disponibili.
- In quanti
siamo ora noi?
- La
popolazione del mondo conta oggidì, in cifra tonda, un miliardo e cinquecento
milioni, mentre le terre abitabili o semiabitabili non sono che quarantasei
milioni di miglia quadrate. Calcolato che le terre fertili non possono nutrire
più di duecentosette abitanti per miglio quadrato, vedrete che non rimarrà gran
margine pei nostri futuri nipoti. E non dimenticate che fra i quarantasei
milioni di terre, ve ne sono quattordici di steppe e quattro di deserti.
- Sicché voi
credete che fra due o trecento anni la nostra terra non sarà più capace di
nutrire tutta la sua popolazione.
- Molto prima,
signor Rokoff. Da un calcolo fatto da eminenti scienziati, parrebbe che
quell'epoca fatale dovesse scadere dopo il duemila. Vi sarà forse
dell'esagerazione, perché vi sono certi paesi anche oggidi occupati da una
popolazione intensissima e che pur vivono comodamente. La Cina, per esempio, ha
duecentonovantacinque abitanti per miglio quadrato e il Giappone
duecentosessantaquattro, eppure cinesi e giapponesi non muoiono di fame.
- La prima,
però, di quando in quando, soffre delle carestie disastrose - disse Fedoro.
- Questo è
vero, e anche l'India perde ogni anno parecchie centinaia di migliaia
d'abitanti, avendo già una popolazione troppo esuberante per la sua estensione.
I morti di fame non si contano ormai più in quel paese.
- Gli
scienziati troveranno il mezzo per raddoppiare le produzioni del suolo.
- Certo, ma
non faranno altro che ritardare l'epoca fatale e niente di più.
- Sicché -
disse Rokoff - se il sole non arrostirà l'umanità, questa sarà condannata a
morire di fame.
- O tornare
all'antropofagia.
- Preferisco
vivere ora e mangiare costolette di bue piuttosto di avere per colazione una
bistecca d'uomo. Meno male che noi non ci saremo più in quel tempo.
Il passo dei
Crevaux era stato superato felicemente e lo «Sparviero» ridiscendeva verso
l'altipiano, diretto al lago di Mont-calm, che è uno dei più alti, trovandosi a
ben cinquemila metri sul livello del mare.
Il paese non
accennava a variare. Era sempre il deserto di ghiaccio e di neve, con
spaccature, abissi e scaglioni immensi che si succedevano con monotonia
desolante.
Alle otto di
sera lo «Sparviero» calava sulle rive settentrionali del Montcalm, il quale era
coperto da uno strato di ghiaccio.
Il freddo era
considerevolmente aumentato e un vento secco e insistente soffiava dal nord,
facendo soffrire assai gli aeronauti, i quali si sentivano screpolare la pelle
del viso e gelare le dita.
Si rinchiusero
nel fuso, dove qualche ora prima era stata accesa la stufa e dopo la cena si
cacciarono nei loro letti.
L'indomani lo
«Sparviero» riprendeva la sua corsa, aumentando considerevolmente la velocità.
Anche il capitano cominciava ad averne fin sopra i capelli di quel deserto di
ghiaccio e sospirava il momento di scendere nella regione dei laghi, per
ritrovare una temperatura più mite e rinnovare anche le sue provviste. Almeno
là era certo di trovare abbondante selvaggina, essendo le vallate del Tibet
meridionale ricche d'asini selvaggi, di jacks, di argali e di
stambecchi.
Ci vollero
nondimeno altri due giorni prima di giungere al margine meridionale di
quell'eterno altipiano e di calare nelle ricche vallate dell'Or, cosparse di
laghi e laghetti e anche di villaggi popolosi.
Veramente
l'altipiano continuava ancora, estendendosi fino sulle rive del Tengri-Nor.
È solamente
nelle vicinanze di quel lago sacro che cessa, nondimeno non aveva più la
elevazione di prima, né appariva brullo e nevoso.
Anzi,
cominciavano a vedersi foreste di pini e di abeti, di querce gigantesche e di
aceri, e anche campi coltivati a orzo e poi si vedevano pascolare cammelli, jacks
domestici e bande di montoni guardate da numerosi pastori, i quali accoglievano
coraggiosamente lo «Sparviero» a colpi di fucile, scambiandolo per qualche
aquila mostruosa.
Non avendo che
delle pessime armi a miccia, le palle non giungevano mai fino agli aeronauti, i
quali, per precauzione, si mantenevano a un'altezza di tre o quattrocento
metri.
Quando lo
«Sparviero» passava invece sopra qualche borgata, un profondo terrore si
spargeva fra gli abitanti.
Tutti
fuggivano urlando, i cammelli si gettavano al suolo nascondendo la testa fra le
gambe anteriori, gli jacks muggivano, i montoni si disperdevano fra i
dirupi e i cani latravano con furore.
Quella
confusione non durava che qualche minuto; l'aerotreno s'allontanava
rapidissimo, senza aver divorato alcuno.
La sera del
terzo giorno, dopo aver attraversato la regione dei piccoli laghi del
Bilui-Dyka e i monti Nobokon-Ubaski, la macchina volante calava sulle rive del
Buka-Nor, un vasto bacino disabitato che si trova al nord del Tengri.
Il capitano
avendo veduto fuggire numerose bande di animali che supponeva fossero asini,
era calato in quel luogo, colla speranza di abbatterne qualcuno.
Rokoff però,
udendo parlare d'asini, non aveva potuto trattenere una smorfia.
- Vi pare una
selvaggina apprezzabile, degna d'un colpo di fucile? - aveva chiesto al
capitano.
- E come! -
aveva risposto questi, quasi scandalizzato. - Sdegnate un boccone da re?
- Mangiano gli
asini i re di questo paese?
- L'onagro, si
chiama anche così, è una selvaggina scelta, ricercatissima, che supera lo jack
e il montone. Voi non sapete dunque la storia della bella figliola di
Semengam, uno dei più celebri re della Persia.
- Niente
affatto, capitano. Andava matta per gli asini, quella signora?
- Narrano le
antiche cronache persiane, che quella fanciulla si fosse innamorata alla follia
di Rustan, uno dei più prodi cavalieri dell'Iran, perché questi, fra le tante
sue meravigliose gesta compiute, aveva fatto anche quella di divorarsi
nientemeno che un asino intero.
- Che stomaco
doveva avere quel guerriero persiano. Io non l'avrei di certo invidiato.
- Perché non
avete mai assaggiato la carne dell'onagro. Me ne direte qualche cosa domani, se
riusciremo a catturarne qualcuno.
- Come li
cacceremo?
- Standocene
sullo «Sparviero»: diversamente perderemmo inutilmente il nostro tempo, essendo
velocissimi.
- Sapendovi un
buongustaio raffinato, proverò anche la carne degli asini - disse Rokoff. -
Suppongo che non sarà peggiore di quella dei cavalli, e nella guerra
russo-turca e anche nella spedizione di Samarcanda, dei corsieri ne abbiamo
divorato più d'uno.
Il capitano
non si era ingannato a scendere in quel luogo. Lo «Sparviero» si era,
l'indomani, appena alzato costeggiando le rive del lago, quando a circa un
mezzo miglio fu veduta una immensa truppa di quegli animali galoppare
sull'altipiano.
Erano tre o quattrocento
che s'avanzavano su parecchie linee, preceduti dai capi, coi maschi dinanzi e
le femmine in coda.
Correvano
all'impazzata, facendo rimbombare il suolo e ragliando rumorosamente, poi
s'arrestavano un momento, quasi tutti d'un colpo, per fare poco dopo un rapido
dietrofront e ripartire come un uragano.
Brucavano un
po' le magre erbe e i licheni, quindi, presi da un nuovo capriccio,
riprendevano le loro corse disordinate.
Erano animali
grossi quasi quanto gli asini europei, cogli orecchi però meno lunghi, il
pelame bigio oscuro, attraversato sul dorso da una lunga striscia nera che
s'incrociava sulle spalle con altre due bigie.
Questi animali
sono anche oggidì numerosissimi e s'incontrano di frequente sugli altipiani
dell'Asia centrale, nelle pianure persiane e anche nell'India settentrionale.
Viaggiano in
bande immense, emigrando ora fra i deserti e ora fra le steppe, non temendo
nemmeno le tigri, che affrontano con un coraggio straordinario, colpendole
cogli zoccoli, e se non basta, mordendole ferocemente.
La truppa
scorta dagli aeronauti pareva che colle sue continue mosse disordinate e colle
sue fughe precipitose, cercasse appunto di sfuggire a qualche pericolo che la
minacciava.
Il capitano,
che la osservava con un cannocchiale, indovinò ben presto da quali nemici era
assediata.
- Si difendono
dai lupi - disse a Rokoff che lo interrogava.
- Sono
numerosi?
- Un
centinaio.
- Che riescano
a fare un macello degli onagri?
- Saranno i
lupi che avranno la peggio. Cercano di forzare le linee degli asini per
gettarsi sui piccoli, ma non riusciranno a nulla. Assisteremo a una bella
battaglia. Ehi, macchinista, rallenta e teniamoci ben alti onde non spaventare
i combattenti.
Gli asini,
dopo aver fatto parecchie corse, si erano fermati in mezzo a una vasta pianura,
dove avevano potuto spiegare i loro battaglioni. Con un insieme ammirabile
avevano formato un immenso cerchio: i maschi alla periferia, le femmine e i
piccini al centro.
I lupi, che
erano più di cento e molto affamati a giudicarli dalla loro spaventosa
magrezza, correvano intorno ululando ferocemente, cercando il punto più debole
per rompere le linee.
Ogni volta
però che s'avvicinavano al circolo, i maschi voltavano il dorso e colle zampe
posteriori tiravano calci con un rapidità sorprendente.
Più d'un lupo,
colpito, volteggiava in aria semifracassato e quando cadeva, tre o quattro
asini gli si precipitavano addosso mordendolo ferocemente, finché esalava
l'ultimo respiro. Non ancora soddisfatti, lo calpestavano furiosamente
riducendolo in un informe ammasso di ossa e di carne triturata.
Le asine e i
loro piccini, spaventati dalle urla dei carnivori, si serravano le une addosso
agli altri, ragliando disperatamente come per incoraggiare i maschi a difendere
la loro prole.
Non ne avevano
veramente bisogno, perché quei bravi animali mantenevano le linee sempre
strette, tempestando senza posa gli assalitori.
- Come si
difendono bene! - esclamò Rokoff. - Non credevo che potessero tener testa a un
simile attacco.
- Aspettate -
disse il capitano. - A loro volta daranno la carica e io non vorrei trovarmi al
posto dei lupi.
Infatti gli
asini, vedendo che i loro avversari continuavano le loro corse, perduta la
pazienza, si preparavano ad assalire a loro volta. Non fu che la prima linea
che si mosse. La seconda, con una prudenza incredibile, rimase ferma per
impedire ai lupi di irrompere attraverso il cerchio.
Quei cinquanta
o sessanta animali, i più robusti e i più coraggiosi, partirono al galoppo,
spezzando in più parti le linee dei voraci avversari. S'impennavano lasciandosi
cadere di peso, distribuivano calci con rapidità vertiginosa, afferravano i
nemici colle poderose mascelle e li scuotevano furiosamente, strappando a un
tempo lembi di pelle e di carne. Qualcuno, assalito da tre o quattro lupi, che
lo azzannavano alla gola o agli orecchi, cadeva, ma tosto i compagni
accorrevano in suo soccorso, liberandolo prontamente. La battaglia durò un
quarto d'ora e, come il capitano aveva predetto, finì colla completa sconfitta
dei carnivori che, perduta ogni speranza di fare un pasto abbondante, almeno
per quel giorno, dovettero in breve salvarsi con una pronta fuga, lasciando sul
terreno un bel numero di morti e di moribondi. Era in quel momento che lo
«Sparviero» scendeva.
Gli asini,
vedendo proiettarsi sul suolo quell'ombra gigantesca, s'arrestarono stupiti;
poi, scorgendo quel mostro scendere, presi da una pazza paura, partirono ventre
a terra in direzione del lago, salutati da tre colpi di fucile.
Una femmina,
colpita mortalmente, cadde dopo breve tratto, ma gli altri continuarono la loro
corsa indiavolata, scomparendo in mezzo alle rupi.
- Signor
Rokoff - disse il capitano, balzando a terra. - Avrò l'onore di offrirvi delle
bistecche così squisite da far perdonare il vostro disprezzo per questa
delicata selvaggina.
- Non ho
ancora dato il mio giudizio - rispose il cosacco, ridendo.
- Non dubito
che sarà favorevole.
Due ore dopo
il bravo cosacco confessava candidamente che la carne degli asini selvaggi
valeva ben quella degli jacks e dei bovini europei e che gli sciah
persiani avevano pienamente ragione di stimarla come un boccone degno dei re.
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