IL LAGO SANTO
DEI BUDDISTI
A mezzodì lo
«Sparviero», dopo una sosta di un paio d'ore sulla riva meridionale del
Buka-Nor per rinnovare le sue provviste d'acqua a una sorgente dolce, si
trovava in vista del Tengri-Nor, il lago santo dei tibetani, la meta di tutti i
pellegrini buddisti della Mongolia, dell'India, del Kuk-Nor e del Turchestan.
Questo bacino, che è il più ampio della regione e che i tibetani chiamano
Nam-tso, si trova all'estremità dell'immenso altipiano da una parte e fra la
catena del Nin-Tschenthangla dall'altra, rinchiuso fra i picchi eternamente
nevosi, che gli fanno maestosa corona.
Sulle sue rive
sorgono i più celebri monasteri buddisti, fra cui quello di Dorkia, che è il
più rinomato, e tutto ciò che lo circonda viene reputato sacro.
Si è creduto,
erroneamente, che l'evaporazione del Tengri bastasse a compensare i tributi dei
suoi torrenti; invece si sa oggi che ha alcuni torrenti e fiumi sotterranei di
sfogo, in modo da conservare il volume delle sue acque.
I terreni che
lo circondano sono essenzialmente di natura vulcanica, essendo ricchi di
sorgenti calde e avendo verso il settentrione un lago considerevole detto il
Bultso, da cui i pellegrini e gli abitanti estraggono una enorme quantità di
borace che un tempo veniva esclusivamente lavorato a Venezia, dopo essere stato
importato dall'India. Anche i geyser, o getti d'acqua calda, che si
elevano per parecchie decine di metri, si contano in gran numero nei dintorni
di questo lago e per magnificenza nulla hanno da invidiare a quelli famosi
dell'Islanda e della Nuova Zelanda.
Buona parte
dell'altipiano di Tant-la, che è uno dei più elevati, raggiungendo l'altezza di
cinquemila e più metri, ne è sparso e questa è forse una delle cause principali
per cui i buddisti credono che quel territorio sia sacro, vedendo in quei
fenomeni una manifestazione della potenza del loro Dio.
- Un bacino
splendido - disse Rokoff, che lo osservava col cannocchiale. - E che montagne
immense che lo circondano! Questo è il bello orrido.
- Tutte
montagne sacre - rispose il capitano. - Qui tutto è divino.
- Anche i
sassi?
- Anche
quelli.
- Anche gli
abissi?
- Forse più
dei macigni, perché i tibetani credono che si siano aperti per far salire in
cielo qualche Lama morto nell'estasi della preghiera.
- E quel
famoso convento, dove si trova?
- Lo vedremo
presto, se il tempo ce lo permetterà.
- Il tempo!
- Minaccia un
altro uragano, signor Rokoff.
- Che ci
spezzi ancora le ali?
- I venti
soffiano furiosi sulle Tant-la, forse più che sugli altipiani settentrionali.
Vedo una nuvola nera alzarsi verso l'estremità del lago e che mi sembra satura
di elettricità.
- Se
prendessimo terra prima che scoppiasse? - chiese Fedoro.
- Siamo in una
regione abitata da fanatici e potremmo avere peggiore accoglienza che nel
vallone. L'uomo bianco qui non è tollerato.
- Nemmeno dai
monaci!
- Soprattutto
dai Lama, che considerano gli europei come spioni e come eretici. Cercheremo di
attraversare il lago prima che la bufera ci sorprenda. Le sponde meridionali
sono meno abitate.
- Eppure non
vedo alcun villaggio nemmeno qui - disse Rokoff.
- V'ingannate
- rispose il capitano. - Ecco Thuigo laggiù, seminascosto fra le rupi. Fra una
mezz'ora ci libreremo sopra le sue capanne.
- Vi passeremo
sopra?
- Che cosa
possiamo temere? Ci terremo a una altezza tale da non lasciarci raggiungere
dalle palle.
La borgata
ingrandiva a vista d'occhio.
Sorgeva
proprio sull'estremo margine dell'altipiano, il quale cadeva a piombo sul lago
da un'altezza considerevole.
La popolazione
doveva già aver notato quel mostro che s'avanzava verso il bacino sacro. Si
vedevano numerosi cavalieri galoppare in tutte le direzioni e armati di fucili.
Essendo i
tibetani tutti appassionati cacciatori, dai più poveri ai più ricchi, si
preparavano ad affrontare coraggiosamente quella gigantesca aquila.
- Brutta
accoglienza - disse Rokoff. - Anche questi abitanti scambiano lo «Sparviero»
per un mostro; io invece che credevo che ci prendessero per figli della luna o
del sole o per lo meno di Buddha!
- Lasciamoli
fare - rispose il capitano. - I loro moschettoni a miccia non ci causeranno
alcun danno e poi siamo già a quattrocento metri dalla superficie della terra.
Più di
duecento cavalieri, che montavano dei piccoli cavallucci rachitici, galoppavano
intorno allo «Sparviero» agitando le armi e urlando.
Quando però
furono sotto, con gran stupore di Rokoff, tutti quei tibetani, invece di far
fuoco, si gettarono precipitosamente giù dai cavalli e caddero in ginocchio,
battendo la fronte sul suolo e mandando grida che nulla avevano d'ostile.
- Che siano
mezzi morti di paura? - chiese il cosacco.
- Non lo
credo, essendo i tibetani coraggiosi - rispose il capitano.
- E perché
hanno rinunciato a combatterci?
- Se voi foste
un selvaggio, o poco meno, non rimarreste sorpreso, vedendo degli uomini
montare un'aquila?
- È probabile,
capitano.
- Quei
tibetani ci hanno scorto e ci avranno preso per divinità o per qualche cosa di
simile. Superstiziosi come sono, non ci sarebbe da stupirsi.
- Che ci
credano figli di Buddha?
- È probabile,
signor Rokoff.
- Se
provassimo a scendere? Non mi rincrescerebbe rappresentare, almeno per dodici
ore, la parte d'una divinità.
- Preferisco
lasciarla al loro Buddha vivente e andarmene verso il lago. Potrebbero crederci
realmente figli del loro Dio e condurci a Lhassa, sia pure coi più grandi
onori, ma sempre come prigionieri. No, signor Rokoff, non ci tengo affatto ad
aspirare a tale carica.
Lo «Sparviero»
aveva già lasciato indietro i cavalieri, e s'avvicinava alla borgata. Gli
abitanti erano tutti usciti dalle loro capanne affollandosi nelle vie e anche
questi, vedendo l'aerotreno solcare maestosamente l'aria, si erano gettati a
terra, nascondendo il viso fra le mani e facendo segni del più profondo
rispetto.
L'apparizione
fu però così rapida, che non ebbe la durata di più d'un minuto. Lo «Sparviero»,
che marciava con velocità fulminea, si era slanciato sull'azzurra superficie
del lago sacro, dirigendosi verso il sud.
Il capitano
non si era nemmeno occupato delle dimostrazioni di rispetto della popolazione.
Guardava invece con inquietudine la nuvola nera che ingrandiva a vista d'occhio,
minacciando di coprire tutta la volta celeste.
Il lago, quasi
presentisse la bufera, cambiava di tinta. L'azzurro a poco a poco si faceva
sempre più oscuro, quasi nero.
Già dal sud,
dalle immense catene dell'Himalaya, cominciavano a soffiare le prime raffiche,
gelide e impetuosissime, ostacolando la marcia della macchina volante, là quale
subiva di tratto in tratto dei brutti scarti.
Nel seno della
nuvola di quando in quando lampeggiava e si udivano i tuoni rullare sordamente
propagandosi fra le tenebrose masse di vapori. Anche l'aria era satura di
elettricità, rendendo estremamente nervosi Rokoff, Fedoro e i loro compagni.
- Siete
inquieto? - chiese il cosacco al capitano.
- Non sono
tranquillo - rispose questi. - Temo che una meteora di fuoco si rovesci su di
noi.
- Eppure siamo
ancora in inverno e ad un'altezza considerevole.
- A
quattromilaseicentotrenta metri, tale essendo il livello del Tengri-Nor.
- E vi è tanta
elettricità?
- È l'estrema
secchezza dell'aria che la produce e che l'accumula. Guardate che lampi!
Abbagliano e offendono dolorosamente gli occhi.
- Se tornassimo?
- No, signor Rokoff. Il lago è circondato
di montagne e temerei che l'uragano ci mandasse ad infrangerci contro qualche
vetta. Preferisco lottare su questo lago, che è almeno sgombro d'ostacoli.
- E se le
nostre ali si spezzassero e noi cadessimo? - chiese Fedoro.
- Il mio fuso
può navigare al pari d'un battello - rispose il capitano. - Non sarebbe la
prima volta che prova l'acqua. Vi è una sola cosa che temo: le scariche elettriche.
Bah! La fortuna che ci ha protetto finora, non ci abbandonerà oggi. Avanti e
confidiamo nella nostra buona stella.
Le acque del
lago, dopo aver cambiato tinta, cominciavano a muggire cupamente sotto lo
«Sparviero». Delle ondate si formavano qua e là, aumentando di mole e anche
d'altezza, come se anche il fondo si sollevasse sotto la spinta di forze
plutoniche. Delle colonne liquide di quando in quando si lanciavano in alto,
per poi ricadere e sfasciarsi con immensi fragori.
La nube nera,
che aveva i margini tinti d'una luce pallida, quasi sulfurea, si abbassava
rapidamente minacciando di avvolgere anche la macchina volante. Nel suo seno i
lampi si seguivano quasi senz'interruzione e tuoni assordanti scrosciavano
destando l'eco delle enormi montagne giganteggianti intorno al lago.
Senza quegli
sprazzi di luce vivida, si sarebbe detto che la notte era improvvisamente
piombata sul misterioso lago dei buddisti. E infatti, quando i lampi cessavano,
una profonda oscurità avvolgeva le acque e le montagne.
Anche
l'elettricità aumentava. Sulla punta delle ali, sulle estremità dei due piani
inclinati, perfino sulle eliche, correvano delle fiammelle; era il fuoco di
Sant'Elmo che faceva la sua apparizione.
E intanto le
folate di vento si succedevano sempre più impetuose, con mille fischi, mille
stridori e mille muggiti rauchi. Pareva che dalle gigantesche vette della
catena dell'Himalaya tutti i venti si fossero scatenati. Venivano raffiche
dall'est, dall'ovest e dal sud, provocando delle trombe d'aria d'una tale
violenza, che talora assorbivano, per modo di dire, lo «Sparviero»,
travolgendolo in una vertiginosa corsa circolare.
- Capitano -
disse Rokoff, che forse per la prima volta si sentiva profondamente
impressionato. - Come finirà la nostra corsa? Vedo la nube abbassarsi con
rapidità spaventevole.
- Stiamo
giocando una carta disperata - rispose il comandante. - Non credevo che questa
bufera dovesse scatenarsi con tale violenza.
- Dove siamo
noi?
- In mezzo al
lago, suppongo.
- Riusciremo a
toccare la riva opposta, prima che il vento ci fracassi le ali o che le folgori
ce le incendino?
- Chi può
dirlo? Come vedete, ho impresso al mio «Sparviero» tutta la velocità possibile,
ma i venti ci travolgono. Temo di dover cedere e di lasciarmi trasportare dalle
raffiche.
- E tornare
verso la costa settentrionale?
Il capitano
non ebbe il tempo di rispondere. Una tromba d'aria, formata dai venti che
pareva s'incontrassero proprio in mezzo al lago, aveva preso lo «Sparviero»,
facendolo girare su se stesso con rapidità spaventevole.
Le ali,
impotenti a lottare, si torcevano e scricchiolavano paurosamente, come se da un
momento all'altro dovessero spezzarsi e perfino i robusti fianchi del fuso
gemevano.
Il treno
aereo, sempre roteando, veniva spinto in alto, verso il vertice della tromba,
dove si vedevano le nubi disgregarsi, formando come un immenso cono rovesciato.
Per alcuni
istanti, in fondo a quel tubo, si vide apparire una specie di disco rosso che pareva
fosse incandescente, forse il sole, poi un'oscurità profondissima avvolse lo
«Sparviero» e gli aeronauti.
Dove si
trovavano? Erano stati spinti o meglio assorbiti dalla immensa nuvola nera? Il
capitano lo credette.
A un tratto
però a quell'oscurità successe una luce intensa, abbagliante, seguita da tuoni
formidabili che sembravano scoppi di mine colossali o di polveriere.
Linee di fuoco
correvano a destra e a sinistra degli aeronauti atterriti, facendo scintillare
il fuso, il quale pareva che fosse diventato incandescente. Erano folgori che
passavano a pochi metri e che subito scomparivano in mezzo alle masse di vapore
che il vento travolgeva burrascosamente. Un odore acuto, che pareva di zolfo,
si espandeva all'intorno soffocando gli aeronauti. Tutto era in fuoco. Migliaia
di scintille correvano sulle ali, sui piani inclinati, sulle eliche, sul ponte,
sulle vesti stesse degli uomini. Perfino la barba di Rokoff era piena.
- Capitano! -
gridò il cosacco cercando di dominare, colla sua robusta voce, quei rombi e
quegli scoppi. - Che cosa succede?
- Siamo in
mezzo alla meteora - rispose il comandante, con voce soffocata.
D'improvviso
quelle luci si spensero, i tuoni cessarono bruscamente, i ruggiti del vento si
quietarono.
Non si udiva
altro che un continuo crepitio, come se della grandine minuta percuotesse i
fianchi del fuso. Una calma profonda era successa a tutto quel tramestio.
Lo «Sparviero»
aveva cessato di roteare e s'abbassava lentamente verso il lago, sempre avvolto
fra una fitta nebbia che impediva di vedere a due o tre passi di distanza.
- Signore,
cadiamo - disse Fedoro, slanciandosi verso il capitano.
- Ho fermato
le ali e le eliche - rispose questi.
- Il lago sta
sotto di noi. Non udite le onde muggire?
- A suo tempo
arresteremo la discesa. Cerchiamo per ora di uscire da queste nubi o verremo
tutti fulminati. Non spaventatevi, signor Fedoro, e nemmeno voi, signor Rokoff.
Credo che il momento più terribile sia passato.
- Ma questa
calma? - chiese Rokoff.
- Scendiamo
nel centro della tromba. Ecco il vento che riprende il suo movimento circolare;
tentiamo di spezzare le sue spire. Macchinista! A tutta velocità!
I ruggiti del
vento ricominciavano e lo «Sparviero» tornava a roteare su se stesso.
Le ali ben
presto si rimisero a battere a colpi vigorosi, precipitati e il fuso, forando
con uno slancio irresistibile la colonna d'aria, sfuggì alla stretta della
formidabile tromba.
Ma anche fuori
da quella meteora, l'uragano imperversava con furia incredibile. Lo
«Sparviero», dopo qualche istante, veniva trascinato verso settentrione, senza
essere più capace di tenere testa alle raffiche. Correva all'impazzata,
travolto, sbattuto in tutti i sensi, ora salendo e ora abbassandosi fino quasi
a sfiorare i cavalloni del lago.
Vibravano le
ali, incurvavansi i piani, fremevano i fianchi del fuso. Certi momenti pareva
che fosse lì lì per rovesciarsi e precipitare, fra le acque spumeggianti, gli
aeronauti.
Quanto durò
quella corsa? Venti minuti o un'ora? Nessuno sarebbe stato capace di dirlo.
Delle grida
strapparono Rokoff dal suo sbalordimento.
Guardò giù. Un
promontorio si prolungava sul lago e su un'alta rupe scorse, alla luce dei
lampi, un vasto edificio a tetti arcuati. Su una specie di terrazzo, degli
esseri umani si dimenavano, alzando le braccia verso lo «Sparviero», che
l'uragano trascinava in una corsa vertiginosa.
- Signore! -
gridò. - Una casa... un convento... una fortezza... non so... là... guardate...
guar...
Non poté
proseguire. Un lampo abbagliante aveva avvolto il fuso, mentre una linea di
fuoco piombava in mezzo al ponte.
Fece per
aggrapparsi alla balaustrata, ma prima che l'avesse toccata si sentì
scaraventare nel vuoto, mentre un rombo formidabile scuoteva l'atmosfera. Erano
scoppiati i serbatoi dell'aria liquida o la macchina? Non poté saperlo. Udì vagamente
un tonfo seguito da un grido, poi si sentì sprofondare e coprire da un'onda
spumeggiante.
Quando, ancora
stordito da quell'improvviso capitombolo e ancora abbagliato da quella luce che
per poco non gli aveva abbruciato gli occhi, tornò alla superficie, lo
«Sparviero» era scomparso!
- Per le
steppe del Don! - esclamò. - È saltato in aria o l'uragano l'ha trascinato
entro la nube nera?
Un'onda che lo
investì impetuosamente, riempiendogli la bocca d'acqua amara e salata, gli
tolse, almeno pel momento, l'idea di occuparsi dei compagni.
- Pensiamo a
salvare la pelle, per ora - disse. - Poi vedremo di sapere che cosa è avvenuto
dello «Sparviero». Dove sono caduto? Sarà lontana la riva? Avrò molto da
lottare per uscire vivo da questo lago.
Le onde si
succedevano alle onde, ora spingendolo in alto, ora precipitandolo negli abissi
mobili e ora coprendolo e sballonzolandolo in tutti i versi. Anche il lago era
in tempesta e non era cosa facile sottrarsi ai suoi assalti.
Rokoff era
però un valente nuotatore. Si lasciò portare dalle onde e come poté si sbarazzò
della sua lunga casacca, che gl'impediva di muoversi liberamente.
Era rimontato
a galla, quando sentì sotto mano qualche cosa che le onde trastullavano.
Credendo che fosse qualche albero o qualche oggetto caduto dallo e Sparviero»,
allungò le braccia e strinse un corpo umano che pareva privo di vita.
- Mille
steppe! - gridò, rabbrividendo. - Qualcuno dello «Sparviero»?
Con uno sforzo
supremo sollevò il capo dell'annegato, cercando di ravvisarlo. Proprio in quel
momento un lampo vivissimo illuminò le acque del lago. Un urlo di disperazione
gli sfuggì.
- Fedoro! È
morto forse? Gran Dio! No... non è possibile!
Pur continuando
a nuotare con suprema energia per non venire subissato dalle onde che lo
incalzavano da tutte le parti, col braccio sinistro si strinse al petto
l'amico, cercando di tenergli la testa fuori dell'acqua.
Nel fare
quell'atto gli parve che un tremito avesse scosso quel corpo che poco prima
aveva creduto inerte.
- No... non è
morto! - gridò. - Salviamolo!
La cosa però
era tutt'altro che facile, perché non sapeva dove si trovasse, quantunque si
rammentasse vagamente di aver scorto, poco prima della caduta, un promontorio e
una vasta costruzione. E poi le onde erano ben lungi dal calmarsi e aveva da
sostenere l'amico.
- Se non potrò
salvarlo, almeno morremo insieme - pensò il bravo cosacco. - Ah! Se ci fosse
qui anche il capitano ad aiutarmi? Ma chissà se sarà ancora vivo.
Nuotava con
furore, facendo sforzi prodigiosi per non venire travolto dai marosi, girando
gli sguardi in tutte le direzioni per vedere se scopriva la riva. I muggiti
delle onde e i fischi acuti del vento lo stordivano, eppure continuava a lottare
coll'energia che infonde la disperazione. No, non voleva morire. Nuotava da
dieci minuti, quando gli parve, fra le urla del vento e lo scrosciare delle
acque, di udire delle grida umane.
Alzò gli occhi
e distinse confusamente su una rupe la medesima costruzione che aveva veduto
poco prima di venire precipitato nel lago.
- La costa è
vicina - pensò. - Cerchiamo di raggiungerla e badiamo soprattutto di non venire
sfracellati contro le rocce.
Si lasciava
portare dalle onde, nuotando solamente coi piedi, per tema che la violenza
della risacca gli strappasse dalle braccia Fedoro.
A un certo
momento si trovò dinanzi una superficie spumeggiante, quasi calma. Non più
marosi e non più controndate.
Era entrato in
qualche piccola baia difesa da uno o più promontori o da qualche linea di
scogliere? Almeno lo suppose.
Comunque
fosse, colà l'acqua era tranquilla e se vi era una terra vicina, l'approdo non
doveva essere né difficile, né pericoloso.
- Ecco una
fortuna insperata - disse Rokoff. - Se...
Non proseguì.
Le sue gambe avevano toccato un fondo duro, probabilmente roccioso, irto di
punte. Si rizzò e s'accorse d'aver l'acqua solamente fino al petto.
- Siamo salvi!
- esclamò.
A cinquanta o
sessanta passi si estendeva un breve tratto di costa, una specie di punta abbastanza
bassa per potervi approdare senza fatica. Più oltre, invece, s'alzava una rupe
gigantesca sulla quale Rokoff aveva scorto, alla luce dei lampi, quella
massiccia costruzione che gli era sembrata un monastero o una fortezza.
Le onde, in
causa d'una ripiegatura della costa e d'una scogliera altissima, non potevano
giungere fino al luogo dove trovavasi il cosacco.
Si frangevano
con mille muggiti contro quegli ostacoli che non potevano rovesciare,
provocando, in quella specie di baia o di cala, solamente una certa
ondulazione.
Tenendo sempre
alto Fedoro, il quale non dava ancor segno di tornare in sé, Rokoff attraversò
velocemente l'ultimo tratto e raggiunse la spiaggia, arrestandosi sotto la
gigantesca rupe che cadeva a piombo.
- Se vi fosse
qualche rifugio - mormorò, gettando un rapido sguardo verso la parete.
L'oscurità era
però così fitta da non poter vedere a dieci passi di distanza, essendo ormai
calata la notte e il cielo sempre coperto da quell'immensa nuvola nera che il vento
non era ancora riuscito a disgregare e lacerare.
- Lo cercherò
più tardi - pensò. - Ora occupiamoci di Fedoro.
Depose l'amico
su uno strato di sabbia fine e lo spogliò della casacca e del panciotto,
mettendogli una mano sul petto.
- Il cuore
batte - disse con voce giuliva. - Quale fortuna averlo trovato subito! Se le
onde mi spingevano pochi passi lontano, era finita per questo povero Fedoro.
Gli aprì la
bocca, prese la lingua e si mise a tirarla con movimenti lenti e eguali per
riattivare il funzionamento dei polmoni. Coll'altra mano intanto gli alzava ora
l'uno ora l'altro braccio.
La pioggia
cadeva a torrenti e il vento spazzava rabbiosamente la spiaggia, ma Rokoff non
se ne preoccupava e continuava a operare quelle trazioni con delicatezza.
A un tratto un
profondo sospiro sfuggì dalle labbra del russo. - La respirazione è riattivata
- disse Rokoff - tutto va bene.
Lasciò la
lingua e si mise a strofinargli vigorosamente il petto con un pezzo di lana
strappata dalla fodera della giubba.
Fedoro tornava
rapidamente in sé, rigettando di quando in quando, sotto quelle pressioni,
delle boccate d'acqua. Finalmente anche i suoi occhi si aprirono.
- Dove...
sono... io? - chiese con voce debole. - Rokoff... capitano...
- Eccomi, sono
presso di te - rispose il cosacco, coprendogli il petto.
- Tu...
amico... Rokoff... che cos'è accaduto?
- Una
catastrofe, un accidente, non lo so nemmeno io. Siamo stati scaraventati
entrambi nel lago, forse dalla folgore e ti ho trovato per puro caso, nel
momento in cui stavi per andare a tenere compagnia ai pesci.
- Ah! Sì... mi
ricordo... quella luce... quel rombo... poi le onde... E mi hai salvato?
- Ti ho
portato qui.
- E il
capitano?
- Non ne so
più nulla.
- E lo
«Sparviero»?
- Scomparso,
forse caduto nel lago, fracassato dalla folgore o dallo scoppio dei serbatoi
d'aria liquida o della macchina.
- No... no!...
- esclamò Fedoro. - No, caduto.
- Come lo sai
tu? - chiese Rokoff sorpreso.
- Quando le
onde mi hanno portato a galla, io l'ho veduto... sì... me lo ricordo... il
vento lo trascinava verso il nord... rapidamente...
- Non è
scoppiato?
- No, Rokoff.
- Quanto mi
sarebbe rincresciuto che quel meraviglioso treno-aereo fosse stato annientato e
che quel valoroso capitano fosse stato ucciso. Sei certo d'averlo veduto
fuggire, Fedoro?
- Sì, Rokoff,
il vento lo travolgeva.
- E non
bruciava?
- No.
- Allora non
sono i suoi serbatoi che sono saltati?
- È stata la
folgore che è piombata sul ponte e che ci ha precipitati nel lago.
- Ah!
Respiro!... - esclamò il cosacco. - Allora lo rivedremo tornare dopo cessato
l'uragano.
- Ma noi dove
ci troviamo?
- Presso un
monastero o una fortezza.
- Non
facciamoci scoprire, Rokoff - disse Fedoro. - Rimaniamo nascosti fino al
ritorno dello «Sparviero». Il capitano verrà a raccoglierci, ne sono certo.
- Non lo
dubito nemmeno io. Sarà però necessario cercarci un nascondiglio; il monastero
sta sulla cima di questa rupe e domani potremmo venire scoperti. Rimani qui,
vado a vedere se posso trovare qualche crepaccio o qualche caverna. Mi pare che
questa parete sia tutta screpolata.
- Tu sei senza
casacca! - esclamò Fedoro. - Indossa la mia.
- Ho dovuto
abbandonarla alle onde per poterci salvare entrambi, tuttavia non preoccuparti
di me. Ho la pelle dura io e il freddo non ha presa sulle mie carni. Non
muoverti e aspetta il mio ritorno.
Il cosacco
s'allontanò seguendo la rupe che appariva tutta screpolata alla sua base.
Essendo i lampi cessati, era costretto a procedere a tentoni e cercare il
rifugio colle mani.
La burrasca,
lungi dal calmarsi, imperversava con rabbia estrema. Onde gigantesche correvano
pel lago, frangendosi furiosamente contro le coste con boati e muggiti
formidabili e dalle nevose vette dei monti scendevano raffiche gelate e d'una
tale violenza, che talvolta il cosacco si sentiva mancare perfino il respiro.
- Sarà
impossibile allo «Sparviero» poter tornare finché dura quest'uragano - pensava
Rokoff, senza cessare di perlustrare. - Il vento soffia sempre dal sud e chissà
dove lo avrà trascinato.
A un tratto si
fermò, mandando una imprecazione. Fra le tenebre aveva scorto dei punti
luminosi gialli, verdi, rossi e azzurri che s'avanzavano seguendo la parete.
Parevano lanterne cinesi, o qualche cosa di simile.
- Che i monaci
ci abbiano veduto approdare e vengano a cercarci? - si chiese. - O che ci
abbiano anche veduto a cadere nel lago? Mi ricordo d'aver notato degli uomini,
un momento prima che la folgore avvolgesse lo «Sparviero». Gridavano e alzavano
le braccia verso di noi. Cosa fare? Attenderli o fuggire? Fuggire? E dove, se
questa parete è tagliata a picco?
Stette un
momento esitante, non sapendo a quale partito appigliarsi, poi decise di
raggiungere Fedoro, onde avvertirlo del pericolo che li minacciava.
- Lui
conoscerà i tibetani meglio di me - disse.
I punti luminosi
o meglio le lanterne continuavano ad avanzarsi, seguendo ora la parete rocciosa
e ora la spiaggia. Pareva che gli uomini che le portavano cercassero qualche
cosa, perché ora si fermavano e abbassavano le lampade, ora si disperdevano e
ora si raggruppavano di nuovo.
- Fedoro -
disse Rokoff, quando fu vicino all'amico. - Stiamo per venire scoperti e non
sono riuscito a trovare alcun nascondiglio.
- Ho notato
anch'io quei punti luminosi - rispose il russo.
- Che quegli
uomini cerchino noi?
- Non ho alcun
dubbio. Siamo stati veduti cadere dallo «Sparviero» o approdare.
- Chi saranno
costoro?
- Dei monaci,
suppongo. Mi hai detto d'aver veduto un'enorme costruzione.
- Sì, Fedoro,
ma poteva essere anche una fortezza.
- Non ne
esistono su questo lago; qui non vi sono che monasteri.
- Sono cattivi
i preti di questo paese?
- Non credo,
però avrei preferito non essere scoperto.
- Bah! Se sono
monaci, non ci faranno paura - disse Rokoff, mostrando i suoi pugni. - Mi sento
in forza per affrontarne cinquanta.
- Non vi è
alcun modo di fuggire?
- Ricacciarci
nel lago.
- Non
pensiamoci; la tempesta invece di scemare aumenta sempre e le onde cominciano a
giungere anche qui. Vediamo quale accoglienza ci faranno questi buddisti; se si
mostrano ostili daremo battaglia.
- Le mie
braccia sono pronte a grandinare pugni santissimi che faranno loro vedere le
stelle e anche il sole.
Fedoro si era
alzato. I monaci non erano lontani che cinquanta o sessanta passi e
continuavano ad esplorare la spiaggia. Erano una mezza dozzina, non vi era
quindi da temere con un uomo della forza di Rokoff.
- Andiamo ad
incontrarli - disse Fedoro risolutamente. - Anche rimanendo qui ci troverebbero
egualmente.
- Ti seguo -
disse il cosacco, rimboccandosi le maniche della camicia. Avevano percorso
mezza distanza, quando videro le lanterne fermarsi, proiettando la luce
innanzi. Delle esclamazioni che parevano di stupore, sfuggirono agli uomini che
le portavano.
- Ci hanno
veduto - disse Fedoro.
- Chi sono,
dunque? - chiese Rokoff.
- Monaci, che
portano delle tonache di grosso feltro con un manto bianco?
- Sì, e che dà
loro l'aspetto di fantasmi, specialmente fra questa oscurità.
Fedoro mosse
incontro a loro alzando le mani e dicendo in cinese:
- Pace!...
Pace!...
I sei monaci
stettero un momento immobili, col più vivo stupore impresso sui loro volti
giallognoli, poi deposero le lanterne e si inginocchiarono dinanzi ai due
naufraghi coi segni del più profondo rispetto, pronunciando delle parole che né
il russo, né il cosacco riuscivano a comprendere.
- Eh! che cosa
ne dici, Fedoro? - chiese Rokoff.
- Che questi
uomini ci adorano.
- Che ci
prendano per figli della luna o delle tempeste?
- Per i figli
del grande Buddha, amico mio. Devono averci veduto cadere dallo «Sparviero».
- Per le
steppe del Don! Sapremo approfittare della loro ignoranza per farci regalare
almeno una buona cena e un comodo letto. Spero che non saranno poi così stupidi
da credere che i figlioli di Buddha vivano d'aria. Alzatevi, reverendi, basta
colle adorazioni: abbiamo fame ed anche freddo.
E siccome i
monaci non accennavano a levare la fronte che tenevano posata al suolo, ne
prese uno e lo sollevò come fosse un pupattolo, mettendolo in piedi. Gli altri
s'affrettarono a rialzarsi, cacciando fuori le lingue lunghe una buona spanna e
dimenandole in tutti i sensi.
- Abbiamo
capito, ci salutate - disse Rokoff. - Ma basta; conduceteci con voi.
I monaci si
guardarono l'un l'altro cercando probabilmente di comprendere ciò che chiedeva
il cosacco, poi uno di loro, che portava al collo un grosso monile formato di
pietruzze traforate e molto trasparenti, fece alcuni segni, indicando
replicatamente la cima della roccia.
- Che
c'invitino a salire lassù? - chiese Rokoff.
- Mi sembra -
rispose Fedoro.
- Non puoi
farti capire da costoro?
- Non comprendono
il cinese. Nel loro monastero ci sarà, spero, qualcuno che lo parlerà, essendo
i tibetani tributari della Cina. Sì, Rokoff, c'invitano a seguirli.
- Andiamo -
rispose il cosacco. - Mi sento gelare il sangue e desidererei un buon fuoco.
Tre monaci si
misero dinanzi, illuminando la spiaggia colle loro lampade e levando i ciottoli
che potevano far cadere i due aeronauti, gli altri seguivano.
- Molto
gentili - disse Rokoff. - Mi pare che questa avventura debba finire meglio di
quello che credevo. Purché lo «Sparviero» torni presto!... Non si sa mai quello
che può accadere, anche ai figli di Buddha, in questo paese che gode poco buona
fama.
Seguirono la
parete per tre o quattrocento passi, poi salirono una stretta gradinata e
raggiunsero il piano superiore, su cui giganteggiava una enorme costruzione,
con alti tetti arcuati e doppi e due torri di stile cinese.
- Che siamo
caduti presso il monastero di Dorkia? - disse Fedoro.
- È uno dei
più belli? - chiese Rokoff.
- Non solo, ma
anche il più celebre del Tengri-Nor, visitato ogni anno da migliaia e migliaia
di pellegrini e perfino dal Dalai-Lama.
- Saranno
ricchissimi questi monaci?
-
Prodigiosamente, Rokoff.
- Allora siamo
certi di trovare una buona tavola.
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