I BUDDISTI DEL
TENGRI-NOR
I monaci
salirono una gradinata magnifica che metteva su una vasta terrazza sulla quale
si vedevano parecchie antenne sostenenti delle bandiere e delle enormi lastre
di metallo, probabilmente dei gong, destinati a servire da campane, e
condussero i due europei attraverso uno stretto corridoio che pareva corresse
intorno all'edificio e che era illuminato, ogni dieci o quindici passi, da una
lanterna di talco simile a quelle usate dai cinesi.
Di quando in
quando dalle porticine che si trovavano ai lati del corridoio uscivano delle
teste umane, che subito scomparivano dietro un segno fatto dal monaco che aveva
al collo il monile di pietre trasparenti. Appena però il drappello era passato,
le teste tornavano a ricomparire e si udivano dei bisbigli.
Rokoff, Fedoro
e la loro scorta percorsero cinque o seicento passi, salendo di quando in
quando delle gradinate, poi giunsero dinanzi a una porta dal cui stipite
pendeva un tam-tam.
Il monaco dal
monile staccò una piccola mazza di legno e percosse tre volte l'istrumento,
facendo vibrare il bronzo, il cui suono si propagò lungamente nell'immenso
corridoio, svegliandone l'eco.
- Dove ci
conducono? - chiese Rokoff a Fedoro.
- Dal capo
della comunità, suppongo - rispose il russo.
- Un
personaggio importante?
- Quasi quanto
il Dalai Lama di Lhassa, se questo è veramente il celebre monastero di Dorkia.
- Come ci
accoglierà?
- Come figli
di Buddha o santi per lo meno. Ti pare che non debbano prendere per tali degli
uomini che volano fra le nubi sul dorso di un'aquila gigantesca?
- E ci
spacceremo veramente per esseri superiori?
- E perché no?
- E se
l'avventura finisse male?
- Sapremo
cavarcela alla meglio. Lascia fare a me, Rokoff.
La porta si
era aperta e i due europei erano stati introdotti in una vasta sala illuminata
da parecchie lanterne, colle pareti tappezzate da bellissime stuoie dipinte e
il pavimento coperto da tappeti di grosso feltro nero che attutivano qualsiasi
rumore.
Nel mezzo
giganteggiava una statua di Buddha in argilla, e coperta da pezzi di carta
dorata.
Il Dio stava
seduto colle gambe incrociate alla moda dei turchi, colle mani strette sul
ventre e aveva al collo un numero infinito di collane d'oro e di perle di vetro.
Sulla testa portava una specie di calotta dalla quale pendeva una lunga coda di
cavallo bianco.
Rokoff e
Fedoro avevano appena girato uno sguardo all'intorno, quando da una porticina
nascosta da una tenda, uscì un monaco di statura superiore agli altri, molto
vecchio, col viso rugoso, quasi incartapecorito e con una barbetta rada
interamente bianca.
Indossava
un'ampia tonaca di feltro, con maniche larghissime e sulle spalle, tenuta da un
fermaglio d'oro, portava una specie di mantellina bianca che ricadeva in larghe
pieghe fino sotto la cintura.
I sei monaci,
vedendolo entrare, gli si erano gettati dinanzi battendo la fronte sul
pavimento, poi quello della collana si era alzato scambiando col vecchio alcune
rapide parole.
- Che sia il
capo del convento? - chiese sottovoce Rokoff, guardandolo con curiosità.
- Dal rispetto
che gli dimostrano i monaci, lo credo tale - rispose Fedoro.
- Dobbiamo
anche noi inginocchiarci? Ci penso poco io.
- No, come
figli di Buddha gli siamo superiori, quindi tocca a lui fare omaggio a noi.
Il vecchio
Lama guardò per alcuni istanti i due europei, poi s'avanzò verso di loro, e
come Fedoro aveva previsto, s'inginocchiò battendo tre volte la fronte sul
pavimento.
Il russo si
curvò verso di lui e lo rialzò, dicendogli in cinese:
- Salute al
capo dei buddisti del lago sacro di Tengri-Nor.
Il Lama con un
gesto fece uscire i monaci, prese per una mano i due europei e li condusse su
un piccolo divano, facendo loro segno di accomodarsi, poi disse, pure in lingua
cinese:
- Saluti e omaggi
ai figli del cielo, ai quali il grande Buddha ha dato la potenza di solcare gli
spazi come le aquile e di sfidare le tempeste.
Ci fu fra di
loro un silenzio abbastanza lungo e anche molto imbarazzante, poi il Lama
riprese, facendosi coraggio:
- È il grande
Buddha che vi ha detto di scendere fra i fedeli del TengriNor?
- Sì - rispose
prontamente Fedoro, con calma imperturbabile. - Il possente Dio ci aveva
pregato di venire a visitare i conventi del lago sacro.
- Perché siete
discesi fra le acque invece di prendere terra dinanzi al nostro monastero?
- Perché lo
spirito del male aveva scatenato contro di noi i venti e le folgori, onde
impedirci di compiere la nostra missione.
- Noi vi
avevamo veduti ieri sera lottare contro la tempesta avvolti fra una luce intensa,
abbagliante. Buddha illuminava il vostro grande uccello per guidarlo anche fra
le tenebre.
- È vero -
disse Fedoro - ma il genio del male pareva che in quel momento fosse più forte
di noi e chi sa dove ci avrebbe spinti se noi non ci fossimo lasciati cadere
fra le onde del lago.
- Voi non
eravate soli.
- No, avevamo
altri due compagni.
- Dove si sono
recati costoro?
- A visitare i
monasteri del settentrione.
- Andrete poi
anche a Lhassa?
- Dobbiamo
visitare il Dalai-Lama - rispose Fedoro. - Siamo incaricati d'una missione per
lui.
- Da parte del
grande Buddha?
- Sì.
- Si lagna dei
suoi fedeli?
- È anzi
soddisfattissimo, ma desidererebbe che i pellegrinaggi diventassero più
numerosi e più frequenti.
- La colpa non
è nostra, bensì dei briganti che infestano i passaggi degli altipiani.
- Buddha li
sterminerà certamente - disse Fedoro. - È già stanco delle innumerevoli
scelleratezze che compiono quei miserabili e abbiamo anzi già ricevuto l'ordine
di farli divorare, dove li incontreremo, dal nostro terribile uccello.
- Deve essere
terribile quel mostro - disse il Lama, mentre un brivido di terrore lo faceva
sussultare.
- Divora cento
uomini cattivi al giorno e con pochi colpi delle sue ali abbatte dei villaggi
interi. Quattro giorni or sono ha distrutto un covo di banditi, bruciandolo
completamente.
- Ha il fuoco
nel ventre? - chiese il Lama stupito.
- Vomita
fiamme che nessuno può spegnere.
- Quanta
potenza vi ha dato Buddha! Dove risiede ora il nostro Dio?
- Sta pregando
sulla vetta del Tant-la.
- E quando
tornerà a mostrarsi ai suoi fedeli?
- Deve
compiere ancora molte incarnazioni, prima di tornare uomo - rispose Fedoro
sempre imperturbabile. - Forse fra mille anni si degnerà di mostrarsi sulle
acque del Tengri-Nor, montando un uccello simile al nostro, ma cento volte più
grande. Tremino allora i cattivi, gli empi. Tutti verranno distrutti dal fuoco
del suo mostro e dannati per tutta l'eternità a cucinare nel lago di Boracee
sotto forma di scorpioni.
- Basta,
Fedoro - disse Rokoff, il quale non comprendeva nulla. - Domanda se ha una cena
da offrirci e del fuoco per asciugarci. Questo monastero è freddo come una
ghiacciaia.
- Stiamo
discutendo su Buddha.
- Me ne
infischio io del loro Dio color della terracotta.
- Un po' di
pazienza.
Il Lama li
lasciò parlare, poi riprese:
- Non parla il
cinese, il vostro compagno?
- No - rispose
Fedoro. - Egli non conosce che la lingua che si parla sulle montagne della
luna, dove si trovano i Lama della Mongolia, che si sono guadagnati il nirvana.
- Desidera
qualche cosa?
- Si lagna
d'aver fame e freddo e di essere ancora bagnato.
- Potevate
dirlo prima. Tutto ciò che si trova nel mio monastero è a disposizione dei
figli prediletti del grande Buddha.
S'accostò a un
piccolo tam-tam e fece vibrare due volte il disco metallico. Il monaco
che aveva la collana entrò, inchinandosi fino a terra. Il Lama scambiò con lui
alcune parole, poi si volse verso i due europei, dicendo:
- Seguitelo e
avrete cena, fuoco e da dormire. Io intanto approfitterò del vostro riposo per
avvertire del vostro arrivo il Bogdo Lama del monastero di Dorkia.
- Pare che non
sia questo quello di Dorkia - pensò Fedoro. - Purché non ci invitino a recarci
colà! Mi spiacerebbe che il capitano non ci trovasse più qui.
S'inchinarono
dinanzi alla statua di Buddha e seguirono il monaco che aveva staccato dalla
volta una lanterna. Al di fuori li attendevano gli altri cinque monaci, pure
muniti di lampade.
Rifecero parte
del corridoio, poi salirono una scala a chiocciola che doveva condurre ai piani
superiori ed entrarono in un'altra stanza, più vasta di quella di prima,
egualmente tappezzata e illuminata e fornita d'un caminetto dove ardeva un
allegro fuoco.
Nel mezzo vi
era una tavola, molto bassa, e all'intorno dei comodi divani. I sei monaci, con
cenni, invitarono i due europei a sedersi, poi uscirono per rientrare poco dopo
portando dei vasi e dei tondi d'argento, finemente cesellati, e dei bricchi col
collo assai lungo e molto artistici.
- Che ci sia
da mangiare, lì dentro? - chiese Rokoff.
- Certo -
rispose Fedoro.
- Se questi
monaci ci lasciassero ora soli! Non mi piace che vedano come mangiano i figli
della luna o del cielo.
- Li pregherò
di andarsene, quantunque non capiscano una parola di cinese.
- Mandali via
con una spinta; capiranno meglio.
- Oh! Rokoff!
Dei figli di Buddha che maltrattano i loro adoratori!...
I monaci
continuavano a portare vasi, tondi, recipienti, chicchere, bricchi, coprendo
tutta la tavola. Fedoro li lasciò fare, poi con una mimica molto espressiva, indicò
loro la porta.
Fu subito
compreso perché i monaci, dopo un altro e più profondo inchino, se ne andarono
non senza manifestare però un certo stupore che non sfuggì al russo.
-
Probabilmente avevano ricevuto l'ordine di servirci - disse a Rokoff, il quale,
per non venire più disturbato, aveva spinto un divano contro la porta.
- Ne faremo
senza - rispose il cosacco. - Quelle facce smorte m'avrebbero fatto perdere
l'appetito. Sai che son ben brutti questi tibetani, specialmente quando caccian
fuori le loro lingue d'appiccati? Ora che siamo soli, asciughiamoci un po'.
Credo di avere dei pezzi di ghiaccio dentro la camicia.
Stava per
spogliarsi, quando Fedoro gli mostrò parecchie tonache di feltro pesantissimo,
che parevano affatto nuove e che si scaldavano presso il caminetto.
- Devono
averle portate per noi - disse. - Getta via le tue vesti e indossa queste. Ti
troverai meglio.
- E tu?
- Io faccio
altrettanto. To'! Vi sono anche delle camicie di seta e delle calze. Questi
bravi monaci hanno pensato a tutto. Vedo anche delle scarpe somiglianti a
quelle dei cinesi.
- Allora
lascia i tuoi stivali, che spandono acqua da tutte le parti.
- È il
ghiaccio che si fonde. Ma... per le steppe del Don! Che figura faremo noi
vestiti da monaci!
- Superba,
Rokoff - disse Fedoro, ridendo. - Tu poi, colla tua statura e colla tua lunga
barba rossa, diverrai maestoso. D'altronde, dei figli di Buddha vestiti
all'europea non devono ispirare fiducia agli abitanti di questa regione.
- Ah! Siamo
figli di Buddha!
- Non so
ancora quale posizione veramente noi occupiamo, ma altissima di certo, al
rispetto che ci dimostrano questi monaci.
- Diventiamo
allora buddisti - disse Rokoff. - Dopo tutto, una religione vale l'altra.
Si riscaldò
alla fiamma del caminetto, indossò una superba camicia di grossa seta cruda,
infilò le calze e le scarpe e si cacciò dentro a una tonaca ben calda, mandando
un lungo sospiro di soddisfazione.
- Come ti
sembro? - chiese a Fedoro, che faceva altrettanto.
- Tu farai
morire d'invidia tutti i Lama dei monasteri - disse il russo. - Che aspetto
imponente! Sei un magnifico superiore, parola d'onore.
- To'!
un'idea! - Parla, Rokoff.
- Se chiedessi
un monastero? A un figlio, o segretario, o messo di Buddha non si dovrebbe
negarlo.
- Penseremo a
questo dopo la cena.
- Mille
fulmini! Mi dimenticavo che ho il ventre vuoto. Speriamo di trovare in questi
recipienti qualche pezzo di jack o un prosciutto d'orso. Ho udito
narrare che i monaci mangiano bene.
- Uhm! della
carne! Non ne troverai, mio povero amico.
- Eh! Forse che
i Tibetani vivono d'erbe cotte? Rinuncio fin d'ora a diventare il superiore
d'un convento.
- Come vuoi
che un buddista osi mangiare un animale? Mangeresti tu l'anima di tuo padre, o
di tuo fratello, o di qualche caro amico? Qui la metempsicosi vive sovrana.
- Non ti
capisco, Fedoro - disse Rokoff.
- Ignori
dunque che i buddisti credono che l'anima d'un defunto s'incarni subito nel
corpo d'un animale? Se ammazzi un bue, un cavallo, un orso, un cane, un gatto,
magari un verme qualunque, potresti uccidere tuo padre incarnato in uno
qualunque di quegli animali o insetti.
- Sicché qui
le bestie si lasciano vivere.
- Finché
muoiono di vecchiaia o per qualche accidente inatteso. Solo, allora, e non
tutti i buddisti, osano ancora cibarsi di quelle carni.
- Al diavolo i
buddisti e le loro stupide superstizioni. Buon Dio, che cosa mangeremo noi?
- Vediamo,
Rokoff; sento sfuggire dei profumi che non mi sembrano sgradevoli.
- Procediamo a
una visita e facciamo la scelta.
Alzarono i
coperchi cacciando il naso dentro a quindici o venti recipienti d'argento e il
cosacco dovette convincersi che non v'era nemmeno l'ombra d'una costoletta o
tanto meno del sospirato pezzo d'arrosto.
Vi erano
invece delle salse di tutti i colori, dell'orzo bollito nel latte, dei pasticci
pure d'orzo, delle erbe di varie specie, condite con certe poltiglie nere. In
un grande piatto d'argento scoprirono però un magnifico pesce che nuotava in
una certa materia trasparente e gommosa.
- Che questo
abitante delle acque non contenesse l'anima di nessun buddista? - chiese
Rokoff.
- Hanno fatto
forse un'eccezione a noi - rispose Fedoro.
- E noi
mostreremo che i figli di Buddha non sdegnano i pesci. Che cosa sarà poi questa
salsa?
- Sarà
impossibile saperlo. Assaggia, amico Rokoff.
- Non è
cattiva, almeno alla mia bocca.
- Allora
divoriamo, finché si scalda l'acqua del tè.
Il pesce
scompare ben presto, quantunque dovesse pesare almeno quattro chilogrammi, poi
a poco a poco sparirono anche le focacce e l'orzo al latte e finalmente anche
le salse.
Otto o dieci
chicchere di tè squisito, finirono
quella cena che era meno cattiva di quanto dapprima i due europei avevano
creduto.
- Peccato non
aver con me la mia pipa e la mia borsa di tabacco - disse Rokoff
- Non si fa
uso qui di tabacco - rispose Fedoro.
- Avrebbero
dovuto portarci almeno qualche bottiglia di vino.
- Non si
conosce qui il vino; fanno però molto uso d'acquavite d'orzo che bevono tiepida
e non so davvero perché non ce l'abbiano portata. Bah! Quando verrà il capitano
vuoteremo una bottiglia di più.
- Chissà
quando tornerà, Fedoro. Il vento deve averlo trascinato molto lontano; non
poteva più resistere.
- E che le ali
non siano state spezzate, mio caro Rokoff.
- Sarebbe
stato meglio. In tal caso non sarebbe caduto molto lontano. Mi rincrescerebbe
però assai che fosse toccata qualche disgrazia a quel valoroso aeronauta.
- Io non ho
alcun dubbio che abbia potuto raggiungere le spiagge settentrionali e prendere
felicemente terra - rispose Fedoro. - Con una simile macchina e così perfetta,
si può sfidare impunemente qualsiasi uragano. No, io sono completamente
tranquillo e sono certo che appena cessato questo ventaccio furioso, lo vedremo
ritornare a riprenderci.
- Avrà
osservato dove siamo caduti?
- Come noi
abbiamo veduto, il monastero non gli è sfuggito agli sguardi. Rokoff facciamo
un buon sonno e aspettiamo domani. Questo tepore invita a chiudere gli occhi.
- Seguo il tuo
consiglio - rispose il cosacco.
Si sdraiarono
sui divani coprendosi con dei pesanti feltri e chiusero gli occhi, mentre gli
ultimi tizzoni scoppiettavano nel caminetto.
Il loro sonno
fu cortissimo. Un colpo di tam-tam che fece rintronare la sala, li fece
balzare in piedi.
- Che sia già
l'alba? - si chiese Rokoff, fregandosi gli occhi. - No, la fiamma non si è
ancora spenta - disse Fedoro.
- Che cosa
vogliono da noi? Ci hanno chiamato, è vero?
- Ci invitano
ad aprire.
- Che sia
giunto il capitano?
- Uhm! Non odi
il vento ruggire al di fuori!
- Allora li
mando a quel paese.
- No, non
guastiamoci con questi monaci, Rokoff; non è prudente.
Il cosacco
allontanò il divano e aprì la porta.
I sei monaci,
ancora gli stessi che li avevano trovati sulla spiaggia, entrarono
prosternandosi dinanzi ai due europei, poi fecero segno a loro di seguirli
- Cominciano a
diventare noiosi coi loro inchini - disse Rokoff. - Sarebbe stato meglio se ci
avessero lasciato dormire fino a domani. Che cosa vogliono?
- Non ne so
più di te - rispose Fedoro. - Se ci pregano di seguirli, ci sarà qualche cosa
di nuovo che ci riguarda.
- Che ci
conducano ancora da quella mummia vivente?
- Lo vedremo,
Rokoff.
Seguirono i
monaci che li attendevano nel corridoio e furono condotti nella sala dove vi
era la statua di Buddha. Il vecchio Lama li aspettava pregando dinanzi al Dio.
- Ci
mancherebbe altro che ci facesse inginocchiare dinanzi a questo pezzo di
terracotta - disse Rokoff, che era diventato di pessimo umore. - Che questi
monaci invece di dormire passino le notti pregando?
Il Lama,
vedendoli entrare, si era alzato, poi, dopo un inchino, disse a Fedoro:
- Preparatevi
a partire.
- A partire! -
esclamò il russo, sorpreso. - E per dove?
- Pel
monastero di Dorkia.
- A che cosa
fare?
- Il
Bogdo-Lama di quel convento desidera vedervi.
Fedoro
aggrottò la fronte, fingendosi indignato.
- Noi non
siamo i servi del Lama di Dorkia - disse con voce acre. - Perché non viene lui
qui?
- Io non posso
altro che obbedire - rispose il monaco. - È mio superiore, comanda a tutta la
regione e se io volessi rifiutarmi, sarebbe capace di mandare qui i suoi
guerrieri e farci tutti prigionieri.
- Noi dobbiamo
aspettare qui il nostro terribile uccello e anche i nostri compagni.
- Se tornano,
dirò loro che siete nel monastero di Dorkia - rispose il Lama.
- Ce lo
promettete?
- Ve ne dò la
mia parola.
- Come andremo
noi a quel convento?
- Il
Bogdo-Lama ha mandato dei cavalli e una numerosa scorta.
- Chi l'ha
avvertito che noi siamo scesi qui?
- Su tutte le
spiagge del lago si è sparsa la voce che dei figli del cielo percorrevano la
regione montati su un'aquila di grandezza prodigiosa ed è giunta anche agli
orecchi del Bogdo-Lama di Dorkia, il quale ha mandato messaggeri e scorte in
tutti i conventi per condurre a lui i santi uomini, nel caso si fossero degnati
di scendere sul Tengri-Nor. Non indugiate, la scorta vi attende.
Fedoro
tradusse a Rokoff l'esito di quel colloquio, non senza celargli le sue
apprensioni.
- Se ci
rifiutassimo? - chiese il cosacco.
- Il Lama di
Dorkia, a quanto ho capito, è potentissimo e potrebbe ricorrere alla forza.
Potremmo noi resistere a tutti i suoi guerrieri, che ascendono forse a delle
migliaia?
- Sicché non
ci rimane che obbedire.
- Purtroppo
Rokoff.
- Ah! Diavolo!
Mi pare che quest'avventura s'imbrogli; non vedo chiaro in questa faccenda. Se
al Lama di Dorkia saltasse il ticchio di tenerci prigionieri?
- O fare di
noi dei Buddha viventi? - disse Fedoro.
- Prenderemo a
pugni il Lama e i suoi monaci.
- Dunque? -
chiese il vecchio, con una certa ansietà.
- Siamo pronti
a seguire la scorta - rispose il russo. Avremmo però desiderato fermarci presso
di voi alcuni giorni.
- E io sarei
stato orgoglioso di ospitarvi nel mio monastero - rispose il monaco, con un
sospiro. - Avrei attirato, durante la buona stagione, migliaia e migliaia di
pellegrini, colla vostra presenza.
Accompagnò i
due europei fino sulla porta del convento, sulla cui gradinata stavano
schierati numerosi monaci, portando delle lanterne, poi baciò i lembi delle
loro tonache, dicendo:
- Spero di
rivedervi presto: che il grande Buddha, vostro padre, vegli su di voi.
- Vi promettiamo
di tornare - rispose Fedoro. - Non dimenticatevi però di avvertire i nostri
fratelli, se giungeranno, che siamo stati condotti a Dorkia.
- Saranno miei
ospiti.
La scorta
mandata dal possente Lama del celebre monastero si componeva di cinquanta uomini
d'aspetto brigantesco, con ampie vesti di grosso feltro, armati di lunghi
moschettoni a miccia e di larghe scimitarre e montati su piccoli cavalli colle
groppe villose e le gambe secche come quelle dei cervi o degli stambecchi,
animali senza dubbio impareggiabili, che non dovevano temere né gli aspri
sentieri di quelle orribili montagne, né i freddi intensi degli altipiani.
Due cavalli
più robusti, col mantello bianco, con una lunga gualdrappa rossa che ricadeva
fino a metà delle gambe e le criniere adorne di nastri, attendevano i due figli
di Buddha.
Il comandante
della scorta, un montanaro d'aspetto imponente, con un barbone che gli saliva
fino quasi agli occhi e che indossava il pittoresco costume dei Butani, si
avanzò verso Fedoro e Rokoff, e dopo essersi inginocchiato tre volte dinanzi a
loro, disse in cinese:
- Ricevete fin
d'ora i saluti del possente Bogdo-Lama di Dorkia, il quale sarà altamente
onorato d'ospitarvi.
Poi li
condusse verso i cavalli, invitandoli a salire.
I cavalieri
intanto avevano acceso delle piccole lanterne cinesi appendendole alle canne
dei loro moschettoni.
- Decisamente
noi stiamo per diventare personaggi celesti - disse Rokoff, accomodandosi sulla
larga, ma anche molto dura sella del cavallo.
La scorta si
era messa in moto: dieci cavalcavano dinanzi ai due europei; gli altri dietro
su due file.
La notte era
orribile, essendo l'uragano tutt'altro che cessato. Un vento impetuosissimo e
così freddo da far tremare persino i cavalli, nonostante il loro villoso
mantello, soffiava dalle montagne circostanti, cacciandosi entro le gole con
ruggiti tremendi e in lontananza si udivano i boati delle valanghe, rotolanti
dai ghiacciai.
Il lago, che
lambiva il sentiero percorso dalla scorta, presentava uno spettacolo terribile.
Montagne d'acqua si rovesciavano contro le spiagge con fracasso spaventevole,
rimbalzando e ricadendo, formando gorghi e colonne liquide e lanciando cortine
di spuma fino addosso ai cavalieri.
Sopra,
l'immensa nuvola nera, in balìa dei venti che si incontravano in tutte le
direzioni, roteava vertiginosamente, ora abbassandosi quasi fino a sfiorare le
creste dei marosi e ora squarciandosi. I lampi però erano cessati. Solamente il
tuono, di quando in quando, faceva udire la sua possente voce.
- Bella notte,
per farci fare un viaggio - disse Rokoff, che rialzava a ogni istante il bavero
della sua tonaca. - Mi pare che questo vento mi strappi, pezzo a pezzo, tutta
la carne del mio volto.
- Non mi
stupirei se ciò ti toccasse - rispose Fedoro. - Certe volte i venti acquistano
una tale violenza, in queste regioni, e sono così secchi, da strappare perfino
la carne delle braccia. Il capitano Gill, del corpo degli ingegneri reali
inglesi, che ha visitato queste regioni, ha provato quei terribili morsi del
vento tibetano.
- Il
Bogdo-Lama poteva ben attendere domani, invece di esporci di notte, a questo
viaggio. Aveva paura che scappassimo?
- Io sospetto
invece qualche cosa d'altro.
- Ossia?
- Che temesse
che il Lama che ci ha ospitati ci nascondesse, facendo poi spargere la voce che
noi eravamo tornati in cielo.
- Che questi
signori monaci abbiano l'intenzione di tenerci prigionieri?
- Lo temo, mio
povero Rokoff. Saranno orgogliosi di possedere due figli di Buddha viventi. È
ben vero che ne hanno degli altri, ma non discendono dal cielo, né sono mai
stati veduti volare sul dorso d'un uccello.
- E noi ci
lasceremo sequestrare tranquillamente?
- Pel momento
ci conviene adattarci alle circostanze e fare buon viso alla cattiva fortuna.
- Io mi
ribellerò e farò un massacro di tutti i monaci di Dorkia - disse Rokoff.
- Un figlio di
Buddha che ammazza gli adoratori del padre! Tutto sarebbe finito e la nostra
santità, che per ora ci protegge, sfumerebbe subito. Non scherziamo coi
tibetani, Rokoff. Se avessero il più piccolo sospetto che noi siamo degli
europei, chissà quanti orribili tormenti ci farebbero soffrire. No,
manteniamoci tranquilli, fingiamo di essere veramente figli del cielo e
aspettiamo il ritorno del capitano.
- Che cosa
potrà fare lui se i Lama ci tengono prigionieri?
- Dispone di
mezzi potenti colla sua aria liquida, lo hai già veduto.
- E se fosse
morto?
Fedoro non osò
rispondere.
Il drappello
intanto continuava a costeggiare il lago, galoppando rapidamente.
La via era
orribile, cosparsa di macigni, di crepacci, di pezzi di valanghe e saliva
sempre fiancheggiando talora degli abissi spaventevoli, in fondo ai quali
muggivano o scrosciavano le onde del Tengri-Nor.
I cavalli però
non si arrestavano un solo istante e superavano, con un'abilità e una sicurezza
straordinaria, tutti quegli ostacoli. Non interrompevano la loro corsa nemmeno
quando il sentiero diventava così stretto da permettere appena il passaggio a
un solo cavaliere per volta.
Eppure il
vento, in certi passaggi, soffiava con tale furore, che Fedoro e Rokoff
temevano di venire strappati dalla sella e scaraventati in fondo a quei paurosi
baratri.
Che magnifici
cavalieri erano quei tibetani! Saldi sulle loro selle, pareva che formassero un
solo corpo coi loro destrieri e non esitavano mai, anche quando dovevano
scendere entro profondi avvallamenti o dovevano saltare dei crepacci che
mettevano le vertigini.
Quella corsa
indiavolata fra abissi e burroni, fra i muggiti delle acque da un lato, i
ruggiti del vento dall'altro, durò tre lunghe ore.
Cominciavano a
diradarsi le tenebre, quando il capo della scorta mandò un grido stridente.
I cavalli
s'arrestarono un momento, grondanti di sudore e di spuma, poi si cacciarono uno
dietro l'altro su uno stretto ponte gettato sopra un profondo burrone.
Giunti
dall'altra parte, agli occhi di Fedoro e di Rokoff apparve un enorme edificio
che s'innalzava maestosamente su una vasta piattaforma scendente verso il
Tengri-Nor.
- Dorkia -
disse il capo della scorta, accostandosi ai due europei. - Il Bogdo-Lama vi
attende.
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