I GIGANTI
DELL'HIMALAYA
Mezz'ora dopo
quel miracoloso salvataggio, gli aeronauti, seduti dinanzi a una succulenta
colazione, raccontavano le loro avventure che per poco non finivano così
tragicamente pel russo e pel cosacco, in causa di quel disgraziato sermone o
meglio di quel mezzo fiasco di sciam-sciù che aveva fatto girare il capo
al predicatore.
Come abbiamo
veduto, la predica era terminata malamente e Rokoff era dovuto scappare a
precipizio, per non farsi lapidare o, peggio ancora, moschettare dai
pellegrini. La paura aveva fatto snebbiare il cervello del cosacco, il quale
aveva finalmente compreso quale grosso pericolo si era tirato addosso coi suoi
asini pascolanti nelle praterie del nirvana di Buddha e i suoi episodi della
guerra russo-turca.
Suo primo
pensiero era stato quello di abbandonare subito il monastero assieme a Fedoro,
ma il tempo gli era mancato, perché i monaci avevano invaso l'appartamento dei
due falsi figli di Buddha, rendendo impossibile qualsiasi evasione.
I due
disgraziati, dopo una lotta disperata, erano stati atterrati, legati, e lì per
lì condannati a essere divorati vivi dalle aquile e quindi condotti sull'alta
montagna, dove avrebbero certamente lasciato la loro pelle, senza il
provvidenziale arrivo dello «Sparviero».
Il capitano
aveva ascoltato quelle comiche avventure, ridendo a crepapelle. Perfino il muto
personaggio non aveva saputo frenare più volte un sorriso.
- Povero
signor Rokoff! - esclamò il comandante.
- E tutto in
causa di quel sermone.
- E un po' del
sciam-sciù che avevo tracannato per farmi coraggio.
- Chissà
quante ne avrete dette sul conto di quel povero Buddha.
- Credo di
averlo paragonato a un gran diavolo con venti o trenta corna. Se aveste visto
che smorfie faceva il vecchio Bogdo-Lama e che occhiate furiose mi lanciava!
- Ne sono
convinto. È stata una vera fortuna che quei buddisti abbiano pensato a farvi
divorare dalle aquile. Potevano cacciarvi in una stanza oscura piena di
scorpioni o farvi mangiare dai selvaggi di U.
- Allora
sarebbe stata proprio finita per noi - disse Fedoro.
- Lo credo,
perché non avrei potuto certo salvarvi o sarei giunto troppo tardi - rispose il
capitano.
- Ci avreste
almeno vendicati - disse Rokoff.
- Avevo già
fatto preparare delle bombe ad aria liquida per far saltare il monastero.
- Se lo avessi
saputo prima, le avrei gettate sui pellegrini - disse Rokoff. - Perché non
dirmelo?
- Dovete
averne schiacciati un bel numero con quella pesante cassa. Sono stati
abbastanza puniti.
- Avessi
almeno accoppato quel monaco barbuto! Capitano, io ne ho abbastanza anche del
Tibet; andiamocene al più presto.
- Scendiamo al
sud con una velocità di quaranta miglia all'ora. Guardate, anche il Tengri-Nor
è scomparso e stiamo rasentando il Nigkorta.
- Non andremo
a Lhassa? - chiese Fedoro.
- No, ho
fretta di attraversare la grande catena dell'Himalaya e di calare nell'India.
-
Attraversando il Nepal?
- È probabile
- rispose il capitano.
- E dove
finiremo?
- Lo ignoro
ancora. Tutto dipende da certe circostanze.
- Non andremo
a Calcutta? - insistette Fedoro.
- Non desidero
che mi si veda colà.
Il capitano,
che non amava, a quanto pareva, spiegarsi sui suoi futuri progetti, si era
alzato da tavola accendendo una sigaretta e si era recato a prora dicendo:
- Guardate il
Nigkorta: è stupendo.
L'enorme
montagna, una delle più alte del Tibet, giganteggiava verso l'est, capofila
dell'immenso ammasso di picchi enormi che formava la catena del Nin-thang-la.
Al pari delle
altre era tutta coperta di nevi, dalla base alla cima e appariva come un enorme
pane di zucchero. Sui suoi fianchi, immensi ghiacciai scintillavano sotto i
raggi del sole vomitando senza posa, nelle sottostanti vallate, blocchi
colossali di ghiaccio che dovevano più tardi alimentare i fiumi che scendono in
gran copia da quel colosso.
Lo
«Sparviero», costretto a mantenersi a un'altezza di tremila metri, faticava non
poco, in causa delle furiose correnti aeree che s'incrociavano in mille guise e
che a ogni istante cambiavano direzione, nondimeno riusciva a percorrere le sue
trentacinque o quaranta miglia all'ora.
Alla sera
passava sopra Gang-Ischaka, una borgata di qualche importanza, mettendo in
subbuglio la popolazione che in quel momento si trovava nelle vie a mungere gli
jacks domestici; poi con una rapidissima volata andava a posarsi sulla
cima d'una montagna situata trenta miglia più al sud, in un luogo che sembrava
deserto.
L'indomani, ai
primi albori, il capitano, che pareva avesse molta fretta di attraversare il
Tibet, dava il segnale della partenza.
Cominciavano
allora ad apparire delle pianure. La regione montuosa spariva a poco a poco per
riprendere più tardi il suo impero al di là del Brahmaputra, colla gigantesca
catena dell'Himalaya.
Alle due del
pomeriggio il capitano additava a Fedoro e a Rokoff un fiume larghissimo che
scorreva dall'ovest all'est con larghi serpeggiamenti.
Era il
Brahmaputra, uno dei più celebri fiumi dell'Asia, perché le sue acque, al pari
di quelle del Gange, vengono ritenute sacre.
Questo gigante
fra i giganti, nasce nel Tibet occidentale, sui fianchi settentrionali
dell'Himalaya. Si apre un varco attraverso l'infinito numero di montagne che
ingombrano il paese dei Lama, poi con una immensa curva entra nell'India per la
valle dell'Assan, raccogliendo sul suo corso oltre cinquanta fiumi tutti
navigabili e va a scaricarsi in mare dopo duemilacinquecentosettanta chilometri
di percorso.
È più lungo
del Gange e ha una massa d'acqua assai maggiore, ma è meno sacro del primo per
gl'indiani, quantunque sia chiamato il figlio di Brama. Nel momento in cui lo
«Sparviero» lo attraversava, numerosi battelli solcavano le acque del fiume,
carichi di mercanzie. I battellieri, scorgendo quel mostro che sbatteva le sue
immense ali, presi da una irrefrenabile paura, si erano precipitati in acqua,
urlando come se fossero diventati pazzi.
- Noi
spargiamo il terrore dappertutto - disse Rokoff. - Vedremo se anche gl'indiani
fuggiranno.
- Se ci
vedranno - disse il capitano.
- Viaggeremo
di notte?
- Non amo che
gl'inglesi mi scorgano.
- Non volete
aver rapporti coi popoli civili? - chiese Rokoff, sorpreso.
- Per ora no.
- Eppure avete
attraversato l'America.
- E chi mi ha
veduto? - chiese il capitano. - Avete mai udito raccontare che una macchina
volando sia stata osservata a Nuova York, o a Nuova Orleans, o a Buffalo, o a
San Francisco di California?
- No, mai,
signore.
- Eppure io
sono passato su tutte quelle città.
- E perché non
volete che i popoli civili ammirino il vostro «Sparviero»?
- Per ora è un
segreto che non vi posso svelare, signor Rokoff. Ah! Che cosa sono questi punti
bianchi? Guardate questa strana nube che stiamo attraversando.
Lo «Sparviero»
correva in quel momento sopra le montagne del Giangtse, le quali s'alzavano in
forma d'immensi scaglioni, spingendo le loro cime a tremilanovecento metri.
La gigantesca
catena dell'Himalaya non era lontana, quantunque non si scorgessero ancora le
vette di quei colossi che separano il Tibet dall'India.
Il passo era
ancora popolato. Villaggi e borgatelli comparivano di quando in quando e anche
numerose carovane di cammelli e di jacks si vedevano salire
faticosamente le strette vallate dei monti.
Verso sera lo
«Sparviero» si abbassava sulle rive del Tsono, un lago perduto quasi ai confini
tibetani, rinchiuso fra montagne altissime. Il freddo era aumentato in causa
della vicinanza degli immensi ghiacciai dell'Himalaya e soprattutto del
gigantesco Dorkia, costringendo gli aeronauti a riprendere le loro vesti
d'inverno e a riaccendere la stufa.
- Sarà domani
che passeremo la grande catena? - chiese Rokoff al capitano, prima di ritirarsi
nella sua cabina.
- A mezzodì
passeremo presso il Dorkia - rispose il comandante.
- E non
andremo a vedere l'Everest?
- Lo
scorgeremo egualmente, essendo visibile a distanza incredibile.
- Sicché non
andremo verso l'ovest?
- No,
scenderemo in India attraverso il Butan. Buona notte, signor Rokoff, a domani.
Erano appena
le quattro del mattino, quando lo «Sparviero» riprendeva il volo per
attraversare la grande catena che doveva condurlo in India. Già i primi
contrafforti apparivano in forma di altipiani, i quali s'innalzavano
rapidamente. costringendo gli aeronauti a portarsi sempre più in alto per non
urtare contro quegli enormi ostacoli.
La vegetazione
scompariva rapidamente. Non più foreste di pini e di abeti, non più praterie
verdeggianti, dove pascolavano prima cavalli e mandrie di jacks e anche
non più villaggi. Cominciava un deserto di neve e di ghiaccio. Fu verso il
mezzodì, quando le brume che coprivano l'orizzonte si furono sciolte, che agli
sguardi ansiosi e meravigliati degli aeronauti apparve l'imponente massa
dell'Himalaya coronata di nevi e di ghiacci. I mostruosi colossi, fra i quali
primeggiava il Dorkia, che spingeva la sua vetta a oltre settemila metri,
chiudevano tutto l'orizzonte meridionale, accavallandosi confusamente e
mostrando vallate gigantesche, attraverso le quali si vedevano serpeggiare
fiumi dal corso impetuoso. All'ovest, a una grande distanza, scintillava
l'enorme Gaurinkar, o meglio l'Everest, il monte santo degl'indiani, il più
mostruoso picco del globo, il re delle montagne, perché supera tutti toccando
un'altezza di ben ottomilaottocentosessanta metri.
La catena
dell'Himalaya, che è la più vasta che esista sul nostro pianeta, e che in
sanscrito significa luogo nevoso, perché è sempre coperta di nevi anche durante
l'estate, corre dal Bengala al Cascemir per uno spazio di 1.096.000 chilometri
quadrati, limitata all'est dal Brahmaputra e all'ovest dall'India, i due più
grandi fiumi della penisola indostana.
Ancora
cent'anni or sono era pochissimo nota agli europei, in causa delle ostilità dei
montanari e soprattutto delle tribù dei Gorka, le quali negavano ostinatamente
il passo agli esploratori inglesi, come se temessero che i piedi degli uomini
bianchi portassero sventura o scatenassero i Mani nascosti nelle caverne di
quelle enormi montagne.
Fu solamente
nel 1809 e poi nel 1815 che gli ufficiali inglesi, approfittando della guerra
che combattevano contro le tribù montanare del Bopal, poterono spingersi su per
quelle immense vallate e quindi misurare una ad una le altezze delle montagne
con strumenti così imperfetti, da non poter dare a essi la loro esatta
dimensione.
Kirpatrik e
Fraser, due distinti ufficiali, furono primi a tentare l'ascensione di quei
colossi, seguiti poi dal capitano Webb e da Colebrosk. Il colonnello Waugh
saliva in seguito l'Everest, poi Humbold il Fawahir, Gerard il Chipca-Pic ai
confini della Tartaria cinese, poi Hodgson e il tenente Herbet visitavano la
catena centrale, scoprendo nel 1821 la vera sorgente del maestoso Gange, il
fiume sacro degli indiani, situato a circa 4.480 metri, vicino al Vanaro Fuga.
Oggi tutta la catena è nota e tutti i monti sono stati esplorati e misurati
scrupolosamente.
Questo enorme
ammasso di montagne ha undici passaggi posti però ad altezze che variano fra i
cinquemila e i seimila metri, ventisette picchi culminanti che toccano i
seimilacinquecento metri fino ai settemilaseicentosettanta e un numero infinito
di ghiacciai situati a un'altezza straordinaria, quasi quanto il Chimborazo, il
colosso dell'America meridionale.
Tutti
gl'indiani hanno una grande venerazione per la catena dell'Himalaya, che per
loro è d'origine santa e da migliaia e migliaia d'anni milioni di pellegrini si
recano a visitare i templi sparsi su quelle giogaie. Anzi, secondo una loro
tradizione, esisterebbe fra quei monti un lago sacro ove risiederebbe la dea
Yamuna, che nessuno può vedere perché verrebbe arrestato prima di giungervi.
- Che cosa ne
dite di queste montagne? - chiese il capitano, mentre lo «Sparviero», che aveva
raggiunto un'altezza di cinquemilacinquecento metri, imboccava un vallone che
s'apriva da un fianco orientale del Dorkia.
- Mettono
spavento - disse Rokoff.
- Un panorama
meraviglioso, unico al mondo - rispose Fedoro. - Che cosa sono i nostri Urali
in confronto a questa catena? Delle semplici colline, meno ancora, dei
monticelli di terra.
- Farebbero
una meschina figura anche le Alpi, che pure sono annoverate come una meraviglia
dell'Europa - disse il capitano. - Questi colossi vincono tutti.
- E animali se
ne trovano qui? - chiese Rokoff.
- Qualche
orso. Quando però avremo raggiunto la falda boscosa, che ha una estensione
considerevole, non avrete a lamentarvi della selvaggina. Troveremo sciacalli,
tigri, elefanti, rinoceronti e orsi in maggior numero.
- Spero che
non lasceremo l'India senza aver almeno dato la caccia a qualche tigre - disse
Rokoff.
- Vi condurrò
più tardi in un luogo ove ne troverete quante vorrete - rispose il capitano. -
Probabilmente sarà là che noi ci lasceremo.
- Per sempre?
- chiesero a una voce Rokoff e Fedoro.
- Chi può
saperlo? - rispose il capitano. - Può darsi che un giorno noi possiamo di nuovo
vederci. Che cosa direste, per esempio, se io venissi a trovarvi a Odessa o fra
le steppe del Don? Sbrigate certe faccende che non vi posso spiegare, tornerò
libero e allora... guardate laggiù quella fortezza appollaiata come un'aquila,
su quel dirupo. È Pharò, l'ultima del Tibet; laggiù ecco il Tabilung, un bel
monte che separa questa regione dal piccolo Stato di Sikkim. Signori, stiamo
per entrare nell'India: il Butan non è che a due passi.
Lo «Sparviero»
era uscito da quell'immenso vallone aperto fra la catena e ora volava su un
caos di picchi e d'altipiani nevosi, mantenendosi sempre a un'altezza che
variava fra i cinque e i seimila metri. Avanzava sempre faticosamente in causa
dei venti che turbinavano su quei desolati altipiani con mille ruggiti e mille
sibili, fra le gole spaventevoli che si aprivano in tutte le direzioni, veri
baratri scavati dai fiumi di ghiaccio che scendevano dagli enormi ghiacciai
della catena e dalle acque che si vedevano precipitare dovunque, in gigantesche
cascate. Alle quattro del pomeriggio anche la piccola fortezza veniva lasciata
indietro, senza che il suo presidio si fosse accorto del passaggio del mostro
volante e mezz'ora dopo gli aeronauti varcavano la frontiera tibetana, entrando
nel Butan.
L'India
s'apriva dinanzi a loro coi suoi fiumi giganti, le sue sterminate foreste, le
sue giungle immense e le opulente città.
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