Fra le tante feste che gli
antichi egiziani avevano, certamente una delle più originali era quella dei
bevitori di vino di palma. Tutti gli anni, delle centinaia e centinaia di
uomini si radunavano sotto le foreste di palmizi per celebrare la festa
chiamata di Bast ed era obbligo assoluto che nessuno tornasse alle proprie case
se prima non era consumata interamente la provvista di vino di palma raccolto
durante l'annata. È probabile che gli antichi romani abbiano tratto da ciò i
loro famosi Saturnali, poiché in quelle feste del vino, permesse dai Faraoni,
non mancavano né suonatrici, né danzatrici, per esaltare maggiormente i
bevitori e renderli addirittura folli.
Ed infatti sulla riva, che la
luna illuminava in pieno, si scorgevano, confuse fra gli uomini, molte donne
che indossavano dei costumi splendidi e che tenevano in mano degli istrumenti
musicali. Anch'esse, che sembravano pure molto allegre, invitavano con alte
grida i naviganti a prendere parte all'orgia e vuotare delle coppe in onore di Bast.
Ata, dopo aver fatto esplorare il
banco erboso per accertarsi della sua resistenza, scese a sua volta,
accompagnato da Mirinri, da Ounis e da otto etiopi che portavano alla cintura
delle pesanti ascie e dei pugnali di rame dalla punta acutissima.
La traversata del sett la
compirono senza difficoltà, essendo quelle masse trattenute dai pali piantati
da coloro che avevano interesse a trattenere la barca e raggiunsero la sponda
fra le grida gioconde dei bevitori.
Vi erano due o trecento persone
fra uomini e danzatrici, che traballavano sulle malferme gambe.
Erano gli uomini per la maggior
parte pescatori o battellieri, che indossavano dei semplici grembiali di pelle
conciata, con qualche fascia variopinta gettata sulla testa o sulle spalle,
però non mancavano fra loro dei giovanotti di buona condizione, che indossavano
delle ricche kalasiris, con collari inamidati e che avevano parrucche
sul capo con lunghe trecce pendenti sulle tempie e delle barbe finte.
Spiccavano invece per ricchezza e
buon gusto dei costumi le suonatrici e le danzatrici, con splendide kalasiris
variopinte e leggere come veli, con fazzoletti di squisita manifattura
annodati intorno al capo, in modo però da lasciare in vista le loro
capigliature intrecciate bizzarramente; con fascie legate attorno alle anche
coi capi ricadenti fino a terra e coi loro monili di oro, le loro collane di
perle ed i loro grossi pendenti di forma rotonda e smaltati a più tinte.
Alcune avevano i seni coperti da
conche di rame con ghirigori in doratura, trattenuti da cordoncini che si
diramavano all'ingiro come i raggi del sole ed altre, invece del fazzoletto
triangolare, portavano sopra i capelli delle pittoresche acconciature, formate
da lamine d'oro trattenute sul dinanzi da una testa di uccello di rapina d'egual
metallo.
Erano poi tutte giovani e belle,
di forme slanciate, colla pelle bruno-dorata, al pari di
quella delle donne dell'Abissinia, reclutandosi per lo più nelle regioni
dell'alto Nilo.
Mentre gli uomini avevano
circondato Ata ed i suoi compagni, offrendo delle grandi tazze di terracotta e
delle anfore colme di vino, le suonatrici, che non erano meno allegre, avevano
formato circolo intorno ad un vaso di dimensioni mostruose, sormontato da un
lato da una figura umana che rappresentava Manerôs, l'inventore della musica
secondo gli antichi e che doveva essere colmo di vino di palma, soffiando entro
i loro istrumenti e pizzicando quelli a corda.
La musica era molto coltivata
sotto i Faraoni, quantunque l'applicassero per lo più alle feste religiose,
cosicché possedevano gli egizi un gran numero d'istrumenti. Per lo più erano
flauti, trombe di bronzo dorato, non così smisurate come quelle che figurano
nell'Aida, anzi cortissime; ma dal suono potente, di una grande varietà
di corni di bue, tagliati a becco presso l'imboccatura e che chiamavano
comunemente tan; parecchie specie di arpe, per lo più altissime e di
forme massiccie, delle trigone, dei sistri e anche certe specie di chitarre,
colla cassa piccola ed il manico invece lunghissimo.
Intanto le danzatrici
intrecciavano balli sulla riva del fiume, fra le risa, gli applausi e le urla
degli ubriachi.
Mirinri, Ata e Ounis, invitati
cortesemente a prendere parte alla festa, si erano seduti intorno ad una grossa
anfora messa a loro disposizione, sorseggiando il vino di palma che veniva
offerto da uno schiavo etiope.
Nessuno d'altronde aveva più
fatto attenzione a loro. Tutta quella gente allegra si era rovesciata addosso
alle danzatrici o raccolta intorno alle suonatrici.
«Osservi nulla di sospetto qui?»
chiese Ounis, rivolgendosi verso Ata che non pareva ancora rassicurato.
«Io non vedo altro che della
gente che ha un solo desiderio: quello di divertirsi e di ubbriacarsi,» disse
Mirinri.
«Eppure non sono ancora tranquillo,
mio signore,» rispose Ata, dopo un breve silenzio.
«Perché questi uomini hanno
scelto questo luogo per la loro festa, proprio qui dove ci hanno chiuso il
passaggio? Questo io vorrei spiegare.»
«Li ha radunati qui il caso,
suppongo,» disse Ounis.
Ata crollò il capo, poi riprese:
«Non vedo chiaro in tuttociò e
faremo bene ad allontanarci, non appena il canale sarà aperto. Finché non
saremo giunti a Menfi, non sarò mai tranquillo.»
«È non sarà invece maggiore là il
pericolo?» chiese Mirinri.
«Vi sono molti amici laggiù i
quali sono fedeli ed hanno preparato per te, mio signore, un rifugio sicuro ed
inviolabile. Beviamo e poi andiamocene. Noi abbiamo reso l'omaggio dovuto a
Bast, quindi non ci tratterranno, se è vero che questi uomini non si occupano
altro che di divertirsi.»
Vuotarono qualche tazza ancora,
poi si alzarono. Stavano per avviarsi verso la riva, quando delle grida di
donna, seguite tosto da urla feroci, li arrestarono di colpo.
Al di là del circolo formato
dalle danzatrici, degli uomini si agitavano imprecando, mentre una voce
femminile ripeteva con voce singhiozzante:
«Lasciatemi, vili!»
«La maliarda! La maliarda!» si
rispondeva da tutte le parti. «Confessa dove lo hanno acciecato! Vogliamo
sapere dov'è il tesoro!»
«Che cosa succede?» chiese
Mirinri, guardando Ata.
«Non lo so,» rispose questi.
Le grida della donna continuavano
a echeggiare, mentre gli ubriachi che parevano fossero diventati
improvvisamente furiosi, accorrevano da tutte le parti, imprecando e
minacciando.
Le danzatrici e le suonatrici,
spaventate, scappavano, abbandonando queste ultime i loro strumenti musicali
che venivano calpestati senza misericordia dai bevitori.
Ad un tratto, in mezzo a quel
tumulto che diventava spaventevole, si udì una voce tuonante a gridare:
«Acciechiamola e vendichiamo il
povero Nufer!»
«Sì, sì, bruciamole gli occhi!»
urlarono cento voci. «Arrossate un ferro! Ci dirà meglio la buona fortuna!»
«E c'indicherà dov'è il tesoro!»
riprese la voce di prima.
Udendo quelle parole, Mirinri
aveva fatto un balzo, strappando ad uno degli etiopi l'ascia di bronzo. Il suo
braccio vigoroso alzò l'arma pesantissima come se fosse un semplice fuscello e
prima che Ata ed Ounis avessero avuto il tempo di trattenerlo, si era scagliato
con impeto irresistibile fra gli ubriachi, tuonando:
«Fermi, miserabili! Fermi o vi
uccido tutti!»
«Mirinri!» aveva gridato Ounis.
Il giovane non udiva più la voce
dell'uomo che lo aveva allevato e che gli era come un secondo padre.
Colla sinistra rovesciava con
forza erculea i bevitori, mentre colla destra faceva volteggiare in aria
l'ascia minacciando di lasciarla cadere sulle teste di quei bruti.
Intanto in mezzo alla folla una
voce di donna, strillante, energica, gridava:
«Bacino di fuoco! Anima dei
boschi! Faro delle tenebre! Spirito della notte! Apri a me e maledici tutti
questi infami! Ampê, Miripê, Ma, Tehibo Wouwore, tutti v'invoco!
«Seguiamolo!» aveva detto
rapidamente Ata, rivolgendosi verso gli etiopi. «Mano alle armi e se oppongono
resistenza non risparmiate nessuno.»
«Un'arma!» chiese imperiosamente
Ounis. «Il mio braccio è ancora robusto.»
Ata si tolse dalla cintola uno
dei due pugnali di rame, dalla lama assai larga ed affilata e glielo porse.
«Venite!» comandò poi.
Mirinri s'apriva il passo fra la folla.
Pareva un ercole o meglio un leone furibondo.
«Largo!» tuonava senza posa.
«Guai a chi tocca quella donna!»
Gli etiopi si erano già slanciati
in suo aiuto. Quegli uomini, di forme robuste, dalla muscolatura potente,
dovevano avere facile ragione sui battellieri e sui pescatori egizi, che male
si reggevano sulle gambe dopo tanto vino bevuto.
Con una spinta formidabile
penetrarono come un cuneo in mezzo alla folla, che già, passato il primo
istante di stupore, cercava di rinserrare in mezzo il giovane e d'impedirgli di
raggiungere la fanciulla, che continuava ad invocare il toro delle tenebre, il
bacino di fuoco e tutte le divinità infernali in suo aiuto.
L'urto dei poderosi etiopi riuscì
finalmente a sgominare quell'orda ubbriaca ed a respingerla contro i palmizi
che circondavano lo spiazzo.
Mirinri poté così raggiungere la
donna, che era stata lasciata sola.
Era una bellissima giovane, di
forme splendide, con una lunga capigliatura nera, che portava sciolta sulle
spalle invece di tenerla raccolta od intrecciata come le donne del basso
Egitto, cogli occhi scintillanti d'un fuoco strano e penetranti come punte di
spade.
I suoi lineamenti erano d'una
purezza meravigliosa e la sua pelle aveva una tinta strana, paragonabile solo
al bronzo dorato, con delle indefinibili sfumature rossastre, del più
straordinario effetto.
Il petto era coperto da conche di
metallo dorato; ai fianchi invece aveva una larga fascia a varie tinte,
ricamata in argento, annodata dinanzi e coi capi cadenti fino al suolo. Al di
sotto portava una kalasiris corta, a righe bianche, rosse ed azzurre,
formata da tre pezzi con quello di mezzo terminante in una punta che scendevale
fino al ginocchio.
Le gambe invece erano nude,
adorne però di un gran numero di anelli d'oro squisitamente cesellati e con
grossi smeraldi incastonati.
Anche ai polsi aveva dei monili
ricchissimi e sul petto le cadeva una collana formata da turchesi che anche una
Faraona le avrebbe invidiata.
«Chi sei tu?» chiese Mirinri
colpito dall'affascinante bellezza di quella giovane e sopratutto dal fuoco
intenso che le brillava nelle pupille nerissime.
«Nefer la maliarda,» rispose la
giovane dardeggiando sul Faraone uno sguardo penetrante.
«Perché quei miserabili ti
volevano uccidere?»
«Perché io leggo il futuro e
volevano che additassi loro il tesoro del tempio di Kantapek.»
«Perché sei venuta qui?»
«Vado ove scintilla l'allegria.»
«Vuoi seguirmi?»
«Dove?»
«Sulla mia barca. Se rimani,
questi ubriachi ti uccideranno.»
Un rapido lampo brillò nelle
pupille profonde della maliarda e sul suo corpo parve passasse un fremito.
«Tu sei bello e valoroso,» disse
poi, «ed io amo i belli ed i forti. Ti devo la vita.»
«Mirinri, affrettati,» disse
Ounis. «Gli ubriachi ritornano e sono armati. Fuggiamo!»
Il giovane Faraone lanciò intorno
a sé uno sguardo corrucciato e strinse l'ascia come se si preparasse a tener
fronte alla bufera che lo minacciava, poi prese per mano la maliarda e la
trasse via, dicendo:
«Sulla mia barca nessuno più ti
minaccerà.»
L'orda degli ubriachi, rimessasi
dalla sorpresa, sbucava dietro i tronchi dei palmizi, urlando ferocemente:
«A morte gli stranieri!
Immoliamoli sull'altare di Bast!»
Non erano più inermi, come quando
bevevano e danzavano attorno ai vasi monumentali che racchiudevano il vino di palma.
Avevano archi, lancie, sbarre di bronzo per parare i colpi di spada,
somiglianti ai frangispada usati nel Medioevo, pugnali di rame ad un solo
taglio, simili alle seramasasce dei Merovingi, ascie di bronzo, poi
picche che terminavano verso la cima in una specie di falce e coltellacci
ricurvi dalla lama larghissima. Alcuni avevano persino indossate delle cotte di
grosso filo, cosparse di laminelle di metallo, sufficienti a ripararli dalle
frecce.
Resi arditi dal troppo vino
bevuto e anche dal numero, s'avanzavano audacemente, ululando come lupi
affamati ed imprecando, risoluti ad impedire ai naviganti di riattraversare il sett
e di mettersi in salvo sul veliero.
Ata, vedendo che stavano per
sbarrare il passo, trasse di sotto la fascia un sab, ossia una specie di
flauto obliquo e vi soffiò dentro con forza, traendo alcune note acutissime,
stridenti, che si potevano udite anche dall'altra parte del Nilo.
Tosto si videro gli etiopi, che
stavano tagliando le erbe galleggianti, interrompere il lavoro e balzare come
una legione di demoni attraverso quell'enorme agglomeramento di papiri e di
loti, facendo roteare al di sopra delle loro teste le pesanti ascie di bronzo.
«Presto,» gridò Ata. «Di corsa!»
Mirinri, tenendo sempre per mano
la maliarda, la quale d'altronde non sembrava affatto spaventata per la rabbia
feroce che si era impossessata degli ubriachi, con due colpi d'ascia atterrò
due uomini che gli avevano puntato contro due lancie, poi in pochi slanci
raggiunse la riva del fiume, mentre i quattro etiopi di scorta, Ounis e Ata
coprivano la ritirata, tenendo a distanza gli assalitori.
Il sacerdote specialmente,
quantunque vecchio, lottava con una gagliardia che destava stupore in tutti.
Pareva che in tutta la sua vita invece di far echeggiare il sistro nelle feste
religiose, non avesse fatto altro che maneggiare le armi.
Cogli occhi in fiamme, il viso
animato da una collera intensa, adoperava la pesante ascia meglio d'un
guerriero, ribattendo, con un'abilità straordinaria, i colpi che gli venivano
dati.
«Sàlvati, Mirinri!» gridava.
«Basto io per questa canaglia!»
Sarebbe stato però indubbiamente
oppresso, assieme ai suoi compagni, se i marinai del veliero non fossero giunti
in buon punto a toglierlo dalle strette degli ubriachi, che erano diventati più
furiosi che mai.
Quei colossi dell'alto Egitto,
temuti dagli stessi Faraoni, i quali dovevano molti secoli dopo provarne il
valore e cedere loro il trono, con una mossa fulminea coprirono Mirinri ed i
suoi compagni, scagliandosi poi addosso agli assalitori con formidabili urla
selvagge e massacrando senza misericordia i più vicini.
Le ascie, maneggiate da quegli
atleti, spaccavano alla lettera in due le persone che non erano leste a fuggire
o producevano delle ferite spaventevoli, da non lasciare alcuna speranza di
guarigione. Bastarono due cariche per respingere gli ubriachi verso i palmizi,
sotto le cui larghe foglie gridavano spaventate le suonatrici e le danzatrici.
Mirinri, vedendo che Ata ed Ounis
non correvano ormai più alcun pericolo, si slanciò sul sett, assieme
alla maliarda e, camminando con precauzione, onde non affondare improvvisamente
attraverso quelle masse di vegetali, arrivò felicemente sotto il piccolo
veliero.
Gli etiopi giungevano correndo,
spingendo innanzi a loro Ata e Ounis, poiché quegli ostinati ubbriaconi
tornavano alla riscossa, saettandoli con nembi di freccie e lanciando certe
corte lancie di rame, munite d'una punta aguzza, con un arpione da un lato.
«Tutti a bordo!» gridò Mirinri,
aiutando la fanciulla a issarsi sulla scala di canapa che pendeva lungo il
fianco della navicella.
Gli etiopi, che non erano più in
grado di far fronte agli assalitori, i quali pareva che fossero aumentati di
numero, non si fecero ripetere l'ordine. Aggrappandosi ai bordi ed ai cordami,
in un istante si trovarono radunati sulla coperta.
«Preparate la difesa,» disse Ata.
«Qui gli scudi e gli archi. Avremo da fare non poco a calmare quei furibondi.»
«Credi che ci assalgano?» chiese
Mirinri.
«Non ci lascieranno tranquilli,
mio signore,» rispose l'egiziano. «Hanno bevuto troppo ed il vino è salito ai
loro cervelli. Dovevi lasciare che uccidessero quella fanciulla che noi non
conosciamo. Tu hai commesso una imprudenza che forse pagheremo cara.»
«Se è vero che io sono un
Faraone, mio primo dovere è quello di soccorrere i deboli e di proteggere i
miei futuri sudditi,» rispose Mirinri con fierezza. «Mio padre, al mio posto,
avrebbe fatto altrettanto.»
«È vero,» disse Ounis. «Io ammiro
il tuo coraggio e la tua saggezza, Figlio del Sole. Giammai sono stato
orgoglioso di te come oggi. Un giorno hai strappato, dalle mascelle d'un
ingordo coccodrillo, una principessa; ora hai salvato una povera fanciulla a te
sconosciuta. Ecco la vera generosità d'un vero Faraone. Tu sarai grande come
tuo padre!»
«Ma quegli uomini possono spegnere
il futuro re dell'Egitto,»rispose Ata. «Siamo immobilizzati fra le erbe e
abbiamo dinanzi un nemico dieci volte più numeroso.»
«Mio padre non ha contato le orde
caldee quando le ha rigettate nel mar Rosso,» disse Mirinri. «Io, che ho nelle
mie vene il sangue del grande guerriero, non conterò costoro. Uno scudo ed una
spada! Presto, etiopi: ecco il nemico!»
Gli ubriachi, che parevano in
preda ad un vero delirio battagliero, si erano già gettati sul sett, incoraggiandosi
con clamori che non avevano più nulla di umano ed agitando forsennatamente le
armi.
Si erano improvvisamente
trasformati in guerrieri perché la maggior parte di essi eransi muniti di
grandi scudi di varie forme, alcuni quadrati, altri ovali con pitture azzurre,
ed altri ancora assai allungati e dentellati nelle parti inferiori e superiori;
per di più quasi tutti avevano riparato il capo con una specie di berretto di
cuoio, che aveva due intagli, per lasciar libere le orecchie.
Gli etiopi, che non parevano
affatto spaventati, essendo quelle genti dell'Alto Nilo d'un coraggio a tutta
prova, avevano portato sul ponte fasci d'armi e sopratutto molti archi, alcuni
con una sola curva ed altri a due, con in mezzo un pezzo di legno per
proteggere le dita dallo scatto della corda, e si erano allineati dietro ai
bordi, colle faretre piene di freccie dalla punta larga e mobile.
I bevitori si erano arrestati
sulla riva del Nilo, come se fossero indecisi sul da farsi o cercassero di
rendersi un conto esatto delle forze di cui disponeva il veliero, prima di
tentare un attacco.
«Che non si decidano dunque?»
chiese Mirinri, che pareva impaziente di provare l'emozione d'una formidabile
lotta.
«Aspetteranno che i loro cervelli
si snebbino un poco,» rispose Ata.
«Se ne approfittassimo intanto per
aprire il canale?» chiese Ounis.
«Manca molto a raggiungere le
acque libere?» domandò Ata, volgendosi verso gli etiopi.
«In un'ora di lavoro si potrebbe
attraversare la massa erbosa che ancora ci separa,» rispose uno degli etiopi.
«Che quindici uomini scendano.
Gli altri rimangano a bordo per difenderli,» disse Mirinri. «Affondati fra le
erbe non correranno molto pericolo.»
«Obbedite a questo giovane che è
il comandante,» disse Ata ai battellieri.
Mentre l'ordine veniva eseguito,
parecchi bevitori si erano gettati sul sett, coprendosi coi loro grandi
scudi di cuoio e lanciando qualche freccia, per accertarsi della forza dei loro
archi.
Giunti a duecento passi dal
veliero si arrestarono, affondando le gambe nella massa erbosa, poi uno di loro
gridò con voce poderosa:
«Che gli stranieri dell'Alto Nilo
m'ascoltino, prima che il sangue arrossi le acque.»
«Parla,» disse Mirinri, che per
precauzione si teneva lo scudo dinanzi al petto, temendo di ricevere qualche
volata di dardi.
«V'intimiamo di renderci la maliarda,
avendo ormai giurato di sacrificarla sull'altare di Bast, onde il suo sangue
renda più abbondante e più generoso il vino che noi berremo l'anno venturo.»
«Quando un principe etiope prende
sotto la propria protezione una persona, la difende e non la darebbe nemmeno ad
un Faraone,» rispose Mirinri. «Tali sono i nostri usi.»
«Allora prendi il suo posto. Solo
a questo patto vi lasceremo scendere il Nilo.»
«Tu non sei altro che un
miserabile ubbriacone, a cui il vino ha offuscato il cervello. Né io, né la
maliarda, né nessuno dei miei uomini servirà di sacrificio in onore di Bast,»
rispose Mirinri. «Venite: vi aspettiamo e vi faremo provare la tempra delle
armi etiopi e la robustezza dei nostri muscoli.»
Un clamore assordante coprì le
sue ultime parole e l'orda dei bevitori si precipitò sul sett, agitando
forsennatamente le armi.
Mirinri si volse e guardò la
maliarda.
La giovane stava ritta contro
l'albero maestro, fredda, impassibile, con una mano stretta attorno ad una corda.
Solamente, i suoi occhi ardevano e scintillavano come quelli d'un animale
notturno, fra le tenebre che avvolgevano il piccolo veliero, essendo la luna
allora tramontata.
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