Mentre il legno costeggiava la
sponda, dondolandosi leggermente, spinto da una fresca brezza che soffiava dal
sud e che gonfiava le sue enormi vele, Mirinri, che non sentiva ancora alcun
desiderio di riposarsi, dopo tante emozioni, si era seduto sul casseretto di
poppa, abbandonandosi alle sue fantasticherie. Pensava ai begli occhi della
giovane Faraona, che aveva salvato dalle acque di quel fiume e che per tante
notti aveva turbato i suoi sonni ed i suoi sogni, od alle future grandezze
verso le quali muoveva, con animo deciso, pronto a tutto, pur di conquistarle?
Forse solo la maliarda che si era coricata a breve distanza da lui, su un
tappeto di fibre di papiro intrecciate e lo scrutava attentamente, con uno
sguardo intenso, magnetico, avrebbe potuto dirlo.
Raggomitolata quasi su se stessa
come una serpe, colle nude braccia puntate sul tappeto e che di quando in
quando provavano come un fremito che faceva tintinnare i numerosi braccialetti
d'oro, la testa bellissima alzata, come una leonessa in agguato che cerca
sorprendere il minimo rumore che le indica la presenza d'una preda o d'un
nemico, seguiva le diverse impressioni che si manifestavano sul viso del
giovane Faraone.
Di quando in quando un sussulto
scuoteva il suo corpo, facendo ondeggiare la leggerissima kalasiris e sulla
fronte passava come un'ombra. Mirinri, immerso nei suoi pensieri, pareva che
non si fosse nemmeno accorto della vicinanza della maliarda. Tuttavia sia che
lo sguardo di quella fanciulla gli penetrasse fino nell'anima od altro, di
quando in quando involontariamente girava lentamente la testa verso di lei e
faceva un gesto come per allontanare qualche ombra che gli appariva dinanzi.
La barca intanto scendeva
lentamente il Nilo; le vele sbattevano sotto i colpi irregolari della brezza
notturna, i lunghi pennoni scricchiolavano, urtando contro gli alberi e le
corde davano dei suoni strani. Qualche ibis, che sonnecchiava fra i papiri o
sulle larghe foglie del loto, fuggiva, rasentando le acque, mandando un grido
di spavento e scompariva fra le palme che proiettavano sulla riva delle cupe
ombre.
Nessuno a bordo parlava. Gli
etiopi, appoggiati alle murate, scrutavano attentamente le tenebre. Ounis e
Ata, seduti a prora, guardavano dinanzi a loro, senza scambiarsi una parola. Il
primo teneva gli occhi fissi sulla cometa che stava per scomparire dietro i
grandi alberi, il secondo osservava le acque.
Ad un tratto Mirinri si scosse e
parve che solo allora s'accorgesse della presenza di Nefer.
«Che fai qui, fanciulla?» le
chiese. «Perché non vai a riposarti?»
«Non dorme il Figlio del Sole,»
rispose la maliarda, con voce così dolce che sembrò al giovane Faraone come una
musica lontana.
«Io sono un uomo già abituato
alle lunghe veglie del deserto,» rispose Mirinri.
«Ed io devo aspettare la comparsa
del sole per predirti la buona o cattiva ventura, mio signore.»
«Ah! Me n'ero già scordato,»
disse il giovane, sorridendo. «La statua di Memnone suonò quando la interrogai;
il fiore della risurrezione di Osiride dischiuse le sue corolle quando lo
bagnai. Quale sarà la tua profezia? Buona o cattiva?»
«Il primo raggio di sole lo
dirà,» rispose Nefer. «È lui che deve ispirarmi.»
Mirinri stette un momento
silenzioso, poi riprese:
«Ah! Tu devi ancora dirci chi
sei, da dove vieni e perché i devoti di Bast volevano acciecarti. Quale
sinistra istoria ti avvolge?»
La maliarda lo guardò senza
rispondere, con una certa angoscia, che non isfuggì al giovane Faraone.
«E noi,» proseguì Mirinri, «non
sappiamo ancora se tu ci sei nemica od amica.»
«Io tua nemica!» esclamò Nefer,
con dolore. «Nemica di te, mio signore, che mi hai strappata dalle mani di quei
miserabili?»
Si alzò, guardando dapprima le
stelle, poi le placide acque del Nilo sussurranti lievemente fra le radici e le
foglie del loto bianco e roseo, poi, tendendo la destra verso il sud, con un
gesto tragico disse:
«Sono nata laggiù, nella Nubia
nera, dove i grandi fiumi portano il loro tributo alle acque del maestoso Nilo.
Mio padre non era di stirpe divina come te, mio signore, nondimeno era un gran
capo e mia madre era una sacerdotessa del tempio di Kintar. La mia giovinezza
si perde nelle nebbie del sacro fiume. Mi ricordo vagamente di vasti palazzi
scintillanti d'oro; di templi immensi; di obelischi tanto alti che quando
l'uragano infuriava pareva che toccassero le nubi; di guerrieri neri come
l'ebano, armati di scuri di pietra e d'archi, che obbedivano a mio padre come
se fossero schiavi. Mi pare che io fossi felice. Bambina, nuotavo nel gran
fiume o solcavo le sue acque su barche dorate. Delle donne suonavano presso di
me non so quali istrumenti e mi servivano in ginocchio. Un triste giorno tutto
scomparve: popolo, padre, guerrieri, grandezza, potenza. Una valanga d'uomini
giunta dal Basso Egitto passò come una tromba devastatrice sul mio paese e
tutto disperse. Erano gli egizi del delta che invadevano la Nubia: erano i
guerrieri di Pepi, l'usurpatore».
«L'usurpatore!» esclamò Mirinri.
«Che cosa ne sai tu?»
«Tutto il Basso e Alto Egitto
parla di quell'uomo e si sussurra che il figlio di Teti è stato rapito da una
mano amica per paura che Pepi lo uccidesse e che è vivo.»
«Ah!» fece il giovane Faraone.
«Continua, Nefer.»
«Mio padre fu ucciso alla testa
dei suoi guerrieri, mentre difendeva disperatamente il suo territorio contro
forze dieci volte superiori ed il suo corpo, crivellato di ferite, fu gettato
in pasto ai voraci coccodrilli del Nilo. Il suo popolo fu disperso, le sue
borgate incendiate, le donne ed i fanciulli tratti in schiavitù a Menfi.»
«Anche tu?»
«Sì, mio signore, ma appena mia
madre, oppressa dalle fatiche immani che le faceva subire il suo crudele
padrone si spense, io fuggii su una barca che risaliva il Nilo e vissi
predicando la ventura o suonando nelle feste il ban-it (l'arpa).»
«Ciò però non mi spiega il motivo
per cui ti volevano acciecare,» disse Ounis, che si era silenziosamente
accostato e che aveva udite le ultime parole della fanciulla.
«Volevano far subire anche a me
il crudele trattamento inflitto al primo uomo che amai,» disse Nefer.
«Chi era costui?» chiese Mirinri.
«Il padrone della barca che mi
aiutò a fuggire,» rispose la maliarda, con un sospiro. «Era un giovane leale e
coraggioso, che mi aveva amata ardentemente, ma mi sembrava troppo povero per
me, che discendo da una casta elevata. Mi era fissa in testa di valermi di
quello sventurato per riconquistare il paese strappato a mio padre. Fu una sera
che andai a trovarlo sulla riva del Nilo, per metterlo a parte dei miei
progetti. Egli mi aveva parlato sovente d'un tempio meraviglioso, che sorgeva
nel mezzo d'una foltissima foresta che copriva una grande isola del fiume e che
si diceva contenesse dei tesori incalcolabili, accumulati dagli antichi re
nubiani. Avevo contato appunto su quelle ricchezze favolose per armare degli
schiavi e assoldare dei guerrieri onde mi aiutassero a scacciare gli egizi che
spadroneggiavano sulle terre che m'appartenevano. Avevo però udito raccontare
che di tutti coloro che si erano avventurati su quell'isola per scoprire quel
tempio, più nessuno era ritornato. Erano stati divorati dalle belve che
infestavano quella cupa foresta o vi erano dei guardiani che vegliavano sulle
ricchezze degli antichi re nubiani? Fino allora nessuno aveva potuto dir nulla.
Invasa adunque dal desiderio d'impadronirmi di quei tesori, esposi al mio
fidanzato le mie intenzioni.
«Era solo sulla barca quella
sera, avendo mandato a terra tutti i suoi uomini. Come al solito era tetro e
pensieroso, perché si struggeva d'amore per me e guardava distrattamente il
sole morente che lanciava i suoi ultimi raggi obliquamente, come una pioggia
d'oro, sulle acque limacciose del fiume. Gli esposi il mio progetto,
dichiarandogli nettamente che non mi avrebbe sposata se non sulle terre di mio
padre sgombre dagli egizi o mai. Egli mi ascoltò in silenzio, poi, quand'io
ebbi finito, s'alzò, dicendomi con voce recisa: - La tua volontà sarà fatta; io
andrò ad impossessarmi del tesoro dei re nubiani e con quell'oro armerò un
esercito. Addio Nefer, luce dei miei occhi. Se, entro otto giorni, non mi
vedrai ritornare qui, vuol dire che la dea della morte mi avrà toccato colle
sue nere ali e sarai libera di sceglierti un altro uomo. -
«Strappai dalla riva una foglia
di loto e gliela porsi dicendogli: - Prendila e serbala come un mio ricordo. Io
l'ho baciata, io l'ho posata sul mio cuore: essa ti darà coraggio. -
«L'indomani il mio fidanzato
approdava sulle sponde dell'isola misteriosa. Attraversò la folta foresta senza
scorgere nessuno, né uomini né animali e giunse ben presto dinanzi ad un vasto
tempio la cui porta era aperta. Non ebbe nemmeno un attimo di esitazione. Entrò
in una sala immensa pavimentata a piastrelle bianche e nere, che portavano
incise delle foglie di loto e degli ibis colle ali spiegate. Una semi oscurità
regnava là dentro e da fessure invisibili sfuggivano delle nuvolette di fumo
fortemente impregnate d'un profumo acutissimo.»
«Ma come conosci tu questi
particolari?» chiese Ounis, che ascoltava con vivo interesse quella strana
istoria.
«Li appresi dal mio fidanzato
durante i suoi brevi istanti di lucidità,» rispose Nefer.
«Dunque non fu ucciso?» disse
Mirinri.
«Aspetta ed ascoltami, mio
signore.»
«Continua dunque.»
«Il mio fidanzato esaminò le
pareti, non avendo veduta alcuna porta in nessun luogo e scoprì finalmente una
lastra di marmo nero su cui era inciso un fiore di loto. Istintivamente posò un
dito su quel fiore e la pietra girò subito su se stessa lasciando vedere uno
stretto corridoio alla cui estremità brillava una luce vivissima. Egli era un
uomo d'un coraggio a tutta prova e poi il pensiero di poter realizzare la
promessa fattami, lo spingeva a qualunque rischio.
«Entrò dunque nel corridoio e
sbucò in un'altra sala, contornata da una triplice fila di colonne che si
perdevano in una oscurità misteriosa.
«Nel centro invece, una luce
verdastra scaturiva dalle pietre che formavano il suolo, permettendo al mio
fidanzato di scorgere dei grandi vasi di bronzo, ricolmi fino alla bocca di
oro, di smeraldi, di rubini, di zaffiri e di turchesi. Ad una estremità, su un
largo gradino, vi erano due sfingi che sembravano d'oro massiccio e che avevano
gli occhi formati da grossi rubini. Il mio fidanzato si era fermato, non osando
immergere le sue mani in quei vasi, ma poi, come spinto da una forza
misteriosa, salì il gradino e passò fra i due leoni. Una tenda pareva che
nascondesse qualche altra meraviglia. L'alzò colle mani tremanti ed un grido di
stupore, d'ammirazione e nell'istesso tempo di timore gli sfuggì dalle labbra.
Presso un gran bacino d'argento, nel cui centro scintillava una fiamma rossa,
era sorta improvvisamente una giovane donna d'una bellezza meravigliosa. Un
leggero velo, costellato di zaffiri e di smeraldi, copriva il suo corpo fine e
flessibile, le sue braccia erano cerchiate di pesanti braccialetti e la sua
fronte, ricca d'una capigliatura nera come l'ebano, era adorna d'uno smeraldo
d'uno splendore e d'una grossezza incredibile».
Nefer si era arrestata. La sua
destra si portò, come involontariamente, sulla fronte e alzò i capelli che le
cadevano fino quasi sugli occhi.
Ounis e Mirinri, che la
guardavano attentamente, videro scaturire al di sotto dei capelli come un lampo
verdastro.
Lo proiettava una grossa pietra,
forse uno smeraldo simile a quello che portava la giovane misteriosa che era
comparsa presso il bacino d'argento, nel cui centro fiammeggiava la lingua di
fuoco rosso.
Nefer che si era forse accorta
della loro sorpresa, non lasciò loro tempo di rivolgerle alcuna domanda.
«Il mio fidanzato,» continuò,
«cogli occhi pieni di quella visione meravigliosa che oltrepassava in splendore
tutto quanto aveva potuto sognare, si era lasciato cadere lentamente sulle
ginocchia, tenendo le mani verso l'apparizione radiosa ed immobile, che lo
fissava con uno sguardo penetrante come la punta di una spada. In quel momento
egli si era scordato di me ed i suoi giuramenti d'amore si erano dileguati.
Egli non mirava più le immense ricchezze, che dovevano servire a liberare le
terre di mio padre dai guerrieri di Pepi; quella donna era il tesoro
impareggiabile, che valeva mille volte tutto ciò che era racchiuso nei vasi.
«Era appena caduto in ginocchio
dinanzi a quell'apparizione divina, quando sentì una mano posarglisi su una
spalla. Presso di lui, otto sacerdoti, racchiusi in lunghe e candide vesti, coi
volti coperti da lunghe barbe bianche, stavano rigidi, implacabili. Uno di
essi, colui che l'aveva toccato, gli disse, curvandolo al suolo con forza
sovrumana: - Tu hai voluto vedere e tu hai veduto. Quale desideri di tutti i
tesori racchiusi in questo tempio? È l'oro il padrone del mondo o sono le
pietre preziose rutilanti di luce, dagli splendori abbaglianti che acciecano le
fanciulle? Parla e scegli!
«Perduto nella sua
contemplazione, il mio fidanzato tese le mani verso la donna bellissima, che
stava sempre fitta dinanzi al gran bacino d'argento, illuminata dai rossi
riflessi della fiamma: - Lei è il tesoro che io desidero! - esclamò il
disgraziato, - Nefer è nulla in confronto a lei e l'ho già scordata. Regina di
beltà, i miei occhi non vedranno d'ora innanzi che te, divinità scesa sulla
terra. Io non desidero né pietre preziose, né quell'oro che è la leva del
mondo; chiedo solo che mi sia permesso di contemplare di continuo la tua
raggiante bellezza, o fanciulla divina. Preferirei di non più vedere la luce
del giorno, piuttosto che cessare d'ammirarti.
«La giovane fece un gesto, poi
disse: - Che sia fatta la tua volontà. La tua risposta ti salva l'esistenza,
poiché tu hai scelto la mia bellezza, perfezione eterna, alle immense ricchezze
accumulate in questo tempio, da secoli e secoli dagli antichi sovrani dell'Alto
Nilo. Ma tu non ignori che coloro che vollero vedermi non ritornano, a meno che
non siano Figli del Sole, dei Faraoni. Più fortunato di costoro, tu rientrerai
nel mondo, ma non potrai vedere altre meraviglie, né narrare a chicchessia
quello che hai veduto. Va', ammira prima bene, riempi i tuoi occhi della mia
bellezza divina, poi rientra nell'oscurità fino al giorno della tua morte.
«Il mio fidanzato, sempre
inginocchiato dinanzi alla radiosa visione, pareva che non l'ascoltasse. Tutta
la sua vita era concentrata nei suoi occhi, che teneva fissi su quella
meravigliosa bellezza.
«Ad un tratto un urlo atroce gli
irruppe dal petto. Uno dei sacerdoti gli aveva toccate le pupille con un
bidente di bronzo arroventato, dicendogli poscia, con voce ironica: - Nella
notte che d'ora innanzi ti avvolgerà tu avrai sempre presente la visione
superba della beltà eterna che tu sapesti apprezzare meglio dei tesori
racchiusi in questo tempio degli antichi re nubiani e, fino alla morte, avrai
per te solo l'immagine divina di quella che hai contemplato ed il suo ricordo
farà battere per sempre il tuo cuore.
«Che cosa accadde poi? Io non te
lo saprei dire, mio signore,» proseguì la maliarda. «Alcuni giorni dopo, il mio
fidanzato fu raccolto, da un suo amico che passava per caso presso l'isola
maledetta colla sua barca, mentre errava sulla sponda. Egli era cieco e pazzo e
non parlava che della divina visione del tempio misterioso. Ecco il perché gli
adoratori di Bast volevano far subire anche a me la pena dell'acciecamento, per
vendicare il mio compagno».
«È vivo ancora quel disgraziato?»
chiese Ounis.
«No,» rispose la maliarda, «un
giorno credendo di udire la voce della divina visione sorgere dalle acque del
Nilo, si precipitò nel fiume ed i coccodrilli lo divorarono.»
Ounis fece un gesto di collera.
«Che cos'hai?» chiese Mirinri, a
cui non era sfuggito quell'atto.
«Io molti anni or sono ho udito
parlare di quel tempio meraviglioso. Era l'epoca in cui le legioni caldee irrompevano
sul nostro paese e lo stato si trovava sprovvisto di denaro per armare nuovi
eserciti. Un uomo, che forse sapeva dove trovavasi quell'isola e che
probabilmente non ignorava che fra quei boschi si celava il tesoro degli
antichi re nubiani, propose a tuo padre di mandare della gente fidata ad
impadronirsi di quelle ricchezze. Le vicende della guerra impedirono a Teti di
occuparsi di quell'impresa e più mai se ne parlò. Forse tuo padre non credeva a
quell'istoria.»
«E chi fu a parlarne?» chiese Mirinri.
«Pepi, l'usurpatore.»
«Mio zio?»
«Sì, lui stesso. Se si potesse
sapere dove si trovano quelle ricchezze, sarebbero per noi d'immensa utilità
pei nostri futuri progetti. L'oro è il nerbo della guerra e quello che
possediamo non potrebbe forse bastare per colpire a morte le forze di
quell'uomo.»
Udendo quelle parole un lampo
brillò nelle pupille nerissime della maliarda. Guardò Ounis, poi Mirinri, che
appariva pensieroso, preoccupato, poi disse:
«Ma io so dove si trova
quell'isola,» disse.
«Tu?» esclamarono ad una voce
Mirinri ed il vecchio sacerdote.
«Sì, il mio fidanzato me lo ha
detto.»
«È lontana?» chiese Ounis.
«Meno di quello che tu credi,
sacerdote.»
«Ne sei ben certa?»
«Saprei condurti anche cogli
occhi bendati, perché dopo la pazzia del mio fidanzato, mi ci sono recata colla
speranza d'impadronirmi di quel tesoro. Vuoi venire?»
«Sai tu innanzi a tutto chi abita
quel tempio?» chiese Mirinri.
Nefer, invece di rispondere, si
alzò di scatto, guardando verso oriente. Le tenebre erano scomparse, le stelle
stavano per dileguarsi sotto la brusca invasione della luce e l'astro radioso
stava per comparire.
«Il sole, la grande anima
d'Osiride!» esclamò. «È il momento della profezia. Dammi la tua fronte, figlio
della luce eterna, che mai si oscura, né di giorno, né di notte e che scintilla
sempre nelle profondità del cielo.»
Mirinri si era pure alzato,
sorridendo sardonicamente.
«Ecco la mia testa,» disse. «Che
cosa vuoi cavare dal mio cervello?
«Voglio leggere il tuo destino,»
disse Nefer.
«Provati.»
La maliarda guardò il sole, che
cominciava allora ad apparire al di sopra dei palmizi che coprivano la riva del
maestoso fiume. Pareva che i suoi occhi non soffrissero per l'intensa luce che
si rifletteva sulle acque del Nilo.
«Sèb,» gridò con voce stridula,
«tu che rappresenti la terra nostra! Nout che rappresenti le tenebre! Nou che
sei l'emblema delle acque! Neftys che proteggi i morti! Râ, che sei il disco
solare, Api che rappresenti il Nilo e tu, grande Osiride che nel tuo cuore
batte l'anima del sole, ispiratemi! Toth, il dio che ha la testa dell'ibis,
l'uccello sacro, che è l'inventore di tutte le scienze; Logas che rappresenti
la ragione e che aiuti coi tuoi consigli e che sei la forza creatrice, datemi
la forza di predire il destino a questo giovane Faraone!
Nefer fissava il sole cogli occhi
aperti, come se i raggi non le offendessero le pupille ed era invasa da un
forte fremito. Sussultavano tutte le sue membra ed i suoi fianchi dalla curva
elegante e pareva che perfino i suoi lunghi capelli neri provassero delle
strane vibrazioni. Stette parecchi istanti ritta, in una posa superba in faccia
all'astro diurno che sorgeva sfolgorante ad di sopra dei palmizi, tutta avvolta
nella luce dorata. Ad un tratto si portò le mani agli occhi e se li nascose.
«Vedo,» disse con voce fremente,
«un giovane Faraone che atterra un re ed un vecchio che gl'impone di ucciderlo.
Vedo una fanciulla, bella come un sole quando lambe, sul tramonto, l'orizzonte
e lancia i suoi ultimi raggi sulle acque del Nilo. Vi è una nebbia dinanzi a
me. Quali misteri nasconde? Oh velo impenetrabile, sciogliti! No, è sempre
denso, sempre denso! Perché non lo posso lacerare? La mia potenza di maliarda,
figlia d'una grande maliarda nubiana, mancherebbe in questo momento? Il giovane
Faraone sale alto, alto, vittorioso su tutto e su tutti! Ah! La cattiva stella!
Sarà fatale a qualcuno! Vedo una fanciulla che piange e le sue lagrime si
cambiano in sangue... Osiride! Grande Osiride, lascia che io veda il suo viso!
È una fanciulla che muore... dal suo petto squarciato vedo cadere una pioggia
rossa... il Faraone sarà fatale a qualcuna... tutto è finito!».
Nefer, come se le forze
l'avessero improvvisamente abbandonata, vacillò, poi cadde fra le braccia di
Mirinri che gli stava dietro.
A quel contatto, il corpo della
maliarda sussultò tutto, come se avesse ricevuto una scarica elettrica e anche
quello del giovane Faraone ebbe un fremito.
Ounis, che assisteva alla scena,
corrugò la fronte, ma fu un lampo.
«Meglio che sia la maliarda della
Nubia che bruci il cuore di Mirinri, piuttosto che la Faraona,» mormorò.
«Chissà che cosa serba il destino?»
Con un gesto chiamò alcuni
etiopi.
«Portate questa fanciulla in una
cabina,» disse. «Ha bisogno di riposarsi.»
I battellieri sollevarono Nefer, che
pareva assopita e la portarono nel casotto di poppa.
«Che cosa ne pensi tu della
profezia di quella fanciulla?» chiese il sacerdote, volgendosi verso Mirinri
che pareva fosse ricaduto nelle sue meditazioni.
«Non so» rispose il giovane, «se
debbo crederle.»
«Che cosa dice il tuo cuore?»
Mirinri stette un momento
esitante, poi rispose:
«Il sogno sarebbe troppo bello.
Potenza e gloria! Mi sembra troppo.»
«Credi di essere veramente un
Figlio del Sole? Suonò la pietra di Memnone; schiuse le sue corolle il fiore
eterno d'Osiride; parlò la maliarda.»
«Sì, non ho alcun dubbio d'aver
nelle vene il sangue del vincitore delle legioni Caldee... Ma chi sarà quella
fanciulla a cui sarò fatale? La prima donna che io ho veduta e che ho strappata
alla morte?»
«La pensi sempre dunque?»
«Sì, sempre,» rispose Mirinri con
un sospiro. «Quella fanciulla che pur discende al pari di me dal sole, m'ha
stregato.»
«Una nemica!»
«Chi lo sa?»
«Che tu dovresti odiare.»
«Taci, Ounis. Il destino mio non
ha forse ancora scritto l'ultimo papiro.»
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