CAPITOLO SECONDO: IL VELENO DEL
BIS COBRA.
Sparavano gli
sikkari, freddamente, da vecchi cacciatori, lanciando le loro palle coniche in
tutte le direzioni, poiché l'attacco era diventato avvolgente, ma i terribili
animali invasati dal demonio della vendetta, non avevano interrotto il loro
spaventoso attacco. Tre volte passarono a corsa sfrenata intorno al carro,
lasciandosi sempre dietro dei morti o dei moribondi, poiché Yanez e Kammamuri,
vecchi cacciatori, non mancavano mai ai loro colpi. Erano ancora in quaranta, e
forse anche più, e tutti di mole enorme. Il loro urto fu così formidabile che
il carro, malgrado il suo peso, e quantunque avesse le
alte ruote affondate nel molle terreno della foresta, indietreggiò con un rombo
spaventevole. Per un momento Yanez ed i suoi compagni provarono la sensazione
di una violentissima scossa di terremoto e temettero che tutto andasse all'aria ma le grosse travi, bene unite da arpioni di ferro,
tennero fermo. I bufali, sempre più rabbiosi, si accanivano raddoppiando le
cariche con una violenza forse mai veduta. Alcuni si erano spezzate le corna,
altri erano rimasti come appesi ed erano stati subito
finiti colle lunghe pistole indiane, armi magnifiche che valgono meglio di
tutte le rivoltelle del nuovo e del vecchio mondo.
I colpi si susseguivano ai colpi,
i lampi ai lampi, il fumo al fumo. Due sikkari ricaricavano senza posa le armi
che passavano poi a Yanez ed ai suoi compagni, i quali conservavano un
meraviglioso sangue freddo, quantunque il grosso carro subisse un vero rollio,
come se fosse diventato una nave perduta entro qualche grande tempesta. Già
dieci o dodici bufali giacevano al suolo, alcuni fulminati, altri gravemente
feriti da quelle palle rivestite di rame, quando un barrito formidabile
echeggiò sul margine della radura.
«Per Giove!...»
esclamò Yanez, fulminando con una pistolettata un
vecchio toro che aveva piantate le sue corna così profondamente entro le travi,
da non potersi più ritrarre. «È diventato pazzo quel bestione? O le sue budella
gli pesano dentro il gran ventre? Che cosa fa il cornac? Per Giove!... Non ce la caveremo più se anche l'elefante si fa
sventrare. Chi tirerà questa fortezza fino alla capitale?»
Parlava, ma sparava, adoperando
ora le grosse carabine da caccia ed ora le pistole, malmenando orribilmente i
testardi delle jungle.
«No, signor Yanez» disse
Kammamuri, alzando la carabina fumante colla quale aveva atterrato un altro
bufalo. «Sahur per la seconda volta accorre in nostro aiuto. Ah!... Quanta intelligenza hanno i nostri elefanti!...
Guardate: il cornac lo guida come se fosse un agnellino».
Sahur usciva in quel momento
dalla macchia, però non pareva affatto che fosse un agnellino. Caricava anche
lui, colla tromba in aria, le zanne tese, lanciando una vera fanfara di guerra.
Il suo cornac, ormai
completamente tranquillo sulle intenzioni del colosso, non faceva nemmeno uso
dell'arpione. Lo eccitava invece con dolci parole, chiamandolo forte dei forti,
sterminatore di tutte le tigri, potente dei potenti. Il bravo elefante,
sensibile a quelle lodi, conscio d'altronde della propria forza, rovinò a sua
volta in mezzo ai bufali menando terribili colpi di proboscide.
Parevano cannonate. I bufali
cadevano coi crani sfracellati o colle costole ed i polmoni sfondati.
Lavoravano le carabine e le pistole, ma lavorava meglio il bravo e coraggioso
elefante.
Agile, malgrado
le sue forme massiccie, sfuggiva agli assalti fulminei dei bufali, che riceveva
o sulla sua potente proboscide o sulle sue zanne. Il cornac lo eccitava sempre.
«Va', figlio di Visnù!... Va', terrore delle jungle!... Stermina, distruggi per
la salvezza dei tuoi padroni!...»
E l'elefante alle cariche dei
bufali rispondeva con altrettante cariche, gettandone sempre in
aria parecchi, che poi calpestava rabbiosamente sotto le larghe zampe,
facendo crocchiare le ossa.
«Fulmini di Giove!...» esclamò Yanez, che aveva
appena allora sparato due colpi di pistola. «Questo elefante è veramente
meraviglioso!... Sotto, Sahur!...»
Il pachiderma, come se avesse
conosciuta la voce del suo signore, si scagliò proprio in mezzo ai bufali che
si accanivano intorno al carro, senza grande successo, menando la tromba con
vigore estremo. Fracassava costole, spezzava gobbe, sfondava teste, servendosi
anche, di quando in quando delle sue lunghissime ben affilate zanne per
inchiodare al suolo qualche avversario che minacciava di piantargli le corna
nel ventre.
«Forza, Sahur!...»
gridava il cornac, tenendosi dietro le enormi orecchie
del bestione. «Uccidi! Distruggi come Brahma, Siva e Visnù!...
Guàrdati dalle corna, mio piccolo pavone, e nient'altro!...»
L'elefante, incoraggiato anche
dalle grida degli sikkari che ben conosceva, ed inebriato un po' dall'odor della
polvere, poiché il fuoco continuava dal carro, facendo dei grandi vuoti fra gli
assalitori, aumentava la sua collera.
Caricava e ricaricava alla
disperata, menando sempre la proboscide, la quale cadeva sulle robuste spalle
dei bufali col fragore di tanti colpi di spingarda. Più che decimati dal fuoco
delle carabine e delle lunghe pistole e dai colpi di tromba, i testardi figli
delle umide jungle, dopo d'aver tentato ancora una carica disperata, volsero le
groppe e fuggirono rientrando nella foresta. Quindici o sedici di loro erano
rimasti sul terreno. Tre o quattro altri stavano spirando, muggendo
disperatamente e tirando calci.
«Finalmente!...»
esclamò Yanez, dopo d'aver sparato un ultimo colpo di
carabina sulla banda fuggente ed ormai completamente disorganizzata. «Abbiamo
consumato delle belle munizioni per dare da mangiare alle tigri ed agli
sciacalli».
«Come, signore?» chiese
Kammamuri. «Non farete togliere almeno le lingue ai morti? Sapete bene quanto
sono squisite». «Ho fretta di tornare alla capitale».
«Almeno un po' di lingue per
mostrare che noi abbiamo ucciso veramente di questi bufali che fanno tanta
paura ai più audaci cacciatori».
«Ti accordo un quarto d'ora, il
tempo necessario per aggiogare Sahur al carro. Prendi gli
sikkari e fa' presto».
I sette uomini balzarono a terra,
armati di scuri e di coltelli, mentre Yanez offriva all'elefante una manata di
pezzi di zucchero.
«Sai, cornac», disse «che abbiamo
un elefante meraviglioso? Non credevo che questo coomareah fosse capace di
caricare dei bisonti. Un merghee vi si sarebbe certamente rifiutato».
«Lo credo anch'io, Altezza»
rispose l'indiano, accarezzando il bestione, al quale Yanez continuava ad
offrire zucchero e delle pagnotte col burro. «Per me è il migliore che
possediamo». «Basta, attacca e torniamo subito alla capitale. Ho molta fretta,
cornac». «Sahur, se troverà posto correrà come un cavallo». «A terra allora, e
prima esamina le catene poiché il carro è
pesantissimo». «Fra cinque minuti noi saremo in viaggio, Altezza».
Yanez discese dal carro e
raggiunse Kammamuri e gli sikkari. Questi lavorando a
gran lena, sfondando e tagliando, avevano già messe da parte quindici o sedici
lingue di dimensioni straordinarie e che promettevano bocconi squisiti.
«Ne serberai una per me, Kammamuri,
per la cena di questa sera, ma tu solo devi incaricarti della sua cottura».
«Ah!...
Avete già rinunciato alle uova, signor Yanez?» disse il maharatto, con accento
un po' beffardo.
«Comincerò domani» rispose serio serio Yanez. «Lasciate andare gli altri bufali».
«Peccato lasciare tutta questa
carne agli sciacalli. Questa sera accorreranno qui a centinaia e centinaia, e
domani non avranno lasciate che le ossa».
«Non abbiamo tempo di
occuparcene, mio bravo Kammamuri: partiamo subito».
Sahur era stato già attaccato al
pesantissimo carro, mediante robuste catene, e cominciava a dar segni
d'impazienza soffiando rumorosamente e pestando e ripestando il terreno colle
sue larghe zampe. «Siamo pronti, cornac?» chiese Yanez. «Quando vorrete, Altezza».
Gli sikkari con Kammamuri
montarono portando le lingue che accumularono in un angolo, coprendole con un
pezzo di tela, per tenere lontane le mosche che nelle foreste indiane, sono
assai grosse e voracissime, poi mentre Yanez accendeva la sua eterna sigaretta,
il coomareah, ad un grido del suo conduttore raccolse tutte le sue forze e
diede uno strappo violento tendendo le catene. L'enorme carro, che aveva le quattro ruote mezzo affondate nel terreno molle e quasi
spugnoso, per qualche po' rimase immobile, però alla terza ripresa del bravo
elefante fu come strappato, e si mise in viaggio attraverso alla folta foresta
che cominciava a diventare oscura per l'imminente tramonto del sole.
«Non credevo di tardare tanto»
disse Yanez, il quale continuava a fumare seduto su una cassa contenente dei
viveri e delle bottiglie. «Eppure siamo partiti di buon mattino, è vero,
Kammamuri?» «Ci si vedeva appena, Altezza».
«Che il diavolo porti nelle bolge
infernali te e tutte le Altezze che regnano nell'India».
«Non sono ancora troppo vecchio,
signor Yanez» disse il maharatto, ridendo. «Prima di andarmene all'altro mondo
voglio rivedere le jungle delle Sunderbunds e l'isola di Mòmpracem». «Per
cercare che cosa, nelle Sunderbunds? Dei thugs? Li abbiamo distrutti».
«Hum!...»
fece il maharatto. «Ne abbiamo ammazzati molti dentro
le gallerie sotterranee, che più nessuno avrà vuotate;
che siano morti poi tutti, non so dire, signor Yanez».
«Corpo di Giove!...»
esclamò il portoghese, lanciando via la sigaretta per
prenderne subito un'altra. «Tu mi metti una pulce nell'orecchio destro». «Dite
pure». «Vorresti forse dire che Sindhia ha cercato un appoggio negli
strangolatori?»
«Tutto è possibile in questo
paese, signor Yanez» disse Kammamuri, il quale appariva assai preoccupato.
Il principe rimase un momento
silenzioso, fumando con maggior furia, poi disse:
«Non credo: qui si tratta di
avvelenamenti e non di strangolamenti. I thugs in questo affare non devono
entrarci affatto, e poi sono ormai dispersi e perseguitati dalla polizia inglese
come cani idrofobi, e fucilati senza processo. Qui c'entrano i dacoiti, ne sono
sicuro. Tu che sei indiano, dimmi un po' chi sono quei personaggi».
«Valgono i thugs, signor Yanez»
rispose Kammamuri. «Forse sono più pericolosi ancora». «Delle canaglie?»
«E che canaglie!...
Costituiscono delle vere bande di ladri e di briganti, astuti, audacissimi, più
lesti dei cobra-capello a propinare il veleno alle vittime. Agiscono per lo più
nel Bundelkund, tuttavia non mi stupirei che un manipolo di quei furfanti fosse
stato assoldato da Sindhia».
«Sindhia!...»
gridò Yanez, lanciando via la seconda sigaretta e
corrugando la fronte. «Tu dunque credi che sia fuggito dal manicomio di
Calcutta, dove Surama l'aveva internato con un appannaggio più che principesco?
Che voglia riconquistare il suo impero? Ah!... Non
sono uomo da lasciar portar via la corona che brilla sulla bella fronte di mia
moglie!»
«Per la morte di Visnù!... Non abbiamo ripresa Mòmpracem, malgrado tutti gli
incrociatori inglesi? Ci vorrebbero però, signor Yanez, alla vostra corte, una
cinquantina di quei terribili ed incorruttibili malesi».
«E perché non li faremo venire?»
disse Yanez, il quale era diventato assai pensieroso. «Fra Calcutta e Labuan
oggi vi è un buon cavo sottomarino: un dispaccio potrà al massimo impiegare
un'ora, i malesi a giungere qui ci metteranno appena
quindici giorni, poiché ormai Sandokan, se conserva i suoi prahos, ha dato la
preferenza al vapore. Per Giove!... Sono più inquieto
di quello che tu creda. I dacoiti nel mio impero!...
Tanti ne prenderò e tanti ne farò fucilare. Fucilare!...
Ma che!... Li farò legare alla bocca dei cannoni e manderò in aria i loro
stracci di carne insieme alle ossa». «Signor Yanez, diventate feroce come la Tigre della Malesia!...»
«Devo difendere mia moglie e mio
figlio» rispose il portoghese, con voce grave. «Non risparmierò nessuna
punizione contro gli avvelenatori. Tre ministri in un mese!...
Fulmini di Giove, sono troppi!... Come sono vivo io?»
«Non vi hanno avvelenato, perché
hanno troppa paura di voi, e poi sapete che Tremal-Naik sorveglia
strettamente».
«Un po' di veleno di
cobra-capello lasciato cadere dentro una bottiglia od in una gelatiera sarebbe
più che bastato per togliermi per sempre il vizio di fumare. Per Giove!... Voglio ben vedere dentro a questa faccenda. Se sono i
dacoiti che agiscono per conto di Sindhia, non avranno quartiere. Consumeremo
della polvere a fracassare dei corpi umani, indegni di vivere. Prima i thugs,
ora i dacoiti!... Bella guerra!... Ciò mi divertirà
più che le cacce ai bufali ed alle tigri. Cornac, se puoi, affretta».
«Sì, Altezza. Incito Sahur, ma la
foresta è folta ed il carro troppo enorme. La prima traccia è stata perduta o
meglio è stata rovinata dagli jungli-kudpa». «Dai bisonti, vuoi dire». «Sì,
Altezza». «Giungeremo in città a notte fatta».
«Farò il possibile, usciti dalla
foresta, di spingere Sahur, se non di corsa almeno di buon passo» rispose il
cornac.
L'enorme carro procedeva
scricchiolando ed oscillando quasi fosse diventato una
nave investita da un buon rollio. Sotto gli strappi violenti dell'elefante,
costretto ad aprirsi una nuova strada fra tutti quei folti vegetali, le travi,
quantunque bene arpionate, minacciavano di sollevarsi e di sfasciare tutto il
bastione roteante. Annottava rapidamente sotto la boscaglia ed anche al di là
della immensa cupola di foglie, la luce andava spegnendosi fra gli ultimi
guizzi d'oro.
I vampiri, che sono così numerosi
nell'India e specialmente nell'Assam, uscivano a frotte dai tronchi cariati che
servivano loro d'asilo durante il giorno, e volteggiavano intorno al carro
spiegando le loro grandi ali che misurano più d'un
metro.
Gran brutte bestie quei
flying-fox, come li hanno chiamati gli inglesi, poiché rassomigliano a vere
volpi, col muso egualmente appuntito, i denti aguzzi e solidi, ed il pelame
assai folto che tira al rossiccio. Quantunque quegli enormi pipistrelli li
abbiano chiamati, oltre che volpi volanti, anche vampiri, sono assolutamente
inoffensivi. Si accontentano di devastare i frutteti, ma di lasciare i
coltivatori, addormentati per lo più dinanzi alle loro capanne di paglia e di
fango, tranquillissimi; e non interrompono il loro sonno.
È vero che qualche volta si
unisce a loro un pipistrello di più modeste proporzioni, il quale tiene più al
sangue umano che ai profumati banani. Nemmeno questo però è pericoloso,
quantunque gli indiani siano convinti che in una sola notte possa dissanguare
completamente un uomo sorpreso nel sonno od una vacca.
Si accontentano di poche gocce,
poi se ne vanno, e quelle leggère cavate di sangue, per uomini ed animali che
vivono sotto un clima ardentissimo, sono quasi più utili che nocive.
Anche i bighama, i piccoli lupi
indiani, che vanno in grosse bande, e che non sono
però affatto pericolosi per gli uomini, cominciavano a lasciare i loro
nascondigli, annunciandosi con ululati che finivano in una nota acuta
straziante. Dovevano aver già fiutate le gigantesche prede che giacevano inerti
in mezzo alla foresta, ed accorrevano da tutte le parti, a corsa sfrenata, per
paura di giungere troppo tardi al banchetto.
Yanez, tanto per passare il
tempo, o meglio per ingannare il suo malumore, ne fucilò cinque o sei che
avevano avuto l'audacia di galoppare a fianco del carro, facendo scappare, col
rombo della sua grossa carabina che sembrava una mezza spingarda, tutti i
pipistrelli volteggianti sotto le piante. Alle foreste di tara e di latanieri,
successe ben presto un'altra magnifica foresta dove l'elefante poteva
inoltrarsi senza grandi sforzi. Era formata tutta di palas, piante che non
crescono addossate le une alle altre, quantunque i loro tronchi nodosi,
coronati da un fitto padiglione di foglie vellutate, siano sempre collegati fra di loro da ammassi di liane che un buon colpo di
proboscide può facilmente abbattere. Sahur si è messo in corsa, minacciando di
sfasciare l'enorme carro, sicché il cornac è costretto a moderare il suo
ardore, perché non succeda una disgrazia al principe ed ai suoi cacciatori, che
si sballottano sui loro soffici materassi.
Anche la foresta di palas è
attraversata ed apparve una vasta pianura dove giganteggiano i kalam,
spingendosi perfino a quindici piedi d'altezza, in mezzo ai quali volano bande
di magnifici pavoni, volatili rispettati da tutti perché per gli indiani
rappresentano la dea Sarasvati che protegge le nascite ed i matrimoni.
All'estremità di quella pianura, quasi tutta invasa da male erbe e con
pochissime risaie e piantagioni di senapa, all'ultimo raggio di luce compare
Gahuati, la capitale dell'Assam, che racchiude dentro i suoi vecchi eppure
ancora saldi bastioni, più di trecentomila anime.
«Finalmente» disse Yanez,
respirando a lungo. «Ora, cornac, puoi lanciare l'elefante, e se passerà sui
terreni coltivati pagheremo i danni ai poveri agricoltori». «Il carro può
sfasciarsi, Altezza» rispose il conduttore. «Non preoccupartene. Cadremo
insieme ai materassi».
Carro ed elefante ripartono con
un fragore infernale, aprendosi un immenso solco fra le altissime erbe, e dopo
una mezz'ora, senza aver troppo danneggiato i pochi terreni coltivati, entrano
nella capitale per una delle venti porte. Un drappello di soldati che indossa
le pittoresche divise dei sipai, scintillanti d'argento, presentano le armi a
Yanez che risponde bonariamente con un: «Buonanotte, ragazzi».
Subito otto cavalli, bardati alla
turca, colle staffe corte e le gualdrappe fiammanti, vengono
fatti uscire da una casamatta. Yanez ed i suoi uomini lasciano il carro,
montano in sella e partono ventre a terra, gridando a squarciagola: «Largo!... Largo!...»
Le vie sono ancora affollate,
perché la rhani dell'Assam ha regalato ai suoi sudditi una specie di
illuminazione notturna formata da maestosi e pittoreschi lanternoni cinesi.
Al passaggio del principe tutti
fanno posto, salutando rispettosamente, sicché in meno di cinque minuti il
drappello giunge dinanzi al palazzo imperiale, un edificio tutto in marmo, di
dimensioni gigantesche, con cupole, terrazze e vasti cortili.
Yanez balza agilmente a terra e
sale precipitosamente la gradinata, seguito da Kammamuri. Il primo uomo che
vede è Bindar, il bravo cavaliere che colle sue audaci evoluzioni ha stornata l'attenzione dei bufali, liberando per il
momento il carro. È sfuggito miracolosamente al grave pericolo, poiché non ha
nessuna ferita. Dietro di lui compariscono subito tre vecchi indiani dalle
lunghe barbe bianche, con giganteschi turbanti ed ampie vesti di seta che
scendono fino sulla punta degli stivaletti a punta rialzata. Tutti sono armati
d'un tarwar che ha l'impugnatura d'oro e che è squisitamente cesellata. Sono i tre
ministri che guidano il carro dello stato.
Yanez, senza rispondere ai loro
inchini, si avvicina al più vecchio e domandandogli subito, con voce un po'
alterata: «Ebbene, Bharawi, un altro nuovo delitto è stato dunque commesso?»
«Sì, Altezza: il tuo primo ministro è stato avvelenato».
«Dove si nascondono questi
avvelenatori? Un giorno o l'altro manderanno all'altro mondo anche noi tutti,
per Giove!... Mia moglie? Mio figlio?» «Stanno
benissimo, Altezza».
«Ho tremato per loro. Dov'è il
morto? Vediamo se si può scoprire in quale modo lo hanno avvelenato». «È nella
sala degli smeraldi».
«Andiamo subito e non lasciate
entrare nessuno fuorché Kammamuri e Bindar che sono fedeli a tutta prova».
Attraversarono un immenso
cortile, circondato da porticati di stile moresco, ed entrarono in una vasta
sala che aveva le pareti di marmo verde, luccicanti quasi come enormi smeraldi.
In mezzo, su un letto basso,
coperto da una leggera trapunta di seta azzurra, giaceva un uomo già assai
vecchio.
Il suo viso era spaventosamente
alterato. I suoi occhi, grigi come quelli d'una vecchia tigre, parevano
dovessero uscire da un momento all'altro dalle orbite. La bocca, contorta da un
ultimo spasimo, mostrava i denti, anneriti per il lungo uso del betel.
«Basta uno sguardo per capire che
quest'uomo è stato avvelenato» disse Yanez, tergendosi con un fazzoletto di
seta alcune stille di sudor freddo che gli imperlavano la fronte. «Che cosa ha
bevuto?»
Bharawi si avvicinò ad un piccolo
mobile che somigliava ad un pavone e tolse una bottiglia ed un bicchiere di
cristallo purissimo, porgendo l'una e l'altro al principe.
Nella bottiglia, che sapeva
fortemente d'arancio, vi erano ancora tre dita d'acqua d'una brutta tinta
rossastra. Yanez fiutò a lungo, poi scosse il capo mormorando fra sé:
«Sono troppo abili manipolatori
di veleni questi indiani fra sé per capirne subito qualche cosa».
Prese una sedia a dondolo,
riaccese la sigaretta che aveva lasciata spegnere e disse a Bharawi: «Ora
raccontami tutto».
«Tu sai, Altezza, che tre giorni
fa si è presentato qui un bramino per chiedere una grazia».
«Per Giove, se mi ricordo!...» rispose Yanez. «Voleva che
gli accordassi una miniera di diamanti senza pagarmi una rupia, altro che
grazia! Era un lurido ladrone, e l'ho mandato più che in fretta a riprendere le
sue preghiere nella pagoda. Ora continua!»
«Stamane», riprese il vecchio
ministro, «tre ore dopo che tu eri partito, si è ripresentato insistendo per
parlare col tuo primo ministro che stava riposandosi appunto su questo letto». «Ancora
per l'affare della miniera?» «Non si sa, poiché il ministro ed il bramino sono
rimasti assolutamente soli». «Ed è stata una grande imprudenza, signori miei».
«È vero, Altezza, una imprudenza che egli ha pagato
colla vita».
Yanez si era alzato gettando via,
con un moto rabbioso la sigaretta, e si era messo a passeggiare per l'ampia
sala colle mani affondate nelle tasche. Appariva assai preoccupato, anzi quasi
sgomentato, eppure coraggio e sangue freddo ne aveva da vendere a tutti i suoi
sudditi. Si arrestò dinanzi alla bottiglia, tornò a fiutarla e non sentì che un
leggero odore acre, attenuato assai dall'aranciata.
«Che veleno credi tu che sia,
Bharawi?» chiese. «Tu sei indiano e più vecchio di me, e tu ne saprai di più».
«Io credo, signore, che dentro
questa bottiglia abbiano lasciato cadere alcune gocce
del veleno dei bis cobra». «Nessun uomo potrebbe resistere?»
«No, Altezza. Il veleno
distillato dal bis è venti volte più attivo di quello
del cobra-capello».
«È vero, Kammamuri?» chiese Yanez
al maharatto. «Un giorno assai lontano sei stato un famoso cacciatore di
rettili, nella temibile Jungla Nera scorrazzata dai thugs di RajmangaL».
«Verissimo, signore. Quella
grossa lucertola è più velenosa del serpente del minuto e di tutti i cobra. Non
si è scoperto nessun rimedio contro il suo veleno». «Hai ucciso qualcuno di
quei brutti lucertoloni?» «Delle centinaia, signore: io ed il mio padrone ne
facevamo delle vere stragi». «Credi tu che dai denti si possa
far sprizzare il veleno?» «Facilmente, signore». «Di che colore è quel veleno?»
«Ha una tinta diafana, quasi madreperlacea» rispose il maharatto. «Hai mai
provato a mescolarlo con un po' d'acqua?»
«No, mai, signore. Avevamo troppe
occupazioni nella Jungla Nera in quel tempo per fare degli esperimenti».
«Corpo di tutti i fulmini di
Giove!...» esclamò Yanez,
riprendendo la sua passeggiata più furiosamente di prima, per non arrestarsi
che qualche istante sotto le quattro gigantesche lanterne cinesi che
proiettavano una luce dolcissima, simile a quella della luna.
Sagrava, il brav'uomo, e non
sapendo con chi sfogarsi, se la prendeva colla sua quarantesima sigaretta che
faceva fumare come una piccola vaporiera. Ad un tratto tornò verso il vecchio
ministro e gli chiese: «Credi tu che fosse realmente
un sacerdote bramino?»
«Io non so, ma ho i miei dubbi,
Altezza» rispose Bharawi. «Il suo volto non mi pareva quello di un uomo
appartenente alle alte caste». «Dov'è Tremal-Naik?»
«È partito una mezz'ora dopo
scoperto il delitto, insieme a Timul, il famoso cercatore di piste». «Una
traccia è stata trovata allora?»
«Così pare. La Piccola Tigre del
Borneo non avrebbe lasciato il palazzo se non avesse avuto dei gravissimi
motivi».
«Chi lo sa!...
Se ha con sé Timul si può sperare qualche cosa. Quando quel giovanotto rileva
una pista non la lascia più, e sa ritrovarla anche in mezzo alle vie polverose
ed alle folte foreste. Che cosa ne pensate voi di questo nuovo delitto?»
«Poco di buono» rispose Bharawi
per tutti. «Domani o fra otto giorni potrebbe succedere anche a noi un simile
caso. I vostri misteriosi nemici l'hanno a morte coi vostri ministri». «Chi
sono? Vorrei saperlo». «Abbiamo lanciata tutta la nostra polizia attraverso le
vie della capitale». «E nessuno è ancora ritornato?» «No, Altezza».
«Fate la guardia al cadavere, e
se succede qualche cosa, venite subito ad avvertirmi nel mio gabinetto. Già,
questa notte non dormirò». «Volete dare la caccia all'assassino, signore?»
chiese Kammamuri.
«Aspettiamo prima che ritorni
Tremal-Naik. Rimani anche tu qui di guardia, e se quel bramino ritorna,
afferralo pel collo e, comunque sia, anche mezzo strangolato, portamelo».
«Hum!...
Dubito che si faccia vedere, signore» rispose il maharatto, scuotendo la testa.
«T'inganni, amico. Gli assassini
sentono quasi sempre un prepotente bisogno di rivedere il luogo ove hanno
commesso il delitto».
Yanez augurò ai suoi tre ministri
la buonasera ed uscì dalla sala preceduto dai due
mussalchi che portavano delle lanterne monumentali. Attraversò parecchie
gallerie, tutte splendenti d'armi disposte a grandi gruppi assai artistici, poi
altre sale immense, debolmente illuminate, e si fermò dinanzi ad una porta,
dicendo ai portatori delle lanterne: «Andate: non ho più bisogno di voi».
I due mussalchi fecero un
profondo inchino, toccando colla fronte quasi le pietre lucentissime e ben
levigate, e Yanez, girata bruscamente la maniglia, entrò in un elegante salotto
che aveva le pareti coperte di seta azzurra ricamata d'oro, con molti divani
bassi intorno, ed illuminato da una lampada che proiettava sotto di sé come una
luce lunare. Si accostò ad un'altra porta, sul cui stipite era appeso un gong,
prese un martelletto di legno e fece risuonare tre volte l'istrumento,
scatenando un fragore assordante. Un momento dopo la stessa porta si apriva
quasi violentemente e la rhani, sua moglie, compariva, in preda ad una
vivissima agitazione, gridando: «Oh, mio Yanez!... Ho
tremato per te!...»
La principessa dell'Assam era una
splendida donna, appena venticinquenne, dalla pelle leggermente abbronzata, dai
lineamenti dolci e fini, con occhi nerissimi, profondi, e capelli ancora più
neri, assai lunghi intrecciati con fiori di mussenda dalla tinta sanguigna ed a
gruppi di perle dei banchi di Manahar.
Indossava un magnifico vestito di seta rosa, tutto ricami d'oro, e portava lunghi calzoni
di seta bianca che facevano vivamente spiccare le rosse babbucce a punta
rialzata, pure ricamate in oro con piccoli diamanti. Yanez aprì le robuste
braccia, stringendosi al petto la piccola rhani.
«Ah, mio signore!...» esclamò Surama, lasciandosi
quasi portare verso una ottomana bassa, tutta scintillante di ori con grandi
cuscini, di varie tinte, ricamati.
«Quando tu, mia piccola moglie,
mi vedi prendere il fucile, diventi inquieta» disse Yanez ridendo. «Non parto
mai solo, e poi tu sai che anche le tigri più feroci, anche le solitarie, non
hanno mai avuto buon giuoco con me». «Trascuri gli affari del nostro stato, mio
signore».
«Non abbiamo dei ministri che ci
divorano diecimila rupie all'anno per lasciarsi poi stupidamente
avvelenare? E poi tu sai che ho il sangue irrequieto delle Tigri della Malesia.
E Soarez?» «Dorme». «Chi
lo veglia?»
«La sua nutrice. La porta della
sua stanza è sbarrata, ed al di fuori vegliano due rajaputi con due molossi del
Tibet. Nessuno oserebbe avvicinarsi».
«Lo credo. Quei cani sono così
forti da atterrare perfino gli orsi. Andiamo a vedere nostro figlio». «Non far
rumore: dorme». «E lo lascerò dormire tranquillo» rispose Yanez.
S'alzarono tenendosi quasi
abbracciati, ed aprirono la porta che era in parte nascosta da una tenda di
pesante broccato. Si trovarono in una stanza appena illuminata, colle pareti
coperte tutte di seta bianca ed il pavimento di fitti tappeti a tinte
smaglianti provenienti dal Caschmir, con dei divanetti che si seguivano tutto
intorno.
Nel mezzo, in una culla di filo
d'argento, che rassomigliava ad un pesce,
coperto da una leggerissima mussola di seta, dormiva il figlio dei sovrani
dell'Assam.
Yanez aveva alzata la mussola guardando
il bambino che dormiva placidamente, con una mano tesa, come se impugnasse
qualche arma. Non aveva che due anni, ma era già assai sviluppato per
quell'età. La sua pelle era leggermente diafana, con quei riflessi
madreperlacei che si riscontrano sui volti delle
creole americane, di Cuba e di Portorico, dovuti al sangue incrociato. I
capelli erano nerissimi come quelli di sua madre, tutti inanellati e già assai
lunghi.
«Si direbbe che sogna future
battaglie» disse Yanez, lasciando ricadere lentamente la mussola. «La sua
manina fremeva come se premesse su qualche carabina».
«È figlio tuo e diverrà un giorno
un grande guerriero, mio signore» disse Surama. «Noi non sapremo domare gli
impeti del suo sangue».
«Lo manderemo a Sandokan, se quel
brav'uomo sarà ancora vivo. Tutte le Tigri della Malesia invecchiano» disse
Yanez, con un sospiro. «La Tigre
camperà cent'anni». «Gliene auguri troppi, Surama». Le passò un braccio
attraverso la vita sottile e la ricondusse nel suo studio. Era diventato assai
serio.
«Sai, mia piccola moglie, che il
nostro stato comincia a camminare male? Ha qualche ruota guasta che bisogna
fare accomodare al più presto, o noi morremo tutti avvelenati». «Sono
spaventata, Yanez: tremo sempre per te e per Soarez».
«Ed io per te, Surama. Ora sono i
nostri ministri che mandano a passeggiare nel kailasson da dove non si ritorna
più, e domani, o fra un mese, non toccherà la nostra volta? Questi delitti mi
hanno assai impressionato». «Eppure il popolo ci ama, Yanez».
«Non dico il contrario, ma il
popolo non ha niente a che fare con questi sinistri avvelenatori». «Tu hai un
sospetto, mio signore. Lo leggo nei tuoi occhi».
«Sì, che Sindhia sia fuggito da
Calcutta, dopo d'aver ricuperata la ragione, e che ora tenti, a sua volta, di
levarci dalla testa le nostre corone».
«Anche a me era venuto, e più
volte, sulle labbra, quel nome. Sindhia non deve essere meno perfido di suo fratello, che per divertirsi, fucilava i suoi
parenti». «Che cosa mi consigli di fare?»
«Di mandare Kammamuri a Calcutta
per accertarsi se Sindhia si trova ancora là oppure se è fuggito».
«E lo incaricherò anche di
un'altra missione» disse Yanez, il quale si era bruscamente alzato, mettendosi
a passeggiare. «Farò spedire un dispaccio cifrato a Labuan e farò accorrere al
più presto Sandokan ed i suoi invincibili Tigrotti. Con loro e coi montanari di
Sadhja, che sono sempre fedelissimi a te, daremo del filo da torcere a quel
pazzo sanguinario». «Vuoi far venire Sandokan?...»
«Credo che sia necessario, mia
piccola moglie. Il nostro trono oscilla troppo. Fra venticinque giorni i
Tigrotti di Mòmpracem potrebbero giungere qui col loro
capo». «Ma verrà Sandokan?»
«Che cosa vuoi che faccia a
Mòmpracem, ora che laggiù tutto è tranquillo? Deve annoiarsi mortalmente. Tu
sai che quell'uomo non vive che per menare le mani,
sparare carabinate e pistolettate. Salperà subito col suo piccolo incrociatore
e filerà attraverso l'Oceano Indiano a tutto vapore». In quel momento fu
bussato alla porta.
«Passate» disse Yanez, mettendo però istintivamente una mano sul calcio della
pistola che era passata attraverso la fascia. «Sono io» rispose una voce forte
e sonora. Surama ed il portoghese avevano mandato due grida di gioia:
«Tremal-Naik!...»
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