Tutti si erano voltati, guardando
verso la riva sinistra, dove, su di un'altura, sorgeva una costruzione di forme
massiccie, formata da parecchie torri colle pareti in pendenza e le cime irte
di merlature grossolane, collegate da grosse muraglie che sembravano bastioni.
Gli Egiziani di quelle remote
epoche se avevano curato molto la costruzione dei loro giganteschi monumenti,
non avevano trascurate le loro fortificazioni, quantunque nessuna di esse
avesse dato prova di resistere lungamente agli attacchi degli invasori, che si
rovesciarono sull'Egitto durante le ultime dinastie.
In ciò erano molto inferiori agli
Incas del Perù ed agli Aztechi del Messico, tuttavia ne avevano create molte,
abbastanza formidabili, specialmente ad Abydos, dove sussistono ancora molti
avanzi di fortificazioni con poche feritoie, porte aperte a grandi distanze che
davano accesso a tortuosi corridoi costruiti nello spessore delle pareti, pieni
di insidie pel nemico che riusciva a cacciarvisi dentro.
Non era però quella specie di
castello ciò che aveva attirati gli sguardi di Mirinri e dei suoi compagni.
Erano due o trecento antenne,
allineate lungo la riva del fiume, proprio dinanzi alla fortezza, e ognuna
delle quali portava infisso un cadavere umano dalla pelle quasi nera. Tutti
quei disgraziati avevan la punta dell'asta infissa profondamente nel petto e le
loro braccia e le loro gambe pendevano inerti, già mezze scarnate dal becco
degli sparvieri che volavano intorno in gran numero.
«Chi sono quegli uomini?» aveva
chiesto Mirinri, il quale non aveva potuto celare un fremito d'orrore.
«Dei prigionieri di guerra, che
hanno avuto la disgrazia di cadere vivi nelle mani dei soldati di Pepi,»
rispose l'egiziano.
«È così che si uccidono?»
«Quando invece non si tagliano
loro le mani, onde non possano più impugnare un'arma,» disse Ounis.
«E forse quegli uomini avevano
combattuto valorosamente per la difesa del proprio paese,» disse Mirinri, come
parlando fra se stesso. «È questa la civiltà egizia? Quando salirò io sul trono
queste infamie non si commetteranno più.»
«Tu sei un generoso ed un nobile
cuore,» disse Nefer, guardandolo con ammirazione.
«E costoro chi sono?» chiese il
giovane, che osservava attentamente la fortezza.
«Sembrano soldati,» rispose Ata,
aggrottando la fronte. «Vedo delle barche nascoste al di là dell'altura. Che
vengano a farci una visita? Ecco quello che non desidererei.»
Due drappelli d'uomini, che
avevano attorno alle anche dei perizomi di grossa tela, con un piccolo
grembiale di cuoio che scendeva fino alle ginocchia, il petto avvolto in larghe
fascie per difenderlo dai colpi di picca e sul capo degli ampi berretti a
grandi righe, che ricadevano sulle loro spalle in modo da riparare tutta la
nuca, scendevano la china avviandosi verso la riva.
Tutti portavano scudi di pelle,
quadrati sotto e semirotondi in cima, ed erano armati di picche a tre punte, di
certe specie di scuri col manico lunghissimo, nonché di daghe dalla lama larga
e pesante.
«Che vengano qui?» chiese Ounis,
che sembrava inquieto.
«Non sono che una quarantina,»
disse Ata. «I miei etiopi avranno facilmente ragione di loro, se vorranno
arrestarci.»
«Che siano stati avvertiti che io
sono su questa barca?» chiese Mirinri.
«Non so, mio signore; però si
direbbe che intorno a noi aleggi il tradimento. Eppure dei miei uomini sono
sicuro come di me stesso.»
«Forse non sono che delle
semplici supposizioni,» disse Ounis. «Non vi siamo che noi e abbiamo tutto
l'interesse di mantenere l'incognito.
«Eppure vengono: guarda. Non
vedi, Ounis, che s'imbarcano?»
«E noi lasciamoli venire e
prepariamoci ad affogarli tutti, Ata,» disse Mirinri, che conservava la sua
calma abituale. «Non si prende un reame lasciando la spada nella guaina.»
I due drappelli erano scomparsi
per un momento dietro un gruppo di enormi palme, poi erano ricomparsi a bordo
di due barche che non rassomigliavano affatto a quella di Ata, che era un vero
veliero che anche i fenici, quegli intrepidi navigatori del Mediterraneo,
grandi commercianti e grandi pirati insieme, gli avrebbero invidiato; quelle
erano barche di forme massiccie, che terminavano sia a poppa che a prora in due
punte altissime, in forma quasi d'un mezzo S, con un casotto che occupava quasi
tutta la lunghezza e sulla cui cima si erano collocati alcuni guerrieri armati
di archi.
Gli altri soldati si erano messi
ai due lati e manovravano i remi.
Quantunque la corrente fosse
aumentata di velocità, le due pesanti imbarcazioni non tardarono a giungere a
portata di voce, essendo da qualche po' il vento caduto.
«Ohe!» gridò uno dei due
comandanti del drappello. «Che Hathor vi protegga e che Tifone tenga sempre
lontani da voi i temsah (coccodrilli) ma ditemi chi siete e dove
andate.»
«Siamo mercanti che si recano a
Denderah,» rispose Ata, mentre i suoi etiopi scivolavano silenziosamente dietro
le murate, onde essere pronti ad impedire un abbordaggio. «Che cosa vuoi da
noi?»
«Venivo a chiederti se hai uno
scriba a bordo.»
«Per che cosa farne?»
«Abbiamo da tagliare quattrocento
mani e non vi è fra tutti noi uno che possa prendere nota degli uomini
destinati al supplizio e mandare una copia al re.»
«Chi sono costoro?»
«Dei nubiani che abbiamo fatti
prigionieri ieri. Ne vedi già un bel numero impalati sulla riva, ma ne abbiamo
ancora trecento,» rispose il comandante del drappello, «e debbono subire anche
essi le leggi della guerra.»
In quel momento dietro la folta
linea di palme che s'allungava sulla riva si udirono delle urla spaventevoli,
che parevano mandate non già da esseri umani, bensì da belve in furore. Era un
coro infernale di ululati, di ruggiti, di rantoli da far gelare il sangue.
Mirinri, a rischio di
compromettersi, erasi rizzato dietro alla murata, colla daga in mano, gridando
con voce minacciosa:
«Che cosa fanno laggiù?»
«Strappano la pelle del petto a
quelli che non subiranno la mutilazione delle mani,» rispose tranquillamente il
comandante.6
«Voi non siete dei guerrieri,
siete dei vili sciacalli!» tuonò il giovane.
I soldati che montavano le due
barche, sbalorditi da quel linguaggio, che mai prima di allora avevano certo
udito, si erano guardati l'un l'altro.
«Giovane, in nome di chi parli?»
chiese il comandante.
«Se l'osi, sali sulla mia barca e
vieni a vedere il simbolo di vita e di morte tatuato sulla mia spalla, ma
quando l'avrai veduto, ti farò gettare nel fiume in pasto ai coccodrilli e
sterminerò i tuoi uomini.»
«Imprudente!» disse Ata. «Che
cosa hai fatto, mio signore?»
Mirinri non lo ascoltava.
«Su, amici!» gridò, volgendosi
verso gli etiopi.
I trenta battellieri si erano
alzati come un solo uomo dietro le murate, cogli archi tesi, pronti a far
piovere sulle due scialuppe una tempesta di dardi.
L'atto audace del futuro re e
anche l'attitudine decisa ed il numero degli etiopi, parve che calmasse l'umore
bellicoso del comandante e dei suoi uomini. La possibilità poi che egli fosse
un vero principe, viaggiante in incognito, li decise a volgere frettolosamente
indietro ed a fuggire più che in fretta verso il castello, senza aver osato
lanciare una sola freccia.
«Seguiamo anche noi il loro
esempio,» disse Ata. «Tu, signore, hai commesso una grave imprudenza. Noi
ignoriamo quanti uomini ci sono in quella rocca e di quante barche possono
disporre.»
«Vengano,» rispose semplicemente
Mirinri. «Basterà mostrare loro l'ureo che io ho tatuato sulla pelle se
è vero che questo serpente colla testa d'avoltoio è l'insegna del potere
supremo. È vero Ounis?»
«Tu un giorno sarai un gran re,»
si limitò a rispondere il vecchio. «Tuo padre avrebbe fatto altrettanto e anche
quello era un grande sovrano.»
«Purché possa sedermi sul trono
dei miei avi...» rispose Mirinri, sorridendo.
«Ti ho mostrato l'astro che
faceva scintillare la sua lunga coda e quello era un buon segno che annunciava
un cambiamento prossimo della dinastia regnante.»
«Vedremo: confido nell'avvenire.»
Mirinri aveva ripreso il suo posto
consueto, sedendosi sull'orlo del piccolo cassero; Nefer si era collocata a
breve distanza da lui e sembrava occupata a guardare le rive del maestoso
fiume, tutte coperte di gigantesche palme dum, che già tuffavano nelle acque le
loro radici.
Il Nilo continuava a gonfiarsi,
invadendo a poco a poco le campagne, dove ormai non si trovavano più né grano,
né orzo, né lino. Dove trovava un'apertura, la corrente irrompeva con lunghi
muggiti e si riversava attraverso le terre con incredibile rapidità, fertilizzandole
col suo prezioso limo.
Fra gli animali appiattati fra i
cespugli avveniva allora un fuggi fuggi generale e si vedevano balzare
attraverso i solchi, con rapidità prodigiosa, truppe di graziose gazzelle,
bande di antilopi dalle lunghe corna sottili e sciami di sciacalli urlanti,
mentre s'alzavano per l'aria immensi stormi d'ibis bianche e nere, di aironi e
di anitre.
La barca, che aveva il vento in
favore, correva rapidissima, tenendosi costantemente verso la riva sinistra,
sulle cui alture apparivano, di quando in quando, delle rovine imponenti, che
parevano di antichi templi o di fortezze diroccate, forse avanzi di città
distrutte dai Faraoni delle prime dinastie, i quali avevano portate le loro
armi ben lungi dal Delta, scacciando a poco a poco i popoli nubiani che le
occupavano.
Anche quel giorno trascorse,
senza che apparisse sull'immensa distesa d'acqua, che sempre più allargavasi,
l'obelisco che doveva indicare l'isola misteriosa. Alle domande che Ounis e Ata
avevano rivolte a Nefer, questa aveva semplicemente risposto:
«Aspettate: il Nilo non ha
raggiunto la gran piena.»
Altri due giorni trascorsero. Le
rive erano ormai scomparse. Il Nilo pareva che fosse diventato un grande lago
dalle acque torbidissime, quasi rossastre.
Verso il tramonto del quarto
giorno, Ata segnalò quattro grossi punti neri, che scendevano la corrente,
tenendosi a breve distanza l'uno dall'altro. Quasi nel medesimo istante si udì
Nefer a gridare:
«Ecco l'obelisco profilarsi
dinanzi a noi: l'isola di Kantapek è là.
Mirinri e Ounis si eran voltati,
guardando nella direzione che la fanciulla indicava col braccio teso.
Sulla superficie delle acque, che
il sole faceva rosseggiare e scintillare vivamente, si distingueva ad una
grande distanza un'alta linea oscura che spiccava nettamente sul luminoso e
purissimo orizzonte.
«Lo scorgi, mio signore? chiese
Nefer al giovane Faraone, con uno strano tono di voce.
«Sì,» rispose Mirinri.
Poi la guardò aggiungendo:
«Che cos'hai Nefer? Mi sembri
commossa.»
La fanciulla volse altrove il
capo, come per sfuggire lo sguardo del giovane, poi rispose:
«No, t'inganni, mio signore.»
Ata in quel momento li raggiunse,
dimostrando sul suo viso una estrema apprensione.
«Te lo avevo detto, mio signore,
che tu avevi commessa una grave imprudenza,» disse, volgendosi verso Mirinri.
«Perché?»
«Vi sono quattro grosse barche
che scendono il fiume e che mi hanno l'aria di volerci dare la caccia.»
«Che siano legni armati da
guerra?» chiese Ounis che aveva trasalito.
«Ne sono certo.»
«Da che cosa lo arguisci?»
domandò Mirinri.
«Dall'altezza del loro albero e
dall'ampiezza della loro vela.»
«Che siano montate da quei
soldati che suppliziavano i prigionieri di guerra?»
«Questo è il mio sospetto.»
«Che cosa puoi temere ora che
l'isola di Kantapek è in vista?» chiese Nefer, intervenendo. «Quale egiziano
oserebbe accostarsi a quelle rive, dove si crede che le anime dei re nubiani
errino per vendicare la loro razza distrutta dai primi Faraoni? Essa è là,
dinanzi a noi, pronta a offrirci un rifugio e nessuno ci seguirà fino al
gigantesco obelisco.»
«E troveremo anche là altri
nemici e più pericolosi,» dissero Ounis e Ata.
«Come ho scongiurati i piccioni
fiammeggianti, scongiurerò gli spiriti dei nubiani,» rispose la fanciulla. «Non
sono forse io una maliarda? Con una mia invocazione li obbligherò a rientrare
nei loro sarcofaghi dove da secoli dormivano.»
«Sei certa della tua potenza?»
chiese Ounis.
«Sì, mio signore, e se vuoi io te
ne darò una prova sbarcando da prima sola su quell'isola, essendo necessario
che il mio incantesimo, onde abbia efficacia, io vada a recitarlo in mezzo agli
alberi che coprono l'isola.»
«E tu, fanciulla, oseresti
tanto?» chiese Mirinri, che non poteva fare a meno di ammirare tanta audacia.
«Sì, pur di salvare il futuro mio
re,» rispose Nefer.
«All'isola e senza perdere
tempo,» disse Ata. «Quelle barche si dirigono verso di noi. Vi è su quelle rive
una cala qualunque che sia sufficiente per ancorare la nostra barca?»
«Sì, dinanzi all'obelisco.»
Ata corse a poppa e prese il
lungo remo che serviva in quell'epoca da timone, mentre Mirinri e Ounis si
portavano a prora per sondare il fondo del fiume.
Essendo la corrente molto rapida,
non trattenendola più le masse fitte dei papiri ormai tutti scomparsi sotto la
piena, il piccolo veliero s'avanzava veloce, mentre le quattro barche segnalate
sembravano non aver nessuna fretta d'accostarsi all'isola, che cominciava a
delinearsi nettamente.
L'obelisco ingrandiva a vista
d'occhio, giganteggiando sull'orizzonte, che gli ultimi raggi del sole
tingevano d'un rosso ardente e mandava dei riflessi acciecanti come se fosse
interamente dorato o coperto di qualche altro metallo risplendente.
«Chi lo ha innalzato?» chiese
Mirinri a Nefer che lo guardava attentamente.
«Non lo so, mio signore,» rispose
la fanciulla, quasi distrattamente.
«Lo si direbbe tutto d'oro.»
«È solo dorato7,
almeno così mi dissero.»
«Che le favolose ricchezze dei re
nubiani siano nascoste là dentro?»
«No,» rispose Nefer
asciuttamente. «So io dove si trovano.»
«Dunque sei stata parecchie volte
qui?»
«Una sola, te lo dissi.»
«Ma vi sono dei sacerdoti che
guardano quei tesori?»
«Scongiurerò anche quelli, se ci
saranno ancora; credo però che il mio fidanzato abbia scambiato delle ombre per
degli esseri viventi.»
«Non lo avrebbero acciecato.»
Nefer non rispose. Pareva che
fosse assai preoccupata ed inquieta. Anzi un tremito nervoso agitava fortemente
le sue braccia ed i suoi occhi cercavano di non incontrarsi mai con quelli del
Figlio del Sole.
Con due bordate, soffiando la
brezza abbastanza forte, la barca raggiunse finalmente l'isola, rifugiandosi in
una piccola cala le cui rive erano coperte da immense palme e alla cui
estremità si rizzava maestoso l'enorme obelisco dorato, lanciando la sua punta
a più di quaranta metri d'altezza.
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