Quando Nefer ritornò alla riva,
Mirinri si trovava ancora là, seduto alla base dell'obelisco, colla daga
snudata in mano e lo sguardo fisso verso il margine della foresta, pronto certo
ad accorrere in aiuto della fanciulla, se qualche pericolo l'avesse minacciata.
Vedendola uscire dallo squarcio
aperto fra la muraglia di verzura, si era prontamente alzato, muovendole
incontro. Nefer lo accolse con un sorriso e con uno sguardo intenso.
«L'isola è tua, mio signore,» gli
disse. «Gli spiriti dei re Nubiani sono rientrati nei loro sarcofaghi e non ne
usciranno finché io non lo vorrò.»
«Li hai veduti, tu?» chiese
Mirinri.
«Sì, vagavano sulle cime delle
palme.»
«Chi sei tu, che possiedi una
tale potenza? Io ho udita la tua invocazione e poi un gran rumore che ha
spaventato gli etiopi e anche Ata e Ounis.»
«Erano i sarcofaghi che si
richiudevano,» rispose Nefer sottovoce.
«Io finora non ti avevo creduto.»
«Ed ora?»
«Invidio la tua potenza occulta.
Se io la possedessi, forse a quest'ora Menfi l'orgogliosa sarebbe mia e mio
padre sarebbe stato vendicato.»
«Io nulla posso contro i vivi,»
disse Nefer.
«Sei stata al tempio?»
«Sì ed ho ripetuto dinanzi alle
sfingi il possente scongiuro. Ecco perché ho tardato a tornare, mio signore.»
«Non hai veduto nessun lume
brillare là dentro?»
«Regnava una oscurità profonda ed
un silenzio assoluto. Coloro che hanno acciecato il mio fidanzato devono essere
morti o fuggiti.»
«Non avranno asportati anche i
tesori che tu affermi si trovassero nei sotterranei?»
«Domani noi ce ne assicureremo,»
rispose Nefer. «Un giorno perduto non ritarderà troppo la conquista del trono a
cui hai diritto, mio signore.»
«E poi non possiamo per ora
riprendere il viaggio,» disse Mirinri, la cui fronte si era oscurata. «Quelle
quattro barche ci sorvegliano: tutti ne siamo convinti e forse aspettano che
noi prendiamo il largo per assalirci. Sali a bordo e va' a riposarti,
fanciulla.»
Nefer lo seguì, senza aggiungere
altro, e invece di recarsi nella sua cabina, si sedette a prora, su un cumulo
di cordami.
Una viva ansietà regnava fra
l'equipaggio e anche Ounis ed Ata apparivano molto preoccupati. Sentivano
tutti, meno Mirinri, che un pericolo li minacciava. La presenza di quelle
quattro barche, che non si decidevano a lasciare la riva del Nilo, aveva fatto
perdere la calma sia agli etiopi che ai due capi. Ormai erano più che convinti
di aver di fronte dei nemici e non già dei semplici trafficanti.
«Sono sempre là?» aveva chiesto
Mirinri, appena salito a bordo, raggiungendo Ounis e Ata che vegliavano
attentamente, sdraiati sul casseretto.
«Sempre,» aveva risposto il
vecchio.
«Che attendano l'alba per
andarsene?»
«O per assalirci, invece?» disse
Ata.
«Che osino accostarsi a
quest'isola che tutti sfuggono?»
«Questo non lo so e può darsi che
non si sentano tanto coraggio, ma quand'anche rimanessero là a guardarci, noi
non potremmo riprendere il viaggio. Essi ci tengono come prigionieri.»
«Saranno in molti gli uomini che
le montano?»
«Le barche sono grosse, mio
signore,» rispose Ata, «e avranno equipaggi numerosi quanto il nostro. Mi
guarderei perciò bene dall'esporre la tua vita preziosa.»
«Io sarò pronto a proibirlo,»
disse Ounis, che sembrava più inquieto di Ata. «Se tu Mirinri cadi nelle mani
di Pepi, egli non ti risparmierà ed il tuo bel sogno sarebbe per sempre finito
e tuo padre rimarrebbe invendicato.»
«Aspettiamo l'alba,» disse il
giovane. «Io farò quello che tu vorrai, Ounis, perché debbo a te e alla tua
prudenza la mia vita. Come ho atteso tanti anni, posso attendere dei giorni.
Menfi è sempre laggiù e non mi sfuggirà.»
Ad un tratto trasalì. Il piccolo
veliero si era spostato bruscamente, come se avesse ricevuto nei fianchi un
forte colpo.
Ata e Ounis erano balzati in
piedi, guardando intorno con ansietà, mentre gli etiopi correvano lungo le
murate in preda ad un vivo panico.
Qualche cosa doveva essere
avvenuto, poiché il veliero, quantunque l'acqua non fosse agitata entro quel
minuscolo seno, continuava a oscillare sempre più vivamente, accennando a
coricarsi su un fianco.
D'improvviso un grido sfuggì ad
Ata:
«Affondiamo! Salvati, Figlio del
Sole! Ecco il tradimento che presagivo!
Tutti precipitarono verso prora,
dove Nefer stava sempre seduta, tranquilla, impassibile. Nemmeno udendo il
grido di Ata si era mossa; solo sulle sue labbra era comparso un lieve sorriso.
«Prima il Figlio del Sole!»
comandò Ata, arrestando con un gesto gli etiopi che stavano per rovesciarsi sul
ponte volante che aveva servito a Nefer per scendere a terra.
«La fanciulla, prima,» disse
invece Mirinri.
Il viso di Nefer s'illuminò d'una
gioia intensa.
«Grazie, mio signore,» diss'ella
alzandosi.
«Presto: la nave si rovescia,»
rispose Mirinri vedendola inchinarsi rapidamente sul tribordo.
Nefer balzò agilmente sul
pontile, leggera come un uccello, passò e poi la seguirono precipitosamente gli
altri.
Si erano appena radunati dinanzi
all'immenso obelisco, quando il piccolo veliero si capovolse colla chiglia in
aria, spezzando di colpo la fune a cui era appeso il masso che serviva
d'àncora.
La corrente che, entrando nel
seno, vi faceva il giro, subito lo prese e se lo portò via, prima che gli
etiopi, non ancora rimessisi dal panico, avessero pensato a fermarlo.
Per alcuni istanti fra tutti
quegli uomini regnò un profondo silenzio. Fu Mirinri che pel primo lo ruppe.
«È la mia sorte e fors'anche il
mio trono che se ne vanno,» disse.
«Maledizione!» esclamò Ata «Ci
hanno presi!»
«Non ancora,» disse Ounis, che
aveva subito ricuperato il suo sangue freddo. «Ero certo che noi non saremmo
giunti a Menfi come tranquilli passeggieri e che l'usurpatore ci avrebbe
preparati degli agguati lungo la via.»
«Che vi sia qualche traditore fra
noi?» chiese Mirinri. «La tua barca era solida, Ata, e non può essere affondata
da sola.»
«Gli uomini che montano quelle
barche che l'hanno trapanata,» rispose Ata. «Su ciò non ho alcun dubbio. Essi
hanno approfittato dell'oscurità della notte per attraversare il fiume e per
aprire i fianchi del veliero.»
«Allora sanno che io ero sulla
tua barca.»
«Pepi ha disposto certamente
numerose spie lungo le rive del fiume,» disse Ounis. «Egli forse sa più di
quanto noi crediamo e questa è una prova che gli era nota la nostra partenza dal
deserto.»
«Ed ora che cosa faremo? Come
potrò io recarmi a Menfi?» chiese Mirinri. «Che tutto sia finito e che la mia
stella sulla quale tu, Ounis, riponevi tante speranze, sia tramontata per
sempre?»
«Mio signore,» disse Nefer,
«pensa innanzi a tutto a salvarti; vedo le barche dirigersi verso l'isola.»
Tutti si erano voltati, guardando
la riva opposta. Le quattro barche avevano levate le pietre che servivano
d'àncora e veleggiavano già lentamente attraverso il Nilo.
«Vengono!» avevano esclamato
tutti.
«E non abbiamo più armi per
difenderci,» disse Ata, con rabbia.
«Io vi salverò» disse Nefer.
«Tu!» esclamò Mirinri.
«Sì, mio signore.»
«In quale modo?»
«Conducendovi nel tempio dove
riposano gli antichi re nubiani. Ormai i loro spiriti sono placati e non avete
più nulla da temere e nessuno di quegli uomini che montano le barche oserebbe
seguirvi fino là.»
«E tu ci giuri che non troveremo
invece dei nemici?» chiese Ounis.
«Su Osiride, lo giuro,» rispose
la fanciulla. «Seguitemi, prima che le barche approdino e che le freccie degli
arcieri vi colpiscano. Guardate: s'affrettano.»
«Bada, fanciulla, che se tu
c'inganni, anche se tu sei una Faraona non ti risparmieremo,» disse Ata, con
voce minacciosa.
«Io non potrò difendermi e sono
in mano vostra. Seguitemi, se vi preme la vita.»
Il timore che Mirinri potesse
cadere nelle mani dei guerrieri di Pepi fece risolvere Ounis, tanto più che non
potevano opporre alcuna resistenza nel caso d'un attacco, non avendo avuto il
tempo di salvare le loro armi.
Si cacciarono frettolosamente
entro lo squarcio aperto della foresta e si misero dietro a Nefer, la quale
procedeva con passo lesto avanzandosi sotto i grandi alberi.
Quell'isolotto, fertilizzato
dalle acque del Nilo, che nel colmo della piena dovevano inondare, era ingombro
di piante superbe, le quali si erano sviluppate enormemente.
Era un vero caos di camerope a
ventaglio dal bel fusto cilindrico, nodoso solamente alla base, coronato alla
sommità da un magnifico ciuffo composto di trenta o quaranta foglie, piante
assai pregiate anche dagli antichi egizi, i quali si nutrivano delle sue
frutta, delle giovani foglie e anche della sostanza farinosa contenuta nel
tronco. Al di sotto di quella immensa vôlta di verzura, racchiusa in vere reti
di piante arrampicanti, si ergevano gruppi di euforbie, da cui si estrae un
succo corrosivo, che sostituisce oggi il caucciù e che è così potente da
bruciare le stoffe e da produrre delle ferite dolorose sulle carni, e cespugli
foltissimi che rendevano il passaggio difficilissimo.
Nessun animale si presentava agli
sguardi del drappello, il quale continuava ad avanzare rapidamente. Solo fra i
rami svolazzavano pochi uccelli acquatici, degli anastomi e dei falchi.
Pareva che quell'isolotto fosse
assolutamente deserto, non udendosi alcun rumore in alcuna direzione.
L'incantesimo della maliarda era dunque pienamente riuscito, così almeno la
pensavano i superstiziosi etiopi.
Avevano percorso già un lungo
tratto, aprendosi faticosamente il passo fra quelle masse di vegetali, quando
tutti si fermarono di colpo, mandando un grido di stupore.
Ai primi raggi del sole che stava
sorgendo si erano trovati improvvisamente dinanzi al tempio meraviglioso, il
quale s'innalzava in mezzo ad una spianata sgombra d'alberi.
«Ecco il luogo ove dormono le
spoglie degli antichi re nubiani,» disse Nefer.
Quel tempio era di dimensioni
enormi, dimensioni d'altronde che gli architetti egiziani amavano, essendo
abituati a fare tutto in grande: colossali le piramidi, colossali gli
obelischi, colossali le dighe, i bacini, le stanze funerarie ed i palazzi.
Era un dado mostruoso, colle
facciate però pendenti, sormontato da un altro di dimensioni meno vaste, con
una piramide tronca al centro, formato tutto di blocchi enormi di pietra
calcarea, tratta senza dubbio dalla duplice catena arabica e libica, quella
catena che provvide al vecchio Egitto i materiali necessari per innalzare le
sue gigantesche piramidi.
Numerose iscrizioni ed un numero
infinito di figure coprivano le pareti, rappresentanti divinità, re in gran
costume, montati su carri di guerra, scene di caccia e animali d'ogni specie.
Nel mezzo, in un gran quadrato,
giganteggiavano le tre maggiori divinità adorate dagli Egizi: Osiride, seduto
su una specie di trono, con un altissimo cappello e l'immancabile barba
quadrata appiccicata sotto il mento: Iside, una dea che aveva il corpo
seminudo, pure seduta su un trono e che aveva in testa uno strano trofeo,
sormontato da due corna, e la vacca Hathor, che fra le due corna reggeva il
sole contornato da parecchi simboli e che posava il muso sulla testa d'un uomo.
Ai due lati della porta che
metteva nel tempio, si ergevano due obelischi massicci, istoriati al pari delle
pareti e dinanzi a loro, su una doppia linea, in modo da formare una specie di
viale, stavano due dozzine di sfingi colle teste di re, appartenenti
probabilmente alle prime dinastie.
«Chi può aver costruito questo
magnifico tempio in questo luogo?» si chiese Mirinri, che mai prima di allora
ne aveva veduto uno. «Lo sai tu, Nefer?»
«Entra,» gli disse invece la fanciulla,
prendendolo per una mano e traendolo quasi con violenza verso la porta.
«Circondate il Figlio del Sole,»
disse il sospettoso Ata rivolgendosi agli etiopi.
«Non è necessario,» disse Nefer.
«Nessun pericolo lo minaccia e rispondo della sua vita. Seguitemi tutti!»
La voce della fanciulla, che era
ordinariamente dolce e quasi triste, era diventata improvvisamente imperiosa.
Mirinri che non era molto superstizioso e che d'altronde non provava alcun
timore, fece segno agli etiopi di fargli largo e si lasciò condurre nel tempio.
La luce, che entrava liberamente
dall'ampia porta, permise loro di scorgere un numero infinito di magnifiche
colonne, i cui capitelli si perdevano nell'alto, tutte coperte di strane
pitture in rosso, in nero ed in turchino, le tre tinte favorite degli Egiziani.
Alcuni rappresentavano dei Re del primo impero, seduti sui loro troni, che
altro non erano che delle semplici sedie massiccie molto basse, con in mano le
insegne dell'autorità regale, rappresentate da un bastone un po' ricurvo verso
la cima e da una specie d'uncino, altre dei guerrieri in atto di trafiggere dei
prigionieri; poi delle divinità rappresentate da uomini con la testa di bue,
ibis, coccodrilli e gatti.
In mezzo all'immensa sala
giganteggiava la statua d'un re in atto di minacciare qualcuno, con una immensa
barba quadrata appesa al mento e armato d'una specie di falce molto ricurva, la
prima arme usata dai guerrieri e dai re della prima dinastia.
«Dove mi conduci, Nefer?» chiese
Mirinri, vedendo che la fanciulla non si arrestava.
«Nella mastaba, mio
signore,» rispose la maliarda, senza lasciargli la mano. «È nel sepolcreto che
deve trovarsi il tesoro degli antichi re nubiani ed è là che nessuno oserà
venire a cercarti.»
Attraversarono il tempio in tutta
la sua lunghezza, seguiti da Ounis, da Ata e dagli etiopi, finché giunsero
dinanzi ad una porta di bronzo che era socchiusa e su cui stava scolpito, entro
un disco, uno scarabeo che era il simbolo dei successivi rinascimenti del sole
ed un uomo colla testa di montone, rappresentante il dio solare.
«La mastaba è dinanzi a
noi,» disse Nefer.
«Ci vedremo, là dentro?» chiese
Ounis. «Noi non abbiamo alcun lume con noi.»
«Vi è un foro in alto che ci darà
luce sufficiente.»
«Avanti dunque.»
Invece di obbedire Nefer aveva
fatto un passo indietro come se fosse stata colta da un improvviso terrore o da
una grande perplessità.
«Hai udito qualche rumore?»
chiese Mirinri.
«No, mio signore,» rispose la
fanciulla tergendosi con un moto nervoso della mano alcune stille di freddo
sudore.
«Avresti paura delle mummie che
tu hai ricacciate nei loro sarcofaghi?»
«Nefer non teme i morti perché sa
scongiurarli, tu lo sai.»
«Dunque?» chiesero Ounis e Ata.
Parve che la fanciulla facesse
uno sforzo supremo, poi con ambe le mani spinse risolutamente la massiccia
porta di bronzo, sussurrando a Mirinri:
«Tu non hai nulla da temere,
Figlio del Sole.»
Un buffo d'aria umida investì
Nefer, facendole volteggiare intorno i leggeri tessuti che la coprivano; ma
quell'aria non era impregnata di quel tanfo sgradevole che regna di solito nei
sepolcreti, anzi pareva che fosse satura d'un sottile e misterioso profumo.
Una scala si trovava dietro alla
porta. Nefer la discese, tenendo Mirinri per una mano e si trovarono in una
immensa sala sotterranea, scavata nel vivo masso e illuminata da un foro
circolare da cui penetrava un getto di raggi solari.
Era la mastaba.
Gli Egiziani, sia delle prime
come delle ultime dinastie, hanno avuto sempre una grande cura nel prepararsi i
loro sepolcri.
I Faraoni si seppellivano entro
le grandiose piramidi; i grandi ed i ricchi nelle mastaba ossia in
immense sale sotterranee, sormontate da una piramide per lo più tronca, a base
rettangolare, la cui lunghezza e profondità variavano secondo il gusto dei
costruttori, mentre l'altezza non superava ordinariamente i sette od otto
metri.
Le quattro facciate di quei vasti
sepolcreti, che racchiudevano sovente un gran numero di mummie, erano piane,
senza alcun ornamento né apertura, all'infuori d'una porta che s'apriva sempre
verso l'oriente, ossia verso il punto dove s'alzava il sole, il grande astro
che racchiudeva l'animo di Osiride. Anzi quei sepolcreti erano sempre orientati
con grande esattezza, onde potessero avere le quattro facce della piramide
sovrastante le vôlte verso ognuno dei quattro punti cardinali e l'asse
trasversale nella direzione nord e sud.
Specialmente attorno alle
colossali piramidi ove dormivano i re si costruivano le mastaba, più o
meno vaste, secondo la fortuna dei defunti, regolarmente allineate e separate
da viali come i quartieri delle grandi città dell'antico Egitto.
Gli scavi fatti eseguire dagli
egittologi durante lo scorso secolo ne hanno messo allo scoperto un gran numero
e dall'alto della piramide di Cheope se ne poterono indovinare molti altri, per
la loro forma geometrica che ha dato alle sabbie delle forme molto pronunciate,
ma quante se ne trovano ancora nascoste sotto l'antico suolo? Forse migliaia e
migliaia di mummie dormono dimenticate ancora sotto le sabbie, che hanno ormai
invaso tanta parte dell'Egitto e probabilmente nessuno riuscirà mai a metterle
allo scoperto.
L'interno di quelle tombe era
diviso in tre parti distinte: la cappella, il corridoio chiamato serdab e
la cripta, ossia la vera tomba sotterranea destinata a contenere le mummie.
Di questi tre reparti, la sola
cappella era accessibile ai viventi ed era la cameretta nella quale si
raccoglievano i parenti in certi anniversari per recitarvi le preghiere dei
morti e deporvi le offerte e le provviste destinate a sostenere l'anima del defunto
nel grande viaggio all'altro mondo.
Era in certo qual modo la sala di
ricevimento del così detto doppio, essere intermediario fra il corpo e
l'anima, nella quale soggiornava fino a che la mummia non fosse completamente
distrutta dal tempo.
In quella cappella vi erano due
oggetti importantissimi: una tavola chiamata stele, fissata entro una
nicchia col nome, le funzioni e qualità del defunto ed una sporgenza di granito
la cui superficie, incavata a compartimenti ed a scanalature, serviva a
ricevere gli alimenti destinati al trapassato.
Talvolta si ergevano anche, a
destra ed a sinistra del sarcofago, due minuscoli obelischi con iscrizioni che
riguardavano la biografia del morto.
Nefer era discesa, dopo una breve
esitazione, nella cappella, quindi essendo la porta di bronzo della cripta
aperta, vi era entrata con una certa rapidità, mostrando colla mano a Mirinri
una trentina di sarcofaghi che stavano allineati lungo le pareti, alla distanza
d'un metro e mezzo l'uno dall'altro.
«Là dentro che si trovano le
mummie dei re nubiani?» aveva chiesto il giovane.
«Sì,» aveva risposto Nefer, «e
dentro quei sarcofaghi tu troverai i tesori di cui ti ho parlato.»
«Ne sei ben sicura?»
«Il mio fidanzato che fu
acciecato li vide.»
«In che cosa consistono?»
«In turchesi, in rubini, in perle
ed in smeraldi. Tu, mio signore, puoi raccogliere qui delle somme favolose che
ti basteranno a sufficienza per muovere la guerra a Pepi. Avanzate...»
Mirinri, seguito da Ounis, da Ata
e dagli etiopi, si fece innanzi con un certo rispetto, guardando con viva
curiosità le bare che, al pari di quelle egiziane, riproducevano delle teste
nerissime cogli occhi scintillanti, che mandavano bagliori strani.
Il drappello s'avanzò
nell'immenso sotterraneo, mentre invece la fanciulla indietreggiava lentamente
verso il corridoio, ossia il serdab.
Ad un tratto un colpo sordo, che
si ripercosse lungamente nel sotterraneo, fece arrestare Mirinri, Ata ed Ounis
che erano già giunti a metà della mastaba.
Un triplice grido rimbombò nel
sepolcreto degli antichi re nubiani.
«Nefer!»
Nessuna voce rispose. La porta di
bronzo che separava la serdab dalla cripta era stata violentemente
chiusa e la fanciulla era scomparsa.
«Siamo stati traditi!» aveva
esclamato Ata, gettandosi dinanzi al giovane Faraone come se avesse voluto
proteggerlo da qualche improvviso pericolo. «Lo sospettavo. Ah! Ounis, perché
mi hai impedito di gettarla nel Nilo?»
«Nefer fuggita!» esclamò Mirinri,
che non voleva ancora credere ad un simile tradimento. «No! È impossibile! Si
sarà nascosta dietro ad una di quelle colonne!»
«La porta di bronzo è stata
chiusa,» disse Ounis, con profonda angoscia, «e noi siamo prigionieri entro
questo sepolcreto dove forse morremo di fame e di sete.»
«Nefer!» gridò Mirinri,
respingendo impetuosamente Ata e slanciandosi verso la porta di bronzo, che
percosse furiosamente coi pugni.
Anche questa volta nessuno
rispose alla sua chiamata.
«Salviamo il Figlio del Sole!»
urlò Ata. «A me, etiopi! Difendiamolo coi nostri petti!»
Gli erculei battellieri stavano
per chiudere nel mezzo il giovane faraone, quando un grido di spavento ed
insieme di stupore fuggì da tutte le bocche:
«I morti risuscitano!»
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