Mirinri, Ata, Ounis ed i nubiani,
in preda ad una emozione impossibile a descriversi, si erano precipitosamente
rifugiati verso la scala che conduceva alla serdab, e che la
porta di bronzo chiusa da Nefer non permetteva di salire fino al pianerottolo.
Uno spettacolo terrificante era
avvenuto nell'immensa cripta; i coperchi dei sarcofaghi, che dovevano chiudere
le mummie degli antichi re nubiani scricchiolavano ed a poco a poco si
alzavano, come se i defunti stessero per risuscitare.
Erano le ombre dei morti che
Nefer pretendeva di aver ricacciati nei loro sarcofaghi e che tornavano a
uscire, quelle terribili ombre che spaventavano tutti i rivieraschi del fiume?
Tutti si erano addossati contro
la porta, guardando cogli occhi sbarrati i coperchi che continuavano ad
alzarsi, scricchiolando con un crescendo sinistro. Solo Mirinri era rimasto sul
primo gradino, guardando intrepidamente le bare, come se volesse sfidare quelle
terribili ombre. Certo l'anima del giovane Faraone non tremava, perché nemmeno
un muscolo del suo volto aveva trasalito come non aveva trasalito alcuno di
quelli di Ounis. Anche il vecchio sacerdote che lo aveva allevato conservava
una calma superba e pareva più preoccupato ad osservare Mirinri che i
sarcofaghi.
Ad un tratto, con immenso stupore
degli etiopi e degli egiziani, si udirono uscire da quei secolari feretri dei
suoni dolcissimi, che si fondevano insieme con un accordo ammirabile.
Erano note flebili di flauti, di
quei sab che sono tutt'oggi così estremamente difficili a suonare, specialmente
quelli di bronzo quantunque simili istrumenti fossero piuttosto rari in quelle
lontanissime epoche; erano note di quei doppi flauti chiamati zargbocel, di
banit ossia di arpe semicircolari e di nadjakhi ossia di specie
di lire, che avevano da sei a quindici corde, molto in uso in quell'epoca.
Gli etiopi, sempre spaventati,
essendo maggiormente superstiziosi degli egiziani, avevano dato indietro, non
pensando più a difendere il Figlio del Sole.
Nemmeno Ata si era gettato più in
difesa del giovane, il quale d'altronde non sembrava che avesse bisogno di
chiedere soccorso a chicchessia.
D'improvviso tutti i coperchi dei
sarcofaghi s'alzarono come d'un colpo solo ed una legione di fanciulle
bellissime, coperte appena da leggeri veli e adorne di ricchissimi
braccialetti, di collane e di anelli, sgusciò fuori, allineandosi lungo le
pareti della cripta.
Erano tutte di bellezza
meravigliosa, vestite colla suprema eleganza delle danzatrici e delle
suonatrici di quell'epoca che dettavano la moda perfino alle figlie dei
possenti Faraoni e profumate dai piedi ai capelli. Ognuna teneva in mano un
istrumento musicale: flauti, arpe, sistri, crotali in bronzo, che battevano
l'uno contro l'altro, triangoli, chitarre leggerissime col manico lunghissimo e
cimbali di metallo chiamati kimkim che davano dei suoni penetranti i
quali echeggiavano fortemente le vôlte dell'immenso sepolcreto.
«Chi siete voi?» aveva gridato
Mirinri, balzando dall'ultimo gradino, coll'impeto d'un giovane leone.
«Fanciulle od ombre di re nubiani? Il Figlio del Sole non trema dinanzi a voi.»
Uno scoppio di risa argentine fu
la risposta.
Le fanciulle, senza smettere di
suonare i loro istrumenti musicali, si radunavano lentamente verso l'estremità
opposta della cripta, dove si scorgeva un superbo scalone di quella splendida e
pregiata pietra calcarea tratta dalle montagne della catena libica.
Mirinri aveva fatto atto di
slanciarsi attraverso la mastaba e di piombare sulle fanciulle, ma Ata e
Ounis si erano affrettati a trattenerlo.
«No!» avevano gridato entrambi.
«Non sogniamo noi! Sono ombre! Qui vi è qualche maleficio di Nefer.»
«Che io spezzerò!» aveva risposto
il giovane eroe. «Io, senza avere la potenza di quella fanciulla, ricaccierò
tutti costoro nei loro sarcofaghi, dove forse dormivano da secoli e secoli. Io
non sono un mortale qualunque! Sono un Figlio del Sole!»
Con una brusca scossa si era
liberato della stretta di Ata e di Ounis e stava per scagliarsi contro le
fanciulle, che pareva lo guardassero malignamente, quando la porta che si scorgeva
sulla cima del grande scalone si aprì di colpo, con immenso fragore e comparve
una giovane donna tutta avvolta in veli trapunti d'oro, ed i lunghi capelli
neri sciolti sulle spalle seminude, accompagnata da quattro fanciulle che
tenevano in mano delle lampade.
Mirinri si era subito arrestato
mandando un grido: «Nefer!»
Era proprio la maliarda che si
mostrava sull'ampio pianerottolo dello scalone, fra la luce delle lampade, più
bella e più seducente che mai. I suoi occhi nerissimi, animati da una fiamma
intensa, bruciante, si erano subito fissati sul giovane Faraone.
«Tu, Nefer!» aveva ripetuto
Mirinri. «Tu, miserabile, che ci hai traditi? Vuoi la mia vita? Prendila
dunque!»
Un'espressione d'intenso dolore
aveva alterato il bel viso della fanciulla.
«Chi ti ha detto che io t'ho
tradito, mio signore, io che sarei così lieta di dare tutto il mio sangue per
te? Io ti ho salvato, mio dolce signore, dagli uomini che t'inseguivano e che
se ti avessero raggiunto t'avrebbero condotto prigioniero a Menfi, spezzando
per sempre il tuo bel sogno e distruggendo tutte le tue future speranze.»
«Tu mi hai salvato! Ma se io sono
tuo prigioniero!»
«Che cosa te lo dimostra? Vuoi
tornare nelle foreste dell'isola? Io farò aprire tutte le porte della mastaba
e del tempio, ma dove andrai tu ora che i guerrieri di Pepi hanno distrutto la
tua barca e che non hai nemmeno un'arma per difenderti? Lo vuoi, Figlio del
Sole? Un solo tuo cenno e sarai libero insieme ai tuoi compagni.»
Il giovane Faraone era rimasto
silenzioso, guardando con crescente stupore la fanciulla, che si teneva sempre
ritta sul pianerottolo della vasta gradinata, tutta avvolta in una leggera
veste azzurrina, aperta solo dinanzi al petto e colle braccia e le gambe adorne
di meravigliosi gioielli, che la luce delle lampade facevano vivamente
scintillare.
Anche Ata e Ounis non avevano
aperto bocca. Pareva che la sorpresa li avesse resi muti.
«Infine che cosa vuoi da me?»
chiese Mirinri, dopo un lungo silenzio.
«Che tu accetti, finché i tuoi nemici
se ne saranno andati, l'ospitalità che ti offre la principessa dell'isola delle
ombre. Vieni, mio signore: la tavola è pronta e tu ed i tuoi compagni dovete
aver fame.»
«Sogno io?» esclamò Mirinri,
volgendosi verso Ata ed Ounis.
«Non ci sembra, quantunque
tuttociò abbia l'apparenza d'un vero sogno,» rispose Ata. «Quella fanciulla è
un essere assolutamente straordinario e mi sembra più una divinità discesa dal
sole per proteggerti, mio signore, che una creatura umana.»
«Dunque l'istoria del tesoro dei
re nubiani era una favola, è vero Nefer?» disse Ounis.
«Taci, vecchio Ounis» rispose
Nefer. «Sii contento di essere ancora vivo e di rivedere al tuo fianco quel
Figlio del Sole a cui dedicasti la vita.»
«Tu devi spiegarci tante cose.»
«Te le spiegherò più tardi, se lo
vorrai. Pensiamo per ora a divertirci.»
Scese la gradinata, sempre
seguita dalle quattro fanciulle, prese per mano Mirinri, senza che questi
avesse opposto la minima resistenza e risalì verso la porta entrando in un
immenso salone la cui vôlta era sorretta da due dozzine di splendide colonne
istoriate e dipinte.
Da una larga apertura
rettangolare, che s'apriva in alto, scendeva, essendo il sole già alto, una
luce vivissima, la quale si rifletteva intensamente sul pavimento marmoreo, che
era lucidissimo.
Fra i due ordini di colonne vi
erano una trentina di piccole tavole, alte appena pochi palmi dal suolo; dietro
a ciascuna, delle pelli di animali che dovevano servire come sedili o meglio
come tappeti e dinanzi delle grandi anfore di terracotta verniciata, col collo
lunghissimo, che reggevano degli enormi mazzi di fiori di loto bianchi, rossi
ed azzurri i quali spandevano dei deliziosi profumi.
Nefer condusse Mirinri presso una
di quelle tavole e lo fece sedere su una magnifica pelle di leone, mettendoglisi
accanto.
Ounis, Ata e gli etiopi si erano
accomodati intorno alle altre, due per due, mentre le suonatrici si coricavano
intorno alle colonne, facendo vibrare i loro istrumenti musicali, in modo da
non impedire che i convitati potessero parlare ed intendersi.
«Tu sei una dea, Nefer!» aveva
esclamato Mirinri, che fiutava avidamente i profumi deliziosi di cui era
impregnata la leggera veste della fanciulla. «È impossibile che tu sia una
mortale.»
«Perché, mio signore?» chiese la
fanciulla, sorridendogli e guardandolo cogli occhi languidi.
«Tu hai compiuto delle cose così
meravigliose e hai cambiato tante volte il tuo essere, che io non riesco più a
capirci nulla. Prima una povera maliarda, poi una Faraona ed ora?»
«La principessa dell'isola delle
ombre.»
«E domani forse regina
dell'Egitto.»
«Lo vorrei ben essere, mio dolce
signore, per dividere il potere supremo con te. Disgraziatamente questo sogno,»
aggiunse la fanciulla con un amaro sorriso, «non si avvererà mai.»
«Perché Nefer? Chi può dirlo?»
«Perché tu, mio signore, ami
un'altra e la fiamma non si spegnerà mai.»
«Perché vuoi turbare il mio
spirito, Nefer? In questo momento io non pensavo alla Faraona e non vedevo
dinanzi ai miei occhi che te.»
«Hai ragione, mio dolce signore,»
rispose la fanciulla.
Intanto una dozzina di
giovanette, che avevano una larga cintura di stoffa trapunta in oro stretta ai
fianchi e che portavano in testa dei pezzi di stoffa pieghettati, cadenti in
linea retta lungo gli orecchi, l'acconciatura ordinaria delle sfingi, irruppero
nella sala, recando corone di fiori e anfore d'oro squisitamente cesellate e
tazze d'egual metallo e d'argento.
Una di esse, che aveva delle
splendide forme scultoree, s'avvicinò al tavolino dinanzi a cui stavano seduti
Mirinri e Nefer e posò due corone di fiori sul capo e sul collo di entrambi,
come voleva l'uso, poi presa ad una compagna un'anfora, riempì due tazze d'un
vino color del rubino e profumato.
«Bevi la luce dei miei occhi,»
disse Nefer, porgendo una tazza a Mirinri. «Io berrò la potenza che emana dal
tuo corpo, o Figlio del Sole.»
Il giovane ebbe una breve
esitazione, poi la vuotò, subito imitato dalla fanciulla.
Anche Ata e Ounis avevano avuto
corone e vino e nemmeno gli etiopi erano stati dimenticati.
Frattanto la musica riempiva
l'aria con delle vibrazioni strane che parevano invitare ad un dolce riposo,
mescolandosi al profumo acuto ed inebbriante dei fiori, che le belle fanciulle
di quando in quando rinnovavano. La lira, l'arpa, la cetra, il tamburello, il
flauto doppio e semplice univano i loro dotti accordi.
In tutti i banchetti degli
antichi egiziani la musica aveva una parte importante, come l'aveva pure nelle
cerimonie religiose. Pare che in quella lontana epoca avesse già raggiunto,
nell'immensa vallata del Nilo, un altissimo grado di perfezione. Essa faceva
parte di ogni buona educazione, come nei nostri tempi e non era raro vedere nei
templi le figlie dei Faraoni suonare il sistro, l'istrumento sacro delle
cerimonie religiose o l'arpa. Vi erano delle vere corporazioni di musiciste che
allietavano, specialmente dietro certi compensi, le feste, i banchetti e le
serate, insieme alle danzatrici, le quali, secondo il costume dell'epoca, si
mostravano anche in pubblico.
Le giovani nubiane per divertire
i convitati, i quali non perdevano il loro tempo a vuotare anfore colme di vino
e di birra, dopo d'aver rinnovati i fiori, avevano cominciato ad intrecciare
danze, che consistevano per lo più in corse sfrenate attorno alle colonne ed in
piroette vertiginose. Pareva che talvolta volessero precipitarsi contro le
piccole tavole occupate dai convitati; poi, sul punto di rovesciarle,
s'arrestavano bruscamente alzando le mani ed indietreggiando con dei larghi
movimenti.
Se gli etiopi si divertivano,
Mirinri e Nefer non sembrava che si occupassero né delle suonatrici, né delle
danzatrici e forse nemmeno Ata ed Ounis, i quali discutevano animatamente fra
di loro.
«Nefer,» aveva detto Mirinri,
dopo che le danzatrici avevano cominciate le loro danze. «Chi sono costoro?»
«Lo vedi, Figlio del Sole,» aveva
risposto la fanciulla. «Delle giovani donne che sono discese dall'alto corso
del fiume.»
«Sai perché ti ho fatto questa
domanda?»
«No davvero, mio signore.»
«Perché Ounis mi aveva narrato,
molto tempo fa, che si trova sul Nilo un'isola abitata esclusivamente da donne.
Sarebbe questa?»
«Non lo so,» rispose Nefer.
Mirinri la guardò con stupore.
«Non lo sai?»
«No.»
«Mi aveva detto anzi che vi era
una regina che comandava a quelle fanciulle.»
«Può darsi.»
«Non saresti tu quella?»
«Non credo.»
«Eppure finora io non ho veduto
nessun uomo qui.»
«Non è necessario.»
«Quale donna sei tu?» gridò
Mirinri.
«Che ne so io?»
«Non lo sai?»
«No, Figlio del Sole,» disse
Nefer, che era diventata pensierosa. «Vi è nella mia vita un mistero che tu
cerchi di svelare; ma perderesti inutilmente il tuo tempo, perché io stessa non
potrei sollevare il denso velo che l'avvolge. Mio signore, bevi: la vita è
breve e la morte può piombare su di noi da un istante all'altro e farci
attraversare il fiume infernale che divide i campi divini di Aanron. Bevi.
L'ebbrezza è la vita.»
«E questa vita potrebbe
spegnersi? Parla, Nefer! Io comincio ad aver paura di te.»
«Perché spegnersi?» chiese la
fanciulla. «Se qualcuno ti minacciasse, saprei difenderti, come la leonessa
difende la sua prole contro la ferocia del maschio affamato e molto meglio
della Faraona che tu ami e che forse, sapendo chi tu sei, t'ucciderebbe.»
«Chi sei tu, dunque? Sono già
parecchie volte che io te l'ho chiesto, Nefer.»
«Io l'ho domandato ad Amnone ed è
rimasto muto; l'ho domandato a Tanen e non mi ha risposto; l'ho chiesto a Mâ,
che rappresenta la verità e nulla mi disse; Râ, Horus, Ament, Hathor, Anoucke,
Iside, Neith sono rimasti egualmente muti. Sono una Faraona ed una maliarda
insieme; ho sangue divino nelle vene, al pari di te, perché porto il tatuaggio
dei discendenti del Sole e sono nel medesimo tempo una povera fanciulla, una
danzatrice, una suonatrice di sistro e una indovina. Sono io il destino od un
essere divino? Io non lo so, mio signore. Oggi sono la principessa delle ombre:
domani che cosa sarò? Nella mia vita ho un solo desiderio, e questo non posso
confessartelo, quantunque mi bruci il cuore. E poi» riprese la fanciulla, dopo
un momento di silenzio, con voce triste, «è una follìa che mi sarà fatale. No,
Nefer non vedrà il suo dolce signore far tremare i nemici del grande Egitto,
come l'invincibile suo padre.»
«Che cosa dici?» chiese Mirinri.
La fanciulla parve raccogliersi
un istante, poi disse con voce ancora più triste:
«Ieri sera mentre attraversavo la
foresta, immersa nei miei pensieri, ho avuto una visione.»
«Quale?»
«Ho veduto una immensa sala piena
di gente: vi erano sacerdoti, guerrieri, alti dignitari ed un re, uno dei
nostri Faraoni. Egli non era più sul trono dorato: giaceva sulle fredde pietre
della superba sala, come tramortito, mentre un vecchio lo copriva d'invettive,
minacciandolo col pugno ed una fanciulla, bella come un raggio di sole, lo
supplicava inginocchiata ai suoi piedi. Sul trono dorato vi era un giovane,
bello, forte, fiero che rassomigliava stranamente a te.»
«A me!» esclamò Mirinri,
scattando.
«Sì.»
«Continua.»
«Egli guardava intensamente
quella fanciulla supplicante, senza degnare d'uno sguardo un'altra, che fissava
invece intensamente lui e che piangeva.»
«Chi erano?»
«Non lo so,» disse Nefer.
«E quel giovane?»
«Non so chi fosse.»
«Io, forse?...»
«Non lo so,» ripeté Nefer.
«Mi hai detto che somigliava a
me. Tu sei indovina e puoi prevedere delle cose che io non potrei nemmeno
lontanamente concepire.»
«Lasciami finire.»
«Continua, Nefer,» disse Mirinri
che era in preda ad una viva eccitazione. «Che cosa è successo di quella
fanciulla che si era inginocchiata dinanzi a quel vecchio?»
«Non l'ho più veduta.»
«Chi era quel vecchio?»
«Un re di certo, perché portava
sulla testa il simbolo del diritto di vita e di morte.»
«E quel giovane che era sul
trono?»
«Anche lui l'aveva.»
«E poi che cosa hai veduto?»
«Una fanciulla, stesa sul
pavimento dell'immensa sala, che spirava, mentre le vôlte rintronavano d'un
immenso grido: viva il re dell'Egitto!»
«Morta!» esclamò Mirinri,
impallidendo.
«Mi parve che fosse agonizzante.»
«Forse la giovane Faraona?»
Nefer guardò Mirinri
intensamente, poi come parlando fra sé, disse: «Pensa sempre a lei.»
«Aveva gli occhi neri?» chiese il
Figlio del Sole, senza badare a quelle parole.
«Non lo ricordo.»
«I capelli nerissimi?»
«Le visioni si dimenticano
facilmente.»
«Parla, Nefer!» gridò Mirinri con
angoscia.
«Mi parve che avesse gli occhi sfolgoranti
d'una luce bruciante.»
«Come i tuoi?»
«I miei? Non bruciano il cuore
d'un Figlio del Sole,» rispose la fanciulla con un mesto sorriso. «Bevi, mio
signore. Tu sei mio ospite oggi e il vino della calda Libia mette il fuoco
nelle vene e dà l'obblìo.»
«Parla ancora!»
«Guarda: portano le vivande, mio
signore e tu non hai mangiato da dodici ore. Divertiamoci e non pensiamo
all'avvenire. Chi crede d'altronde ai sogni ed alle visioni? Io no e nemmeno tu
che sei un Figlio del Sole.»
Le nubiane avevano interrotte le
danze e una dozzina d'altre fanciulle coperte da leggerissime vesti rigate in
azzurro, bianco e rosso e che avevano sul capo delle corone di fiori erano
comparse, portando dei tondi d'argento colmi di manicaretti che esalavano un
profumo appetitoso, mentre dall'alto, dallo squarcio aperto nel tetto, cadevano
in tutte le direzioni mazzolini di fiori di loto.
Gli Egiziani nei loro banchetti
amavano sfoggiare un lusso veramente straordinario e non lesinavano le portate.
Non avevano certo raggiunto i Cinesi, i quali non si spaventavano dinanzi a
quaranta o cinquanta piatti svariati, tuttavia abbondavano anche essi, servendo
ai commensali un numero rispettabile di pasticci di carne, di uccelli acquatici
cucinati in molte salse, di pesci, di legumi squisiti e di frutta, specialmente
uva, datteri, fichi e semi di loto.
Al pari dei moderni orientali,
non facevano uso né di coltelli né di forchette e mangiavano a due a due e
anche in più al medesimo piatto, adoperando le dita, che poi pulivano con
apposite salviette che loro offrivano gli schiavi o le schiave. Usavano però
per le minestre dei cucchiai bellissimi, per lo più d'oro e d'argento, coi
manichi squisitamente lavorati, che rappresentavano delle persone in atto di
reggere faticosamente le estremità e delle teste di donna o dei gruppi di
fanciulle in atto di lottare fra di loro.
Ma era sopratutto nel bere che
eccedevano. Nei loro simposii, la birra ed il vino scorrevano a torrenti,
talvolta troppo copiosi, poiché le pitture scoperte sui loro monumenti ci
mostrano uomini e donne in preda a disturbi causati da eccessi di gola o
condotti a casa in pieno stato di ubbriachezza su dei palanchini.
Una cosa però che ha colpito
profondamente gli egittologi si è che nemmeno in mezzo alle loro orgie più
sfrenate, i sudditi dei grandi Faraoni dimenticavano l'idea della morte, che
pare fosse l'eterna preoccupazione di quegli antichissimi abitanti della
fertilissima vallata del Nilo. Infatti in tutte le loro riunioni non mancavano
quasi mai, nel colmo dell'allegria, di far comparire un piccolo feretro con una
figura di legno così ben dipinta da rappresentare perfettamente un cadavere,
che si mostrava a tutti i convitati più o meno ubriachi, dicendo loro: «Getta
gli occhi su quest'uomo: tu gli rassomiglierai dopo la morte; bevi dunque ora e
divertiti più che puoi!».
Se un anfitrione si permettesse
ai nostri giorni un simile scherzo, non so quale pessimo quarto d'ora
passerebbe e se le mani dei suoi ospiti rimarrebbero ferme; gli Egiziani invece
non vi facevano alcun caso e quel piccolo feretro non guastava affatto il loro
appetito, perché per loro la morte non aveva nulla né di terribile, né di
ripugnante. Essa li spaventava anzi tanto poco, che si compiacevano di
conservare talvolta in casa le mummie dei loro parenti per parecchi mesi, prima
di farle trasportare definitivamente nella mastaba della famiglia e non
era anche raro il caso che si riservasse a qualche mummia il posto d'onore nei
banchetti, senza che la presenza di quel lugubre convitato, dalle pupille fisse
e dal volto artefatto e accuratamente dipinto, che nascondeva la faccia
sinistra del cadavere, raffreddasse la gaiezza dei suoi vicini viventi o li
trattenesse dall'ubbriacarsi.
Il banchetto che Nefer aveva
offerto ai suoi ospiti era degno d'una grande principessa faraonica. Le portate
si seguivano alle portate, su piatti di metalli preziosi, ed i cibi ed i vini
erano squisitissimi, tanto anzi che a metà pranzo quasi tutti gli etiopi, che
non si erano probabilmente mai trovati in mezzo a tanta abbondanza, erano più o
meno ebbri.
Anche Ata e Ounis, che mangiavano
al medesimo tavolino, situato presso quello occupato da Mirinri e da Nefer,
sembravano eccitati e parlavano e ridevano fortemente. Certo anche l'acuto
profumo che esalavano i fiori, che venivano gettati continuamente dall'alto,
formando fra le piccole tavole dei veri cumuli, doveva contribuire a provocare
quell'ebbrezza, che pareva avesse colto tutti e alla quale non sfuggiva nemmeno
il giovane Figlio del Sole. Nefer d'altronde non si arrestava dal versargli
continuamente il dolce e delizioso vino delle montagne libiche.
«Bevi, mio signore,» gli diceva,
quando vedeva la coppa vuota, affascinandolo colla potenza dei suoi occhi
meravigliosi, dal lampo ardente e vivido. «L'ebbrezza è dolce e fa sognare e anche
dimenticare.»
«Sì, bevo, Nefer,» rispondeva
Mirinri che era ormai in preda ad una viva gaiezza. «Bevo la luce dei tuoi
occhi.»
Pareva che avesse dimenticata la
Faraona e che non vedesse ormai più che Nefer dinanzi a sé.
La musica intanto continuava e le
danzatrici non avevano cessato di piroettare agilmente, facendo volteggiare con
arte maestra le loro leggere vesti e le larghe sciarpe che si erano tolte dalle
ànche. Scoppi di risa si confondevano coi dolci fremiti delle leggere mandole,
ai tintinnii dei sistri, ai suoni dei pifferi doppi e semplici.
Nefer guardava sempre fisso negli
occhi Mirinri, come il serpente affascina l'uccello, senza che il giovane fosse
capace di sottrarsi a quel lampo ardente.
«Mi sembra che tu mi bruci il
cuore, Nefer,» disse ad un tratto Mirinri. «Non guardarmi più così, vi è un
fuoco strano nei tuoi sguardi che mi sembra voglia consumare qualche cosa che
mi sta impresso qui dentro.»
«Una visione?»
«Sì, l'eterna visione.»
«La giovane Faraona?»
«Chi sei tu che indovini tutto?»
«Ti ho già detto che io sono una
maliarda.»
«Ah! È vero, me n'ero
dimenticato.»
«Perché non vuoi che io ti
guardi?»
«Non lo so...»
«Temi che il fuoco dei miei occhi
arda e distrugga l'immagine di quella fanciulla?»
Mirinri, invece di rispondere, prese
la coppa che Nefer aveva in quel momento riempita e la vuotò d'un fiato, poi la
tenne sospesa guardandovi dentro.
«Che cosa cerchi?» chiese Nefer.
«Temi che io abbia mescolato al vino qualche filtro?»
«No: mi pareva d'aver veduto nel
fondo di questa tazza due occhi che non somigliavano ai tuoi e che mi
fissavano.»
«Coprili con dell'altro vino e
non li vedrai più,» rispose Nefer tornando a riempirgliela con un moto rapido.
«Ecco: sono scomparsi.»
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