Menfi, che fu la capitale delle
prime dinastie faraoniche, mentre Tebe la grande lo fu delle ultime, sorgeva
sulla riva sinistra del Nilo. Fondata da Menes, uno dei più grandi re egiziani,
circa sette od ottomila anni or sono, dopo lavori imponenti per trattenere le
acque del Nilo ed impedire ad esse d'invadere la città durante le piene, aveva
raggiunto rapidamente uno splendore immenso, tale anzi da formare la meraviglia
del mondo antico.
Gli Egiziani, lo abbiamo già
detto, erano grandi costruttori che ci tenevano a fabbricare le loro opere di
dimensioni immense, e d'una solidità tale da sfidare i secoli; a Menfi avevano
abbondato più che altrove in grandiosità, innalzando templi colossali, che un
numero infinito di colonne reggevano, obelischi mostruosi, palazzi reali
meravigliosi e piramidi. La città occupava un'area immensa, perché serviva
d'asilo a molte centinaia di migliaia di abitanti, spingendo le sue ultime case
fino sulle sabbie del deserto libico, su quelle sabbie traditrici, che dovevano
più tardi concorrere potentemente alla sua distruzione, secondo la sinistra
profezia di Geremia.
Tebe fu meravigliosa, ma non poté
raggiungere mai lo splendore di Menfi, che fu la più popolosa città del mondo
antico, come la più ricca, per monumenti e la più potente come piazza forte.
Come scomparve attraverso tanti
secoli quella grandiosa città, senza lasciare quasi traccia della sua
esistenza? Sembrerebbe impossibile, eppure di tutti quei monumenti colossali
oggidì non sono rimaste a dimostrare il luogo ove un giorno sorgeva, altro che
alcune piramidi che resistettero, assieme ad altre, agli insulti del tempo, un
pezzo di una statua colossale che rappresenta Ramsete II ed una necropoli, la
più antica del mondo, dacché ha all'incirca 7000 anni d'esistenza e che nel
tempo istesso è anche la più vasta, avendo una larghezza di ben sessanta
chilometri. Tutto il resto è crollato, come se una spaventevole scossa di
terremoto avesse tutto distrutto e quello che è più, perfino le rovine di quei
colossali monumenti sono scomparse.
Là dove un giorno sorgeva
orgogliosa la grande città dei più potenti e dei più fastosi Faraoni, ora non
si scorgono che colline di sabbia. Nulla è rimasto di tanta gloria e possanza e
la terra stessa, nutrice un giorno generosa di tante generazioni scomparse,
sembra si sia perfino essa stessa stancata di germogliare, perché solo nei mesi
di marzo e di aprile, allorquando le inondazioni hanno reso qualche vitalità
alle sue vene dissanguate, essa si copre appena d'una magra vegetazione, che i
venti caldi si affrettano poco dopo a disseccare.
La barca di Mirinri, o meglio di
Nefer, trascinata dalla corrente che aumentava sempre, aprendosi al di sotto
dell'immensa città le innumerevoli bocche del delta, s'avvicinava rapidissima a
quella imponente linea di grandiosi monumenti e di superbi palazzi, che si
estendeva per miglia e miglia lungo la riva sinistra del maestoso fiume.
Il giovane Figlio del Sole,
sempre ritto sulla prora, guardava l'orgogliosa città senza fare un moto, né
pronunciare una parola: pareva che fosse affascinato dalla grandezza e dallo
splendore della capitale del più antico regno del mondo, entro le cui mura
merlate e formidabili aveva aperto gli occhi alla luce, ma che dopo così tanti
anni non ricordava più. Il suo viso aveva assunto un aspetto quasi selvaggio e
la sua bocca semi aperta aspirava a pieni polmoni l'aria della immensa città,
che una fresca brezza sospingeva, al di sopra del Nilo, verso il settentrione:
aspirava il lontano profumo della giovane Faraona o la potenza del regno, che
suo padre aveva salvato dalle invasioni barbariche degli asiatici?
Ben presto la barca si trovò
dinanzi alle gigantesche dighe, formate da colossali blocchi di pietra, che in
quei tempi remoti opponevano una barriera insormontabile alle piene periodiche
del Nilo; esse erano ingombre di barche di tutte le dimensioni ancora occupati
da schiere di schiavi, quantunque la notte fosse per calare.
Ata, che era quasi sempre vissuto
a Menfi, diede ordine al comandante della barca di prendere terra all'estremità
dell'ultima diga, che difendeva gli ultimi sobborghi del mezzodì, dove
pochissimi erano i navigli, non osando sbarcare i suoi amici nel centro della
città. La polizia del re poteva essere stata avvertita da qualche traditore del
loro arrivo e prenderli subito. Nei lontani sobborghi la cosa era diversa ed in
caso disperato potevano, coll'aiuto dei trenta etiopi, opporre una feroce
resistenza e fuggire attraverso i canali del delta, prima che potessero
giungere le guardie del re.
«Mentre io vado ad avvertire gli
antichi partigiani di Teti,» disse Ata, quando la barca fu ormeggiata
saldamente alla riva, «voi andrete ad abitare nel Ta-anch
(quartiere degli stranieri) dove vi sarà più facile passare inosservati e là
attendere il mio ritorno. Vi sarà facile trovare qualche casetta e spacciarvi
per poveri battellieri assiri, caldei o greci.»
«Ed io riprenderò il mio mestiere
d'indovina,» disse Nefer.
«Ecco una buona idea,» disse
Ounis. «Mirinri si farà passare per tuo fratello, così ogni sospetto sul suo
vero essere sarà maggiormente allontanato.»
«Dovrò fare l'istrione?» chiese
Mirinri.
«Non è necessario, mio signore,»
rispose Nefer. «Tu t'incaricherai solamente di ritirare il denaro. Sarai il mio
cassiere ed insieme il mio protettore.»
«Se ciò è necessario per
conquistarmi il trono, non mi rifiuterò,» rispose Mirinri, sorridendo. «Devo
anch'io impormi dei sacrifici.»
«Siete pronti a sbarcare?» chiese
Nefer.
«Tutti,» rispose Ounis.
La fanciulla s'avvicinò al
comandante della barca, che pareva aspettasse i suoi ordini e dopo d'avergli
mostrato nuovamente il gioiello strappato a Her-Hor, gli
disse:
«La nave è tua, perché io te la
dono, a condizione però che tu parta immediatamente e che tu scenda fino al
mare. Colà potrai trafficare coi fenici, coi greci o coi siriani. Bada che se
tu pronuncerai una parola con chicchessia di quanto hai veduto, la vendetta di
Pepi saprà raggiungerti.»
«Obbedisco,» rispose
semplicemente il capo dei barcaiuoli.
«Scendiamo,» disse Nefer.
Essendo la notte già calata, il
molo era diventato deserto, sicché poterono sbarcare inosservati. Avevano
appena messo il piede a terra, che la barca riprendeva subito il largo,
scomparendo ben presto in uno dei numerosi canali del delta che conducevano al
mare.
«Perché hai mandato via costui,
Nefer?» chiese Mirinri alla fanciulla.
«Qualcuno poteva aver notato il
tuo atto, allorquando Pepi passava presso di noi e una parola, un sospetto,
potrebbe perderci. I traditori sono dovunque.»
«Ammiro la tua prudenza.»
«E non sarà mai troppa,» aggiunse
Ounis. Poi, volgendosi verso Ata, disse: «Il nostro numero non attirerà
l'attenzione degli abitanti del sobborgo?
«I miei etiopi hanno già ricevuto
l'ordine di disperdersi e di aspettarmi nei pressi della piramide di Daschour.
Sarà là che io radunerò tutti i vecchi partigiani di Teti.»
«E noi?»
«Troverò una casa. Vi è qui un
vecchio mio amico, un siriano che io ho più volte soccorso e vi cederà la sua
casa. Seguitemi e non parlate.»
Mentre gli etiopi si
disperdevano, prendendo diverse direzioni, l'egiziano s'addentrò in una viuzza
che era fiancheggiata da piccole case di forma quadrata, colle muraglie
leggermente inclinate e prive di finestre. Non erano tutte del medesimo stile,
essendo popolato, il quartiere destinato agli stranieri, da asiatici
appartenenti a diverse razze e anche da commercianti della bassa Europa,
specialmente dei dintorni del Mar Nero, ai quali il governo egiziano lasciava
la libertà di scegliere quel genere di costruzioni che loro convenivano.
Il piccolo drappello, che prima
di lasciare la barca si era munito di armi, non ignorando Ata che quel
quartiere, se serviva d'asilo agli stranieri era pure abitato da corporazioni
di ladri12, dopo d'aver percorso indisturbato parecchie viuzze
si arrestò finalmente dinanzi ad una casetta di modesto aspetto, col tetto
coperto di paglia. Ata entrò solo, essendo la porta aperta e poco dopo uscì
assieme ad un uomo il quale, dopo d'aver fatto un muto saluto con una mano, si
allontanò, scomparendo in fondo alla oscura viuzza.
«La casa è vostra,» disse allora
Ata. «Il suo proprietario non verrà ad inquietarvi: consideratevi come
legittimi proprietari. Sopratutto prudenza e obbedite a Nefer.»
«Quando tornerai?» chiese Ounis,
che sembrava preoccupato.
«Appena avrò preparato il terreno
pel gran colpo. Il tesoro deve essere già giunto e potrò assoldare un'armata
tale da far tremare il Faraone.»
«Non contare i talenti, ricordatelo,
Ata.»
«Ci saranno anche i miei e quelli
dei vecchi amici di Teti,» rispose l'egiziano.
Salutò tutti tre, poi a sua volta
si allontanò a rapidi passi, nella viuzza deserta.
«Entriamo nella mia reggia,» disse
Mirinri scherzando. «Veramente non era questa che mi aspettavo a Menfi.»
«Sii paziente,» disse Ounis, con
accento quasi di rimprovero.
«Non mi lagno. Quella che abitavo
nel deserto era ben peggiore di questa, eppure ero forse allora più lieto.»
Entrarono, prendendo una
lampadina di terra cotta che si trovava appesa allo stipite della porta e prima
di tutto esplorarono minuziosamente la casetta.
Non vi erano che due sole stanze,
di forma rettangolare, con le pareti ed il pavimento composto d'una specie di
cemento a varie tinte, ammobiliate sobriamente, essendo i mobili di lusso
riservati ai grandi signori del reame. L'unico letto consisteva in un
pagliericcio di lino, pieno di foglie secche, gli arnesi della cucina in vasi
di terra cotta, però non mancava un tavolo pieno di vasi e vasetti contenenti
unguenti misteriosi e profumi, amando assai gli Egiziani fare ogni giorno una
toletta accurata, anche se non appartenevano alle classi molto elevate.
«Tu ti coricherai nella seconda
stanza, Nefer,» disse Ounis. «A noi basterà la prima, è vero, Mirinri?»
«Noi siamo già abituati a dormire
sulle sabbie del deserto,» rispose il Figlio del Sole. «E poi dormirei anche
sulla nuda terra di Menfi.»
«Che cosa provi, trovandoti qui,
mio signore?» chiese Nefer.
«Non te lo saprei dire» rispose
il giovane. «Mi sembra però di essere diventato un altro uomo. È l'aria di
questa immensa città; è l'ansietà d'impegnare la lotta; è la sete di potere e
di grandezza o qualche cosa d'altro, mi sento più felice qui, in questa umile
dimora, che non sulla barca che Ata guidava sul Nilo. Sento finalmente di
essere qualche cosa nel mondo; di non essere più un ignoto.»
«Sicché ti trovi pronto al
supremo cimento,» disse Ounis, che lo osservava attentamente.
«Sì,» rispose Mirinri, «pronto a
sfidare tutto e tutti.»
«A vendicare tuo padre ed a
conquistare il trono?»
«Sì,» ripeté il giovane con
suprema energia. «Quando i vecchi amici di mio padre avranno radunati i loro
partigiani, io mi metterò alla loro testa e andrò a chiedere conto
all'usurpatore del grande Teti, della sua corona ed a strappargli dalla fronte
il simbolo di diritto di vita e di morte, che a me solo spetta.»
«Ma sii prudente, come ti ha
detto Ata. Pepi deve aver organizzato un servizio di spionaggio per
sorprenderti e chissà a quest'ora che non ti si cerchi in questa immensa città,
quantunque io speri che abbiano perdute le nostre tracce dopo la nostra fuga
dall'isola delle ombre.»
«Rimarrò nascosto in questa casa
fino al ritorno di Ata?»
«No, sarebbe un'imprudenza,»
rispose Ounis. «Un uomo che si guadagna da vivere non desta sospetti; uno che
vive senza poter dimostrare di possedere, può allarmare la sospettosa polizia
di Pepi. Segui Nefer: una indovina può ben avere un fratello.»
«Farò come mi consigli,» rispose
Mirinri, sorridendo. «Due Faraoni che battono la via come due istrioni!»
«È tardi,» disse il vecchio. «A
te il letto, Nefer; noi ci accontenteremo dei tappeti che si trovano nella
stanza attigua.»
«A domani, mio signore,» disse la
fanciulla. «Impareremo, quantunque siamo Figli del Sole, a guadagnarci la
vita.»
Spensero la lampada e si
coricarono: Nefer sul lettuccio e Ounis e Mirinri su una stoffa grossolana,
formata di fibre vegetali, che occupava una parte della seconda stanza.
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