Ounis, dopo la cattura di Mirinri,
era fuggito bestemmiando, confondendosi fra la folla che ingombrava l'immensa
piazza. Pareva che in pochi minuti quell'uomo, che sembrava vigoroso come una
quercia nonostante l'età avanzata, fosse invecchiato di dieci anni almeno.
Aveva infilata una via, poi una
seconda, quindi una terza, quasi correndo, finché si era arrestato sul
magnifico viale che costeggiava il Nilo, lasciandosi cadere affranto, pallido,
disfatto, su una delle enormi pietre che dovevano servire alla costruzione di
quelle colossali dighe delle quali, anche oggidì, dopo cinque o sei mila anni,
si trovano ancora gli avanzi.
Un rauco singhiozzo aveva
lacerato il petto del povero vecchio. «Preso!» veva mormorato. «Amore fatale
che lo ha perduto, quando l'alba sorgeva per lui raggiante, protetta da Râ e da
Osiride! A che cosa hanno servito tanti anni d'esilio nelle sabbie ardenti del
deserto e tanti sacrifici? Io, che avrei potuto splendere come l'astro che
irradia questa terra che il Nilo feconda e che gli dei proteggono! Io, che avrei
potuto con un cenno far tremare i popoli al di qua ed al di là del Mar Rosso! E
tutto è caduto! Quale immensa rovina intorno a me! Meglio sarebbe stato che io
fossi morto davvero là, dove ho pugnato e vinto, sotto l'enorme cumulo dei
Caldei che la mia daga ha spenti e che il mio carro di battaglia ha calpestatO!
Che cosa sono io ora? L'ombra d'un grande che non avrà nemmeno più gli onori
d'una imbalsamazione, né una piramide per asilo... meno d'una mummia... Abbiano
almeno le acque di questo fiume, che scendono dal cielo, il mio corpo. Râ mi
accoglierà nella sua barca sfolgorante...
Si alzò con una mossa violenta,
fissando i suoi occhi sulle acque gonfie del fiume che muggivano sordamente,
rumoreggiando contro le colossali dighe.
«Scomparire dal mondo, senza
essermi vendicato di Pepi?» disse ad un tratto, indietreggiando. «Che cosa ci
guadagnerei io? Un vecchio guerriero sopprimersi dinanzi al pericolo? No, tutto
non può essere finito e... Ata? E i miei amici, i vecchi partigiani di Teti il
grande? Forse che non mi aspettano nella Piramide di Rodope? Ata! Il mio
cervello si era dunque talmente sconvolto, da farmi dimenticare quei valorosi
che altro non attendono che un mio cenno per mettere a ferro ed a fuoco Menfi?
Sì, rovesceremo tutto e passeremo come una tromba devastatrice attraverso
l'Egitto, se Pepi vorrà lottare con noi. Il mio grido di guerra, quel grido che
un giorno ha sgominato orde sterminate, assetate di sangue e di stragi, farà
crollare le cento colonne del palazzo reale e la mia mano strapperà l'ureo che
brilla sulla fronte dell'usurpatore. Menfi l'orgogliosa cederà o cadrà
distrutta coi suoi templi e coi suoi monumenti. M'uccidano Mirinri ed io farò
passare a fil di spada i trecentomila abitanti della città e non lascerò una
pietra sola che possa ricordare l'esistenza di questa metropoli che è la
meraviglia del mondo. Andiamo: io non sono più Ounis! Ritorno quello che fui un
giorno!»
Si staccò dal parapetto e si mise
a costeggiare il Nilo, avviandosi verso la parte settentrionale della città, dove
giganteggiava, fra un tramonto tutto color di fuoco, la piramide entro cui
dormiva la mummia della bella Rodope nel suo sarcofago di marmo azzurro.
L'immenso viale, ombreggiato da doppi filari di palme, era quasi deserto,
essendosi la popolazione riversata in massa verso il basso corso del fiume,
dove i sacerdoti avevano condotto, con grande pompa, ad abbeverarsi il bue
sacro. Ounis camminava rapidamente, tuttavia non fu che verso il tramonto che
giunse sul luogo ove doveva abboccarsi coi congiurati.
«là che dorme Rodope,» mormorò il
vecchio.
La piramide s'innalzava
maestosamente dinanzi a lui, a meno di trecento passi, tutta rosseggiante sotto
gli ultimi raggi del sole morente. All'intorno non si scorgeva alcuna persona.
Solo due sciacalli dal pelame bruno sonnecchiavano l'un presso all'altro, sotto
l'ombra che proiettavano le foglie d'una palma.
«Dove sarà Ata?» si chiese Ounis.
«Io non so ove sia l'entrata che conduce alle serdab. Tutto è silenzio
qui! Mi fa impressione questa immensa calma. Qui dovrebbe battere il cuore del
futuro regno ed invece mi pare che dentro il mio si sia spezzato qualche
cosa... Ah! Genio maligno! Del sangue!»
Si era curvato verso il suolo e
col dito sollevava le sabbie che i venti caldi del vicino deserto libico
avevano deposte intorno alla gigantesca piramide.
«Del sangue!» ripeté, con voce
strozzata. «Tutta la sabbia è rossa qui!»
Indi alzò gli sguardi verso la
piramide.
«Dei dardi!» esclamò poi, girando
intorno uno sguardo smarrito. «Sono stati presi.»
Rimase silenzioso: era un
silenzio tragico. Un improvviso accasciamento lo prese e cadde al suolo come
fulminato, rimanendo inerte. Scese la notte e le ore passarono lente.
Una voce a lui ben nota lo fece
tornare in sé dopo moltissime ore. Quanto tempo era trascorso? La notte era
scomparsa ed il sole era riapparso e forse da molto tempo, perché era quasi
alla metà del suo corso.
«Nefer!» esclamò Ounis.
«Sì, sono io, mio signore,»
rispose la giovane. «Che cosa ti è successo? Ti abbiamo trovato svenuto.»
Ounis si passò parecchie volte
una mano sulla fronte, per meglio risvegliare le sue idee ancora offuscate.
«Non so,» disse poi. «Mi è
sembrato che un macigno mi fosse piombato sul cranio e che il cuore mi fosse
scoppiato... è giorno! Quanto sono rimasto come morto?...» Poi guardando Nefer
con un certo stupore, disse:
«E come ti trovi qui? Chi è
questo vecchio soldato che ti accompagna? Non eri con Mirinri tu?»
«Sì, mio signore.»
«Mirinri!» gridò Ounis. «Dove si
trova?»
«Nelle mani di Pepi.»
«Ah! Disgraziato! È perduto!»
«Sì, perduto,» singhiozzò Nefer.
«Per me e per te.»
Ounis si era alzato di scatto,
come se avesse riacquistate improvvisamente tutte le sue forze. «Narrami che
cosa è avvenuto,» disse con voce cupa.
Nefer in poche parole lo informò dell'arresto
e della prigionìa nei sotterranei del palazzo reale, poi della sua liberazione
e delle promesse di Nitokri di proteggere Mirinri.
Un amaro sorriso contrasse le
labbra del povero vecchio.
«Nitokri! È la figlia
dell'usurpatore e non è lei che comanda. Tutto è finito, mia fanciulla: Mirinri
non uscirà vivo da quel sotterraneo. Conosco troppo bene Pepi.»
Stette alcuni minuti silenzioso,
poi chiese:
«Eri certa di trovarmi qui?»
«Avevo qualche speranza,» rispose
Nefer, «sicché, appena libera mi feci condurre qui da questo soldato, che era
incaricato di proteggermi.»
«Ora non hai più bisogno di lui:
congedalo.»
«Va', amico, e aspettami nella
casa che il re ha messa a mia disposizione,» disse la giovane al veterano. «Ci
rivedremo presto.»
Il vecchio guerriero s'inchinò
profondamente senza parlare e si allontanò a lenti passi.
«Nefer,» disse Ounis quando
furono soli, «i vecchi amici di Teti sono stati presi. La piramide è stata
espugnata e forse a quest'ora nessuno di quei prodi è vivo.»
«Siamo dunque maledetti?»
«Sì,» rispose Ounis. «Il trono a
cui Mirinri aspirava è ormai perduto, la vendetta mi fugge di mano quando
credeva di tenerla ben salda nel pugno... ed a te, mia povera fanciulla, che
cosa rimane?»
«La morte,» rispose Nefer con un
sordo singhiozzo.
«Camminiamo verso la morte
dunque,» disse Ounis. «Là, sulle sabbie del deserto, sulle quali è forse
rimasta ancora impressa l'orma di colui che doveva tutto distruggere,
ritroveremo un po' di tranquillità. Vieni fanciulla, risaliremo il Nilo e
accanto alla grande piramide dove lui visse e passò la sua prima giovinezza e
sotto le foreste di palme sotto le quali sognò e dormì, ritroveremo la calma
che l'aria pestifera dell'orgogliosa Menfi ha distrutto! Torno nella terra
dell'esilio, io che avrei potuto regnare qui possente e ben più forte di Pepi.»
«Chi sei tu? Dimmelo almeno una
volta!» gridò Nefer.
«Il leone del deserto libico»
rispose Ounis. «Dove io sia nato, chi lo sa? Che cosa sono stato un giorno? Io
solo lo so. Vieni fanciulla: andiamo a respirare l'aria che ha vivificato i
polmoni di Mirinri, andiamo a udire il mormorìo dolce delle acque che lui
ascoltava per ore ed ore sotto la fresca ombra delle palme dùm; andiamo a
rivedere i luoghi ove egli visse. È morto! Menfi maledetta, come ti
distruggerei! Osiride non irradia più coi suoi raggi il cielo! Egli ha
abbandonato i figli del Sole! Che la sua barca si fonda sotto le fiamme di Râ!
Siano maledetti tutti gli dèi dell'Egitto! Che l'ombra cupa della notte eterna
li dissolva tutti. Vieni, Nefer! Vieni nel deserto! Tu sarai mia figlia!».
Riprese la fanciulla, che
singhiozzava sempre, per una mano, e tornò verso il Nilo.
Stava per accostarsi ad una barca
che si trovava ormeggiata alla diga, quando quattro guardie reali, che si
tenevano nascoste dietro il parapetto, gli piombarono improvvisamente addosso,
colle daghe alzate, atterrandolo.
Il vecchio, con una mossa
fulminea, aveva afferrato pel polso l'uomo che gli stava più presso,
strappandogli l'arma.
«Largo, miserabili!» tuonò, con
voce formidabile. «Cento caldei non hanno fatto paura a me e tutti caddero
sotto il mio ferro. A te pel primo!»
Con un'agilità meravigliosa, che
qualunque giovane gli avrebbe invidiata, era balzato in piedi, gridando:
«Indietro, Nefer!»
La daga, un'arma solida ed
affilata, balenò un istante nell'aria e scomparve tutta intera nel corpo della
guardia.
Le altre tre si erano scagliate
sul vecchio, urlando: «Arrenditi!»
«Ecco come si arrende chi vinse i
Caldei!» rispose Ounis.
Tre volte scintillò la lama già
rosseggiante di sangue ed i tre uomini caddero l'un sull'altro, contorcendosi
fra gli spasimi della morte.
Ounis stava per prendere la fuga,
quando un drappello di guardie, sbucato da una via laterale, lo circondò. Erano
quaranta o cinquanta uomini, armati d'azze di guerra e gagliardi.
Ounis aveva gettata la daga
stillante sangue, dicendo con ironia: «Non uccido il mio popolo! Chi mi vuole?»
«Il re,» disse un vecchio
arciere, avanzandosi.
«Ah!» fece Ounis.
Poi, volgendosi verso Nefer, disse:
«Nemmeno il deserto ci vuole. Ecco la catastrofe completa. È la fine di tutto!»
Quindi, guardando irosamente le guardie, chiese sdegnosamente: «Da chi mi
conducete?
«Dal re,» risposero le guardie.
«Mi avevate seguito, dunque?»
«Sì,» disse il vecchio arciere
che comandava il drappello.
«E di questa fanciulla che cosa
ne farai tu?»
«Io non ho ordini per lei: chi si
cura d'una vagabonda?»
Un urlo di belva feroce irruppe
dal petto del vecchio Ounis.
«Miserabile!» gridò, liberandosi
con una scossa violenta dalle guardie che lo trattenevano pei polsi. «Costei
una vagabonda! A te! È una Figlia del Sole!» La mano del vecchio cadde sul viso
dell'arciere come un terribile colpo di frusta, facendolo girare due volte su
se stesso. «Inchinati davanti a questa fanciulla che porta sul suo corpo divino
il tatuaggio dell'ureo. Giù o t'uccido! Se Pepi non ti farà sgozzare, vi
sarà chi ti punirà se non obbedisci! Giù! Tu non sai chi è l'uomo che te lo
comanda!»
Vi fu fra le guardie un momento
di stupore impossibile a descriversi. Quel vecchio che aveva già ucciso quattro
uomini e che comandava coll'autorità d'un re, aveva sgomentato tutti.
«È tua figlia?» chiese il capo
degli arcieri con voce alterata.
«Chi sia non lo so,» disse Ounis.
«È una Faraona e ti basti! Guarda, vile schiavo d'un re ladro!»
Con un gesto rapido strappò alla
fanciulla la leggera tunica che la copriva e mise a nudo la sua spalla
mostrando il simbolo del diritto di vita e di morte. «Lo vedete?» disse. «È una
Faraona! Giù, a terra, tu che l'hai offesa, perché è d'origine divina!»
L'arciere era caduto in
ginocchio, mentre gli altri avevano allargato il cerchio.
«Ed ora,» disse Ounis,
«conducetemi pure da Pepi. Desidero vederlo.»
«Ed io?» chiese Nefer.
«Seguimi,» rispose il vecchio. «È
là, nel palazzo delle cento colonne, che noi daremo l'ultima battaglia. Chissà!
Forse tutto non è ancora perduto e quando urlerò in faccia a lui la sua
infamia, può darsi che la fenice rinasca per abbruciare il corpo di suo padre
nel tempio del Sole e che addenti, pari ad un famelico coccodrillo, la sua
anima. Vieni, Nefer, vieni fanciulla mia. Le ali dorate e rosse della fenice ci
proteggeranno.»
Gli arcieri si erano stretti
intorno a loro ed il capo aveva svolta la fascia che gli cingeva il kalasiris,
per legare le mani a Ounis.
«Non occorre,» disse il vecchio.
«Non ho più una daga per uccidervi tutti. Andiamo! Il palazzo reale ed io ci
conosciamo.»
Ounis, tetro, pensieroso,
camminava fra le guardie e Nefer lo seguiva, colla testa chinata sul petto,
come un'ombra vagante. Salirono il viale che conduceva al palazzo reale, senza
che né l'uno, né l'altra, né la scorta avessero pronunciata una parola. Quando
però Ounis si trovò nel peristilio di marmo parve ridestarsi come da un lungo
sogno.
Guardò come stupefatto le immense
porte, le alte terrazze bastionate, le colonne sfolgoranti d'oro che s'ergevano
maestosamente attraverso l'immensa sala, dove Mirinri era stato ricevuto ed
aspirò fragorosamente l'aria.
«Diciotto anni,» disse,
fermandosi bruscamente. «E lo rivedo, ma non più mio!»
Si era voltato verso le guardie,
come se volesse scagliarsi contro di loro o come se volesse gridare qualche
cosa sui loro volti, poi, frenandosi, chiese:
«Dov'è il re?»
«Domani lo vedrai,» rispose il
capo degli arcieri.
«E dov'è Nitokri, sua figlia?» chiese
Nefer, con impeto.
«La figlia del Faraone?» chiese
il capo del drappello, con stupore.
«Non sono anch'io una Faraona
forse?» chiese la fanciulla. «Hai visto tu il tatuaggio, sulla mia spalla? Va'
a dirle che vi è una Figlia del Sole che vuole vederla e subito! Mi hai
compreso?»
«È la figlia del re,» osservò
umilmente il capo degli arcieri.
«Ed io di chi sono, se l'ureo ha
marcato il mio corpo?»
«Nefer!» disse Ounis. «Che cosa
vuoi fare tu?»
«Nelle cento colonne daremo battaglia,
sia pure l'ultima,» disse la fanciulla con un singhiozzo. «Getto il mio
destino! Addio, signore, spero di rivederti presto.»
Ounis scosse tristemente il capo
e seguì gli arcieri che avevano aperta una porta la quale pareva che mettesse
in qualche sotterraneo. Il capo intanto si era allontanato, salendo una
gradinata di marmo, che era nascosta da una immensa tenda intessuta di
pagliuzze d'oro ed a larghe fascie di tinte svariate, tutte smaglianti.
Nefer, rimasta sola nell'immensa
sala, si era appoggiata ad una coppa di lapislazzoli che serviva in certe
occasioni da fontana, nascondendosi il viso fra le mani. Dai sussulti che di
quando in quando scuotevano il suo corpo, si capiva che la disgraziata
fanciulla singhiozzava.
Un passo leggerissimo, accompagnato
dal fruscìo d'una veste, trasse Nefer dalla sua muta disperazione. Nitokri, la
figlia di Pepi Mirinri, le stava dinanzi.
Le due fanciulle si guardarono a
lungo, senza parlare, poi Nitokri disse:
«Sei tu, che chiamano la
principessa dell'isola delle Ombre?»
«Io sono Nefer.»
«O meglio Sahuri: era questo il
nome che portavi quando ti tolsero di qua.»
«Non me lo ricordo,» rispose
Nefer. «Ero ancora bambina allora.»
«Che cosa vuoi, fanciulla?»
«Sapere che cosa è avvenuto di
Mirinri, il figlio del grande Teti,» rispose Nefer, scoppiando in singhiozzi.
«Tu che sei onnipossente, proteggilo, signora, contro le ire di tuo padre...
io, che l'ho immensamente amato, te l'abbandono purché gli salvi la vita.»
«Mirinri... l'hai amato? E lui?»
gridò Nitokri.
Nefer scosse tristemente il capo.
«Egli non sognava e non vedeva
che la fanciulla salvata sulle rive dell'Alto Nilo. Nefer era nata sotto un
raggio funesto di Râ: il raggio azzurro che porta sventura a tutti quelli che
tocca.»
Nitokri era rimasta silenziosa.
Una profonda compassione traspariva dai suoi occhi bellissimi.
«Povera Sahuri,» disse poi, con
un sospiro. «Nata sui gradini d'un trono al pari di me, la felicità ti è
mancata.»
Ad un tratto si scosse.
«Mirinri corre qualche pericolo?»
gridò.
«Sì, forse a quest'ora ha subito
la sorte orrenda dei partigiani di suo padre. Io ho veduto il loro sangue sulle
sabbie che circondano la piramide di Rodope.»
«Mirinri minacciato! Forse morto!
Attendimi, fanciulla! Guai se mio padre ha osato alzare la mano su di lui!
Sarebbe troppo! Sorella, uniamo le nostre forze contro i tristi consiglieri di
Pepi: siamo due Faraone!»
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