Un po' al di sopra di Menfi, ad occidente
del Nilo, in quel luogo ove la catena libica comincia ad allargarsi, formando
una pittoresca oasi che chiamasi ancora oggidì il Fayum, si apriva quel famoso
serbatoio fatto costruire da Amenemhat III che formò per secoli e secoli la
meraviglia degli assiri, dei caldei e dei naviganti greci e che era destinato a
ricevere le acque sovvabbondanti del fiume ed a regolare l'irrigazione in tutto
il paese circostante.
Era un'opera meravigliosa, un
bacino immenso che aveva delle dighe di cinquanta metri di spessore e della
lunghezza di parecchie decine di chilometri, come si può constatare dagli
avanzi che ancora sussistono oggidì, dopo migliaia e migliaia d'anni da che
esse furono erette.
Sulle rive del famoso lago di
Moeris, come fu chiamato dai Greci che lo visitarono più tardi, sulle cui rive
sorgeva il Labirinto, che era il più vasto palazzo del mondo, con più di
tremila camere, la facciata di calcare bianco, che si rispecchiava nelle acque,
come marmo di Paros e con nel mezzo le due colossali statue di Amenemhat III e
sua moglie.
In quel meraviglioso bacino,
ventiquattro ore dopo la cattura del disgraziato Ounis, più di centomila
persone si erano radunate, scaglionandosi sulle gigantesche dighe che formavano
come un immenso anfiteatro.
Al mattino mille araldi avevano
fatto echeggiare le loro trombe per le vie della superba metropoli, annunciando
uno spettacolo emozionante ed invitando gli abitanti a radunarsi nel serbatoio,
che le acque del Nilo non avevano ancora invaso, non avendo il fiume raggiunto
ancora la sua massima piena; e migliaia e migliaia di persone si erano
rovesciate sulle dighe, quantunque ignorassero ancora di che cosa veramente si
trattasse.
La notizia però che anche il re,
seguito dalla sua corte sfarzosa, vi avrebbe preso parte, aveva bastato per
muovere i buoni menfini assieme alle loro famiglie.
L'ora dello spettacolo era stata
fissata a tre ore prima del tramonto, sicché quando il sole cominciava a
declinare rapidamente e l'aria a rinfrescarsi, tutte le dighe che si stendevano
di fronte al meraviglioso palazzo del Labirinto si erano coperte di spettatori.
Sulla facciata del palazzo le due gigantesche statue di Amenemhat e della sua
consorte, si ergevano superbamente in attesa che i flutti del sacro Nilo,
scendenti dal cielo, bagnassero i loro piedi estendendosi intorno a loro con
flebili mormorii, come un gran mostro soggiogato dai suoi possenti vincitori.
Pepi, seguito da tutta la sua
corte, composta di grandi dignitari, di ciambellani, di sacerdoti, di arcieri,
di guardie reali, di suonatrici e di danzatrici, che facevano echeggiare
rumorosamente i loro svariati istrumenti musicali e da un gran numero di
giovani schiavi, che reggevano immensi ventagli risplendenti d'oro e sormontati
da magnifiche penne di struzzo e diversi simboli religiosi di metallo prezioso,
era giunto all'ora fissata.
Dinanzi alla candida facciata del
Labirinto era stato innalzato per lui e pei suoi dignitari un palco grandioso,
a tinte smaglianti, coperto da un immenso velario di finissimo lino a grandi
fascie multicolori e vi aveva subito preso posto, sedendosi su una specie di
trono altissimo, da cui poteva dominare tutto il bacino e le gigantesche dighe.
Il popolo notò subito, con un
certo stupore, che Nitokri non lo aveva accompagnato. Ignorava che in quel medesimo
momento la giovane Faraona, accompagnata da Nefer e da uno stuolo di schiavi e
di guardie, si dirigeva verso la Necropoli per far spezzare la durissima pietra
murata nella serdab principale, ove Mirinri era stato chiuso.
Un grande silenzio si era fatto,
rotto solo dal rumoreggiare monotono delle acque scorrenti lungo le dighe,
impazienti di precipitarsi nell'immenso serbatoio e di fecondare quelle terre
benedette dal sole. Pareva che tutte quelle migliaia di persone avessero
trattenuto il respiro.
Un lungo squillo di tromba,
seguito tosto dalle prime battute della fanfara reale, avvertì la moltitudine
che lo spettacolo promesso stava per cominciare. Alcune guardie, uscite dal
palazzo del Labirinto, si erano avanzate verso la diga di ponente, scendendo la
gradinata che conduceva nel fondo del serbatoio. Scortavano un vecchio
d'aspetto imponente, dalle membra ancora robustissime, coperto solo da un corto
kalasiris, stretto ai fianchi, munito d'uno scudo semiovale, simile a
quello che usavano i guerrieri di quell'epoca e armato d'una daga di bronzo
dalla lama molto larga e molto pesante: era Ounis!
Il vecchio, quantunque ignorasse
ancora contro chi l'usurpatore desiderava che si misurasse, procedeva
tranquillo, a testa alta, impugnando saldamente la daga, destando una profonda
ammirazione fra gli spettatori che si erano tutti alzati in piedi per meglio
osservarlo.
Quando giunse fra le due
gigantesche statue fu lasciato solo e le guardie si ritrassero correndo.
Quasi nel medesimo istante da una
delle gallerie sotterranee che servivano di canale per le acque del Nilo, si
vide balzare fuori, con un salto immenso, un superbo leone libico, di forme
poderose, con una lunga criniera quasi nera.
Un immenso grido, somigliante al
rumoreggiare sinistro di una grande marea od al rombo d'un maremoto, s'alzò fra
i centomila spettatori.
Si ribellavano contro la ferocia
del loro re, che esponeva un vecchio, probabilmente un guerriero a giudicarlo
dal modo con cui erasi prontamente coperto collo scudo e dal fiero
atteggiamento. Oppure salutava il leone? Ounis, immobile, colla daga tesa, il
corpo curvo innanzi per offrire minor bersaglio alle terribili unghie del
carnivoro, attendeva intrepidamente l'assalto, con un sorriso strano sulle
labbra.
La belva, che era stata
probabilmente tenuta a digiuno per qualche giorno, udendo l'urlo della folla si
era arrestata, poi, vedendo la preda dinanzi a sé, spinta dalla fame aveva
spiccato un secondo salto, cadendo a cinque o sei passi da Ounis.
Ad un tratto, mentre stava per
spiccare l'ultimo, s'accasciò guardando in aria e mandando un lungo ruggito che
si ripercosse come un colpo di tuono entro le gigantesche dighe. Tutti gli
spettatori erano nuovamente balzati in piedi, guardando anche essi verso il
cielo. Un terrore improvviso pareva che avesse sorpreso tutti: uomini e bestie.
Quale strano fenomeno succedeva?
L'aria si era fatta rapidamente oscura, le dighe cambiavano tinta, il palazzo
del Labirinto, prima tutto bianco come l'alabastro, aveva assunta una tinta
grigiastra, il cielo all'orizzonte prendeva delle sfumature verdastre, i raggi
del sole sparivano: tutta la natura sembrava sul punto di spegnersi.
Gli aironi e le ibis, che prima
volteggiavano in gran numero al di sopra del serbatoio, si lasciavano cadere al
suolo, come se fossero state improvvisamente colpite da freccie invisibili; in
lontananza i buoi che si abbeveravano sulle rive del Nilo, muggivano
sinistramente, i cani urlavano lugubremente ed i volti degli spettatori
assumevano delle tinte cadaveriche.
Sembrava che qualche sinistro
avvenimento stesse per piombare sull'Egitto. Dai quattro punti cardinali, delle
dense tenebre salivano, invadendo con velocità fantastica il cielo, mentre il
sole spariva dietro una immensa macchia nera.
Uno spavento indicibile si era
impadronito di tutti gli spettatori. Perfino Pepi si era alzato, guardando
l'astro diurno che si ottenebrava. Poi un gran grido si confuse coi muggiti dei
buoi e colle urla dei cani:
«Râ fugge!»
Il ruggito del leone vi fece eco.
Il formidabile carnivoro pareva che non pensasse più alla preda umana che gli
stava dinanzi. Si era accovacciato, rannicchiandosi su se stesso, come se
avesse perduto completamente la sua istintiva ferocia.
Ounis però non l'aveva
dimenticato. Uomo d'una coltura superiore, aveva subito capito che quel
fenomeno non era altro che una eclissi totale di sole, e quelle tenebre che
piombavano sulla terra non l'avevano punto spaventato. Râ, il disco solare,
veniva nel supremo momento in suo aiuto e ne approfittò. Con un salto fu sopra
al leone, la sua daga balenò in aria e scomparve tutta intera nel petto della
belva.
Il ruggito formidabile che uscì
dalle fauci spalancate della fiera, strappò bruscamente il pubblico dal suo
terrore. Abbassò gli occhi verso il fondo del bacino e nella penombra scorse il
vecchio con un piede sul leone già morente e la daga sanguinante in mano.
«Popolo!» gridò allora Ounis, con
voce tuonante. «Râ si è offuscato per non assistere all'assassinio d'uno dei
suoi figli. Non riconosci più dunque tu Teti, il vincitore dei Caldei, quel
Teti che un giorno chiamasti Grande e che mio fratello, quell'uomo che siede
sul palco reale e che impallidisce sotto il mio sguardo, fece credere morto?
Popolo, il tuo re è vivo ed è tornato in questa Menfi orgogliosa, dove ha
regnato. Tu vedi nel segno che ti ha dato Râ la mia origine divina!
Nell'uccisione di questo leone il valore dell'antico guerriero che debellò le
orde asiatiche! Ed ora, guardami in viso e se mi riconosci ancora, vieni con me
a strappare dalla fronte di mio fratello, di colui che mi rubò il potere, il
simbolo di vita e di morte, per darlo a mio figlio, che per diciott'anni ho
nascosto e allevato nel deserto!».
Fra i centomila spettatori regnò
per qualche istante un profondo silenzio. La notte che era piombata, l'audacia
del vecchio guerriero che aveva ucciso il leone, l'accusa terribile che aveva
lanciato contro l'usurpatore, lo sgomento manifestatosi improvvisamente nel
palco reale, il ricordo del grande re che aveva salvato l'Egitto e che mille
vaghe voci avevano affermato essere davvero vivo, avevano prodotto un effetto
impossibile a descriversi su quella moltitudine.
Poi tutto d'un tratto delle voci
isolate echeggiarono:
«Sì, egli è Teti! Ieri Pepi ha
reciso le mani ai suoi partigiani! Viva il vincitore dei Caldei! Popolo, seguiamolo!»
Sembrò che un muggito, uscito
dalle fauci di migliaia di fiere, facesse tremare le immense dighe del bacino.
Il popolo si precipitava, con rombo spaventevole, giù dalle gradinate, mentre
Pepi e la sua corte abbandonavano precipitosamente il palco reale, fuggendo
verso Menfi.
In quel momento il sole
riappariva raggiante e le tenebre si dileguavano.
«Ecco Râ che torna!» tuonò Teti.
«Egli ci illumina la via! Vieni popolo! Il tuo re ti guida!»
«Al palazzo reale!» urlarono
migliaia di voci. «Viva Teti!»
Il vecchio, che imbracciava
ancora lo scudo e che impugnava la daga sanguinante, aveva saltato via il leone
e s'avviava verso il Labirinto. I centomila spettatori, guidati da alcuni
partigiani del vecchio re, lo seguivano in falangi compatte, fra un urlìo
assordante. Egli salì la gradinata, poi, giunto sulla cima, dominando colla sua
voce tuonante il fracasso e alzando la daga, gridò:
«Al palazzo reale! Menfi questa
sera avrà un altro re!»
«Viva Teti!» rispose la folla,
che pareva in preda ad un vero delirio.
Quando l'immensa colonna rientrò
in Menfi, la città era in subbuglio.
La voce che Teti, della cui morte
già molti avevano dubitato, era ricomparso, si era divulgata colla rapidità del
lampo e gli abitanti scendevano nelle vie armati, pronti a farsi uccidere in
difesa del salvatore dell'Egitto.
Il grido di: «Viva Teti il
grande!» risuonava in tutti i quartieri della metropoli, dalle rive del Nilo ai
margini del deserto e nuove falangi si aggiungevano a quelle già sterminate,
uscite dal gigantesco serbatoio. Una specie di guardia reale si era formata,
avvolgendo Teti, che s'avanzava sempre alla testa del popolo, in uno spazio
lasciatogli libero.
Quando le falangi giunsero
dinanzi al palazzo reale, trovarono tutte le porte spalancate. Guardie,
arcieri, dignitari, favoriti, tutti erano vilmente fuggiti. Teti sostò un
momento a guardare quella grandiosa costruzione ove aveva regnato da grande
monarca, poi entrò nell'ampio peristilio e salì il marmoreo scalone, penetrando
audacemente nella immensa sala del trono che più nessuno difendeva. Dalle
ventiquattro porte di bronzo, che nessuno aveva chiuse, il popolo si era già
riversato con terribili clamori.
In fondo alla sala, raggomitolato
quasi sul trono risplendente d'oro, coperto dalle vesti reali e colle insegne
del comando strette fra le mani rattrappite, livido, atterrito, stava Pepi,
l'usurpatore.
Il popolo si arrestò ed era
diventato muto. Quei simboli del potere supremo, che il re stringeva nelle mani
e sopratutto l'ureo che gli brillava sulla fronte e la maestà del trono,
ancora una volta si erano imposti a quegli schiavi della potenza faraonica.
Teti, fortunatamente, non si
sgomentò. Mosse diritto verso suo fratello che lo guardava con spavento, salì i
gradini del trono, poi, con una mossa rapida, gli strappò l'ureo che
aveva in fronte e lo gettò al suolo con disprezzo, gridando:
«Ecco: non sei più re!»
Poi, gettato lo scudo, lo afferrò
per un braccio e lo trasse in mezzo alla sala, senza che egli opponesse
resistenza e lo atterrò sulle lucide pietre del pavimento, alzando su di lui la
daga.
«Quest'arma ha ucciso un leone,»
disse «ed ora ucciderà un usurpatore, un ladro!»
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