Né il guascone, né Mendoza e tanto meno il fiammingo
avevano risposto.
Si erano messi l'uno di fronte all'altro, aiutandosi ad
accendere i grossi sigari di Cuba, come se fossero tre tranquilli borghesi, in
attesa del tocco, prima di andarsene a dormire.
- Arrendetevi o facciamo fuoco! - gridò per la seconda volta
il capo della ronda.
Il guascone si era voltato, lanciando in aria una nuvola di
fumo profumato.
- Scusate, caballeros, - disse, esponendosi ad
un fascio di luce lunare che cadeva fra i due comignoli d'una casa. con noi che
l'avete?
- Non siete i ladri che hanno saccheggiata la taverna d'El
Moro?- chiese il capo della ronda, puntando l'alabarda contro il guascone.
- Che cosa vi frulla nel cervello, caballero? - chiese
il guascone, fingendosi indignato. - Dare del ladro a me? Non sapete che io
sono il nobilissimo don Aramejo dei Mendoza y Alicante, y Bermejo de los
Angelos e...
- Allora abbiamo smarrite le tracce di quei bricconi, - disse
il capo della ronda, confuso. - Non avete veduto passare delle persone che
correvano?
- Abbiamo udito dei passi precipitosi verso l'opposta
estremità di questa via, - rispose Mendoza.
- Abitano qui loro signori?
- In quella casa che ci sta di fronte, - disse il fiammingo.
- Camerati, - disse il soldato, volgendosi verso i suoi
uomini. - Riprendiamo la caccia. Buona notte, caballeros!
Se i tre avventurieri non scoppiarono in una fragorosa risata
fu un vero miracolo:
- Voi siete un vero uomo di genio, - ripeté per la seconda
volta il fiammingo, guardando con profonda ammirazione il guascone. - Prima era
un giaguaro che faceva scappare la gente che poteva darci delle noie, ed ora
sono dei nomi rimbombanti che mandano le guardie a passeggiare altrove, signor
don Aramejo dei Mendoza y Alicante y Bermejo de los Angelos...
- E conte d'Alcalà, - disse il guascone, ridendo a crepapelle.
- E grande di Spagna, - aggiunse il marinaio. - Si era
appropriato perfino il mio cognome, questo birbone.
- Ed ora che cosa facciamo? - chiese il fiammingo. - È vero
che abitate qui?
- L'avete detto voi e non io, - rispose il guascone.
- È vero, non me ne ricordavo più. Avrete però un domicilio, suppongo.
- E voi andate a dormire in mezzo alle strade alla notte?
chiese Mendoza. - Avrete anche voi qualche stanza o per lo meno qualche
bugigattolo.
- Sono giunto in questa città solamente stamane e contavo di
alloggiare nella taverna d'El Moro.
- Gli è che la nostra casa è un po' lontana, - disse il
guascone.
- Ho la zampa lunga io.
- Si trova fuori dalla città, verso le coste del Pacifico.
Il fiammingo guardò Mendoza ed il guascone, un po'
sospettosamente.
- Orsù, - disse, - della gente che ha tanto fegato non può
essere gente...
- Che cosa vorreste dire? - disse il guascone, aggrottando la
fronte.
- Degli avventurieri al pari di me. Io non esercito alcun
mestiere, fuorché quello di menare le mani quando mi capita l'occasione.
- Siete molto ricco allora.
- Bah!... Ho fatto un po' di fortuna nelle miniere d'oro di
Costarica.
Il guascone guardò Mendoza.
- Una buona recluta, - rispose il basco.
- Volete venire con noi? - chiese Barrejo.
- Io seguo sempre la gente di spada, amante delle avventure arrischiate,
- rispose il fiammingo.
- Anche se quelle persone fossero... dei filibustieri,
supponiamo.
- È sempre stato il mio sogno quello di unirmi a quei
terribili scorridori del mare. Wan Horn era del Brabante.
- Ed io ho combattuto sotto gli ordini di Wan Horn, - disse
Mendoza.
- Voi!...
- A Vera-Cruz.
- Che fortuna!... Il mio sogno era già quello di recarmi alla
Tortue e di arruolarmi.
- Non è necessario che intraprendiate un così lungo e
pericoloso viaggio, - disse il basco. - I filibustieri sono più vicini di
quello che credete. Fra qualche giorno li vedrete a vuotare bottiglie e botti
nella taverna d'El Moro.
- E gli spagnuoli non lo sanno?
- No e badate che non dovranno saperlo per mezzo della vostra
lingua.
- Un fiammingo non tradisce mai.
- Allora seguiteci, - disse il guascone. - Cercheremo di
lasciare la città prima che il sole si mostri. La nostra missione ormai è
finita ed il conte deve essere molto impaziente.
- Badiamo di non cadere nuovamente fra le braccia delle ronde,
disse Mendoza. - Se si è sparsa la voce lanciata da quel taverniere del malanno
che noi siamo filibustieri, il marchese di Montelimar avrà lanciato sulle
nostre tracce i suoi migliori soldati.
- È quello che temo anch'io, - rispose il guascone. - D'altronde
non possiamo rimanere tutta la notte dinanzi a questa casa, che non è mai stata
nostra.
- A guardare la luna e fumare sigari, - aggiunse il fiammingo.
- In cammino, - disse il basco, risolutamente. - Cerchiamo di
guadagnare la grande foresta.
- È che non troverete mica un altro don Barrejo a guardia
della porta di ponente, - disse il guascone, ridendo.
- Scenderemo i bastioni, camerata.
Stettero in ascolto e, non udendo alcun rumore, si misero in
cammino, premurosi di lasciare quella specie di trappola che per poco non
diventava fatale per loro.
Avevano già percorso quasi tutta quella viuzza chiusa, quando
il guascone, che camminava innanzi a tutti e che stava per svoltare l'ultimo
angolo, s'arrestò di colpo, mettendo mano alla draghinassa.
- Ohé, amici, - disse. - Sembra che la fortuna non ci sia
propizia questa sera.
- La ronda? - chiesero ad una voce Mendoza ed il fiammingo,
con inquietudine.
- Vi sono delle persone munite di torcie che s'avanzano verso
di noi e vedo scintillare elmetti corazze, e anche archibugi.
- Canarios! - esclamò Mendoza.
- Che ci prendano?
Aveva fatto qualche passo innanzi, svoltando l'angolo
dell'ultima casa di destra.
Il guascone non si era ingannato. Sette od otto persone
s'avanzavano, rischiarando la via con delle torcie. Erano tutti soldati, però
dietro di loro il basco scorse un omaccione vestito di bianco, il quale reggeva
una lanterna.
- Per la morte di tutti i pescicani del Pacifico! - esclamò,
retrocedendo vivamente. - Il taverniere d'El Moro! Siamo perduti!...
- Cerchiamo di aggiungere a tutti i miei titoli quello di
conte d'Alcalà, - disse il guascone. - Chissà che la ronda non ci lasci andare
un'altra volta.
- Se c'è il taverniere colle guardie!...
- Noi abbiamo commesso una grave imprudenza a non sbudellarlo,
quando voleva rubarci altre dieci piastre.
È proprio vero, - disse il fiammingo.
Paghiamogliele, e che ci lasci in pace, - disse Mendoza.
Vediamo se si può aggiustare questa faccenda, - rispose don
Barrejo. - Riprendiamo il nostro posto dinanzi alla casa che deve figurare come
nostra e ripetiamo i nostri discorsi da buoni borghesi che hanno poca voglia
d'andarsene a dormire quando splende la luna.
Rifecero frettolosamente la via e si fermarono all'estremità
opposta della viuzza, fumando e chiacchierando tranquillamente.
Proprio in quel momento la ronda, che si era rinforzata di
altri due archibugieri e che era sempre seguita da quel dannato taverniere,
fece la sua entrata. Vedendo i tre uomini fermi ancora, il capo gridò:
- Eccoli!... Vedremo se saranno loro!...
- Sono certo di non ingannarmi, - disse il taverniere a voce
alta. Non possono essere scappati così presto. I miei aiutanti sorvegliavano
tutte le vie perché non si eclissassero. Sono filibustieri: ve lo dico io.
- Il diavolo ti porti all'inferno, - brontolò il guascone,
facendo una brutta smorfia. - Quel furfante guasterà tutto. Se ti posso
prendere, salderemo i conti: parola di guascone.
Il capo della scorta si era fatto innanzi, colla spada
sguainata nella destra e una torcia nella sinistra.
- Come! - disse. - Siete ancora lì, signor d'Aramejo dei
Mendoza y Alicante y Bermejo de los Angelos...
- E conte d'Alcalà, - aggiunse il guascone, volgendosi e
prendendo una posa da gran signore offeso. - Vi rincresce, signor soldato?
- Perché non siete entrato a dormire?
- Perché stiamo discutendo sulla luna. Sapreste dirci voi se è
abitata o no?
- Che cosa volete che ne sappia io, signor...
- Conte d'Alcalà, per Bacco!...
- Conte d'un corno! - esclamò il taverniere, che giungeva in
quel momento, asciugandosi il sudore che gli inondava il viso colla salvietta
che gli serviva per pulire le tazze di terra cotta. È il mio uomo.
Il guascone si era voltato verso il furfante, chiedendogli con
feroce cipiglio:
- Chi siete voi?
- Il taverniere d'El Moro. Non fate lo sciocco, signor
mio. Vi ho riconosciuto e cosi pure ho riconosciuto i vostri compagni.
- Signor capo-ronda, - disse il guascone,
fingendosi altamente meravigliato. - Non vi è in questa città un ricovero pei
pazzi? Se l'hanno costruito, afferrate quell'imbecille e cacciatevelo dentro a
doppio catenaccio.
- Vi dico che è proprio lui! - strillò l'oste. - Voleva
scannare o sventrare quell'altro che ha il barbone e che ora è diventato suo
amico. Sono dei filibustieri!... Ve l'assicuro io.
- Per satanasso! - gridò Mendoza, facendosi innanzi, colla
spada sguainata. - Chi sei tu, mascalzone, che osi insultare il conte d'Alcalà
mio padrone? Da dove sei sbucato tu? Che cosa vuoi da galantuomini della nostra
specie?
- Ma sì, quell'uomo è pazzo da legare, - appoggiò il
fiammingo. - Io non ho mai questionato col mio padrone, il signor conte
d'Alcalà.
- Mariuoli! Avete bevuto nella mia taverna un doblone in tante
bottiglie.
Il capo della ronda non sapeva più che pesci prendere. Doveva
credere a quel nobilone che aveva tanti titoli intorno al suo blasone od al
taverniere?
- Signor conte, - disse. - Seguitemi al cabildo. Io devo
chiarire questa faccenda. Io conosco l'oste d'El Moro e so che è sempre
stato un galantuomo.
- E che! - gridò il guascone. - Vorreste tradurre in prigione
un signor d'Aramejo dei Mendoza y Alicante y Bermejo de los Angelos, conte
d'Alcalà? Mi lagnerò col marchese di Montelimar mio amico e vi farò consegnare
per un paio di settimane, signor capo-ronda.
- Il mio dovere è di non lasciarvi in libertà, almeno pel
momento, signor conte, - disse il soldato. - Qui vi è un uomo, noto in tutta
Pueblo-Viejo, che vi accusa.
- E vi sono anche i quattro miei aiutanti, - disse il
taverniere.
Il guascone scambiò un rapido sguardo coi suoi compagni, poi,
comprendendo benissimo che una battaglia sarebbe stata troppo pericolosa contro
quattro archibugieri e due alabarde e peggio, con un uomo inerme come lo era il
fiammingo, disse con un fare sdegnoso:
- Un conte d'Alcalà non è mai stato rinchiuso in un cabildo.
Se volete arrestarci, conduceteci nel palazzo del governatore. Suppongo che
avrà qualche camera per rinchiudere, sia pure con trenta sbarre di ferro, delle
persone dabbene. Domani poi, furfante d'un taverniere, saprai chi sono io e chi
sono le persone che mi accompagnano. Bada però alla tua pancia!...
- Non sarete voi che spillerete vino dal mio barile, - rispose
l'oste, che era sempre furioso.
- Vedrai, amigo!... Signor capo-ronda
siamo con voi. Vi avverto però che se ci tradurrete al cabildo lavoreranno
le nostre spade.
- Giacché voi avete affermato di essere l'amico del marchese
di Montelimar, governatore della città, vi condurrò da lui, - rispose il
soldato. Io ne ho abbastanza di questa brutta faccenda.
Amico, - disse il guascone, volgendosi verso il fiammingo, -
vi siete provvisto abbondantemente di sigari, come vi avevo ordinato?
- Sì, signor conte, - rispose l'uomo barbuto. - Sapete bene
che io non scordo mai i vostri ordini.
- Date da fumare alla ronda.
Il fiammingo trasse da una tasca interna una manata di Cuba
autentici e li offrì ai soldati, i quali non si fecero pregare ad accettare la
cortese offerta.
- Niente al taverniere, - disse il falso conte. - Quello meriterebbe
una corda al collo. E ora, signori miei, andiamo a dormire a casa del
governatore. Domani questa brutta faccenda sarà finita e quel furfante di
taverniere mi farà le sue scuse. Partiamo.
- Andatevene al vostro albergo, - disse il capo della ronda all'oste.
- Pel momento non abbiamo più bisogno di voi.
- Teneteli d'occhio, perché quei tre signori sono capaci di
giuocarvi un brutto tiro. Vi dichiaro che sono dei cattivi avventurieri.
- Chiudi il becco, brutto pappagallo, - disse il conte, con
voce minacciosa. - Ed ora vattene, o t'insegno io, anche in presenza di questi
bravi militi, quanto può costare un'offesa fatta al conte d'Alcalà.
- Via, via, a domani, - disse il capo della ronda, prendendo
il taverniere per le spalle e spingendolo. - Voi pel momento non entrate più in
questa faccenda. Potreste esservi ingannato.
- Ma che!... Sono cialtroni!...
- Basta, carrai! Andatevene o arresto anche voi.
- E allora ci penserò io ad accopparlo, - disse il fiammingo.
troppo!...
- Signori, - disse il capo della ronda, il quale gustava il
sigaro regalatogli dall'avventuriero. - Vi prego di seguirmi al palazzo del
governatore. Io spero che questa faccenda finirà bene per tutti voi.
Tre archibugieri si misero dinanzi ai tre avventurieri;
il quarto ed i due alabardieri di dietro e si misero in marcia, mentre il
taverniere, niente soddisfatto, se ne andava da un'altra parte, brontolando.
Mendoza urtò il gomito del guascone.
- E ora? - gli chiese sottovoce.
- Non vi inquietate, compare, - rispose don Barrejo. - Suona
in questo momento mezzanotte e Sua Eccellenza il governatore non prenderà il
cioccolatte prima delle nove o delle dieci. In nove ore un bravo guascone può,
se vuole, rovesciare anche il mondo.
Il marinaio scosse il capo, come uomo poco convinto d'una
simile gradassata, però si guardò bene dal rispondere, per non mettere in
sospetto i militi della ronda, quantunque fossero tutti occupati a fumare i
sigari, veramente eccellenti, dell'uomo barbuto.
Dopo aver percorso quattro o cinque vie, il drappello sbucava
su una vasta piazza, in mezzo alla quale s'innalzava una magnifica chiesa di
enormi dimensioni: quella chiesa che doveva più tardi far passare un terribile
momento agli abitanti della piccola città.
Di fronte sorgeva un palazzotto, munito sulla cima di merli e
di minuscole torricelle e con un ampio portone che metteva su uno spazioso
patio: era l'abitazione di S. E. il marchese di Montelimar, governatore di
Pueblo-Viejo.
Una grossa lampada, formata da sette od otto candele riunite e
racchiuse dentro un enorme globo di vetro giallo, illuminava l'entrata e i due
alabardieri che erano di guardia.
- S. E. dorme, - disse il capo della ronda, dopo aver dato uno
sguardo verso le finestre che erano tutte chiuse ed oscure.
- Non c'è nessuna premura, - rispose il guascone. - Mi offrirà
il cioccolatte domani mattina, quando si sarà alzato. Oh!... Siamo vecchie
conoscenze.
- Chiederò per voi e pei vostri compagni una buona stanza, dei
buoni letti...
- E delle bottiglie e una cena, - disse don Barrejo. - Ho dei
dobloni da spendere io, e che non sanno che cosa fare in fondo alle mie tasche.
Probabilmente si annoieranno come il suo padrone. Eccovene uno purché ci diate
da mangiare e da bere. Sono troppo arrabbiato per coricarmi.
- Farò il possibile per contentarvi, - rispose il
capo-ronda, il quale in fondo doveva essere un brav'uomo. -
S. E. ha una buona cucina e un ottimo cuoco, a quanto si dice, e andrò a
scovare quanto è rimasto di meglio della cena.
Scambiò alcune parole cogli alabardieri di guardia e guidò i
prigionieri su per un magnifico scalone di marmo giallo, introducendoli in una
stanza situata al primo piano, la cui porta era aperta.
- Attendetemi lì dentro, mentre vado ad avvertire il
maggiordomo di S. E.
Il guascone e i suoi due amici fecero la loro entrata, mentre
la ronda si metteva di guardia al di fuori...
Quantunque la mezzanotte fosse già scoccata, quella stanza era
ancora illuminata da un paio di candele.
Era una specie di sala, ammobigliata senza lusso, poiché non
conteneva che una immensa tavola coperta d'un tappeto verde e una dozzina di
sedie e due scaffali pieni di libracci polverosi.
- Che sia la biblioteca di S. E.? - chiese il guascone.
- Così parrebbe, - rispose Mendoza, il quale osservava
attentamente tutti gli angoli, sperando di trovare qualche uscita ignorata dal
capo-ronda.
- Ci sono delle inferriate alle finestre? - domandò il
guascone.
Il fiammingo alzò le pesanti tende e fece una smorfia.
- È una sala-prigione, questa, signori
miei, - disse. - Quel capo-ronda, malgrado la sua aria
d'ingenuo, deve essere un furbo di tre cotte.
- Come ve la caverete ora, don Barrejo? - chiese Mendoza, il
quale aveva ispezionata inutilmente la camera. - Il vostro amico governatore vi
riconoscerà?
- Il mio amico!... Non ho mai veduto il marchese, io!... Ma
non ve ne date troppo pensiero, signor basco. La commedia non è ancora finita.
Il fiammingo lo guardò con stupore.
- Siete il diavolo voi? - disse.
Il guascone si volse guardandosi dietro la schiena.
- Io non ho la coda, - rispose poi. - Come vi può essere un
diavolo senza quella nera o rossa appendice? Se io non la posseggo, vuol dire
che io sono un uomo al pari di voi, signor fiammingo.
- Se non siete veramente compare Belzebù, dovete essere
qualche suo stretto parente, - disse Mendoza, ridendo.
In quel momento la porta si aprì ed entrò il
capo-ronda, seguito da due servi africani, i quali
portavano dei canestri coperti con delle salviette.
- Signor conte d'Alcalà, - disse, rivolgendosi al guascone, mi
rincresce dovervi avvertire che non vi sono più stanze disponibili nel palazzo
di S. E. e che quindi sarete costretti a passare la notte qui. Se vorrete vi
farò portare dei materassi.
- È inutile, - rispose don Barrejo. - Abbiamo più fame che
sonno, più sete che desiderio di riposarci e ci basteranno un paio di sedie. Io
sono un uomo di guerra, e i miei servi sono abituati a dormire sulla nuda
terra, quando sono in campagna.
- Devo pure avvertirvi, signor conte, che ho ricevuto l'ordine
di rimanere con voi.
- Eh! - fece il guascone, corrugando la fronte. - Forse voi
non gli avete detto che io sono il conte d'Alcalà.
- Anzi ho aggiunto tutti gli altri vostri titoli, perché non
mi sono ancora sfuggiti dalla mente, tanto sono simpatici.
Il capo-ronda aveva pronunciato queste
parole con una leggiera punta d'ironia, che non era sfuggita al terribile
avventuriero.
- Ciò mi rincresce, - disse finalmente il guascone, dopo
d'aver fatto alcuni passi lungo l'immensa tavola. - È una prova di poca
fiducia.
- Io, signor conte, non sono altro che un povero soldato e
devo obbedire sempre.
- Ci avete portato almeno da mangiare e da bere?
- Tutto quello che ho trovato nella cucina di S. Eccellenza il
signor Governatore.
- Dovevate aggiungere almeno un bossolo e dei dadi, per fare
qualche partita al montes.
- Un soldato tiene sempre nelle tasche l'uno e gli altri, per
ammazzare alla meglio il tempo, quando non è di guardia.
- Bene, bene, - disse il guascone. - Cenerete con noi.
Congedate almeno quei due negri. Io non amo vedermi intorno delle facce nere
quando mangio.
Il capo-ronda prese i due grossi canestri
e li depose sulla tavola, poi fece un segno ai due schiavi, i quali uscirono
subito, dopo d'aver fatto un profondissimo inchino.
Mendoza e il fiammingo, che dovevano passare, di fronte al
soldato pei servi del conte, vuotarono lestamente i due canestri mettendo sulla
tavola della carne fredda, un paio di anitre che erano state appena toccate,
del formaggio salato e dei dolci, nonché una mezza dozzina di bottiglie
francesi, almeno a giudicarlo dalle etichette dorate.
- Ceniamo, - disse il guascone, con fare burbero. - Con un
doblone per il cuoco di S. E. potevano fornirci qualche cosa di meglio.
- I pranzi non s'improvvisano, signor conte, - disse il
caporonda. - La mezzanotte è già scoccata da un bel po' e tutti i negozi sono
chiusi.
- Bene, bene: mangiamo.
I tre avventurieri, ai quali l'appetito non faceva mai difetto
a qualunque ora del giorno, si misero a divorare gli avanzi della cena di S. E.
il governatore, avanzi già abbondanti anche per quattro uomini.
Il capo-ronda, che forse mai si era trovato
dinanzi a delle anitre così splendidamente arrostite, faceva del suo meglio per
gareggiare col signor conte d'Alcalà, d'Aramejo, de Mendoza y Alicante, y
Bermejo de los Angelos e d'altri luoghi ancora, e s'attaccava con slancio anche
alle bottiglie che il basco andava sturando a due alla volta.
Quando tutta quella grazia di Dio fu scomparsa, il
capo-ronda, che era diventato di buonissimo umore sotto
l'influenza dei vini di Spagna e di Francia, trasse il bossolo e i dadi, ed i
quattro uomini giuocarono parecchie partite al montes, scommettendo un
bel numero di piastre.
Specialmente i tre prigionieri mostravano una calma
meravigliosa, più apparente che reale però, poiché fra un colpo e l'altro dei
dadi non cessavano di dare uno sguardo verso le due finestre, paventando la
comparsa del sole.
Forse il meno inquieto era il guascone. Probabilmente quel
diavolo d'uomo doveva aver architettato qualche cosa di straordinario per
levare sé e i suoi compagni da quel ginepraio, in fondo al quale potevano
nascondersi tre buone corde per appiccarli.
Gli spagnuoli non erano troppo teneri, e con ragione, coi
filibustieri e di rado se li lasciavano sfuggire di mano, quando avevano la
fortuna di potere acciuffare qualcuno di quei formidabili scorridori dei mari
americani.
Purtroppo il mattino giunse e la luce cominciò a trapelare
attraverso le tende. Mendoza ed il fiammingo guardarono con ansietà il
guascone, il quale stava in quel momento giuocando dieci piastre contro il
capo-ronda.
Don Barrejo non pareva affatto preoccupato. Solamente una ruga
piuttosto profonda, che gli solcava la fronte, tradiva qualche apprensione.
Terminò la partita, intascò il denaro che aveva vinto, poi si
alzò, dicendo:
- È giunto il momento d'andare a bere una tazza di cioccolatte
da S. E. il marchese di Montelimar. Si alza presto, signor soldato?
- È molto mattiniero, essendo sempre stato un gran cacciatore,
rispose il capo della ronda.
- Allora sarà già in piedi.
- Lo credo.
- Volete degnarvi di andarlo ad avvertire che il conte
d'Alcalà desidera salutarlo?
- Dovrò anzi spiegargli il motivo del vostro arresto, per
evitarmi una punizione.
- Andate pure.
Il capo-ronda stava per alzarsi, quando la
porta si aprì ed entrò un signore piuttosto attempato e vestito come un grande
di Spagna.
Il signor intendente di S. E. disse il soldato, inchinandosi.
- Dov'è questo conte d'Alcalà? disse il vecchio.
Sono io, signore, - rispose il guascone, facendo un lieve
saluto colla destra.
- S. E. il marchese di Montelimar vi aspetta.
- Sa perché mi hanno arrestato?
- Gli ho narrato il vostro disgraziato caso, signor conte, e
spero che tutto si accomoderà.
- Sono pronto a seguirvi.
- E noi, signor conte? - chiesero Mendoza ed il fiammingo.
- Mi aspetterete qui. Io non ho la cattiva abitudine di
condurre i servi dinanzi ai gentiluomini. Signor intendente sono ai vostri
ordini.
- O quel demonio lì ci fa mettere in libertà o rovina tutto e
ci fa appiccare, - mormorò il basco.
Il finto conte era già uscito, seguendo l'intendente, mentre
il capo-ronda rimaneva a guardia del basco e del fiammingo.
Dopo aver attraversato parecchi corridoi, che invece delle
finestre avevano delle feritoie, poiché tutti i palazzi dei governatori spagnuoli
delle colonie dovevano servire da fortezze in caso di pericolo, il guascone fu
introdotto in un elegantissimo salotto con divani e poltroncine di seta
gialla a fiori rossi e tendaggi ricchissimi, i quali attenuavano assai la luce.
Un uomo di circa quarant'anni, d'aspetto distinto, con barba e
baffi un po' brizzolati, con due occhi nerissimi e molto vivi, affogato in un
enorme colletto inamidato, come si usava in quel tempo, stava seduto dietro ad
un bellissimo scrittoio di acagiù, coperto d'un ricchissimo tappeto di seta
azzurra a ricami ed ingombro d'una straordinaria quantità di pergamene.
- Oh!... Eccellenza!... Sono molto lieto di rivedervi dopo
tanti anni, - disse il guascone, avanzandosi audacemente colla destra tesa.
Il governatore di Pueblo-Viejo non potè
fare a meno di alzarsi, guardando fisso fisso l'avventuriero.
- Come!... Non vi rammentate più del conte d'Alcalà, signore
d'Aramejo, di Mendoza y Alicante, y Bermejo de los Angelos? Mio padre era un
grande di Spagna. Voi siete bene il marchese di Maracaibo e di San Domingo?
- Certo, - disse il governatore, il quale guardava con
crescente stupore l'audace avventuriero.
- E allora dovete rammentarvi di me, - disse il guascone, il
quale giuocava disperatamente le sue ultime carte.
- Dove mi avete veduto voi, signor conte?
- Nel palazzo di vostra cognata, la bellissima marchesa di
Montelimar. Abbiamo bevuto insieme il cioccolatte, Eccellenza, vicino a un
tavolo da giuoco o nella gran sala. Ora non mi rammento bene, perché sono trascorsi
parecchi anni.
- Può darsi, - rispose il governatore. - Ho abitato infatti
per qualche tempo il palazzo del defunto mio fratello.
- Me ne ricordo come fosse ieri, - proseguì il guascone. - Vi
era un concerto quella sera nella dimora principesca dei Montelimar. Ah!... Che
splendida serata!...
- Voi dunque conoscete mia cognata?
- La marchesa Carmen di Montelimar!... È la perla delle grandi
Antille!...
- E come, voi, signor conte, vi trovate qui in istato
d'arresto?
- Sono due mesi che viaggio per recarmi a Panama, dove devo
raccogliere una piccola eredità di centomila dobloni, lasciatimi dal duca di
Barraquez, mio zio materno.
- E la chiamate una piccola eredità?
- Eh!... Miseria, - disse il falso conte.
- E perché avete interrotto il vostro viaggio e vi siete fatto
arrestare dalle ronde notturne? Mi si dice che avete fatto molto baccano in una
taverna della città.
- Vi dirò, Eccellenza, che lungo la via, anzi a poche leghe
dalla città, sono stato assalito da una turba d'indiani, i quali mi hanno massacrata
mezza scorta, uccisi i cavalli e rubate anche tutte le armi da fuoco. È stato
un vero miracolo se ho salvato solamente la mia spada e se sono riuscito a
liberare due dei miei servi. Gli altri a quest'ora saranno stati già divorati,
poveri diavoli.
- Questi indiani cominciano a diventare troppo prepotenti! -
esclamò il marchese. - Sarà necessario dare loro qualche terribile lezione, caramba.
- Era appunto quello che pensavo anch'io, quando sono entrato
in questa città, a piedi come un mendicante e senza nemmeno un archibugio, -
disse il guascone.
- Ed ora che cosa intendete di fare?
- Di andarmene al più presto a Panama, a raccogliere quei
pochi dobloni, - rispose il guascone.
- Avete già acquistati altri cavalli ed altre armi?
- No, Eccellenza, anzi sono molto preoccupato per questo, non
essendomi rimasto che una cinquantina di piastre. Gl'indiani hanno portato via
tutte le mie valigie, insieme a duemila dobloni che avevo preso con me per le
spese del viaggio.
Il guascone aveva pronunciate queste parole con accento cosi
commosso, che S. E. il governatore fu profondamente impressionato.
- Signor conte, - disse, - è uso di aiutarsi fra gentiluomini.
Ho nelle mie scuderie dei buonissimi cavalli, dei veri andalusi, e nel
magazzino delle armi, archibugi e pistole, in grande quantità. Se volete,
approfittate pure senza riguardi di sorta: quando sarete giunto a Panama mi
rimborserete gli animali.
- E che cosa potrò fare io per voi, Eccellenza? - chiese il
guascone, che sembrava vivamente commosso.
- Mi saluterete il viceré di Panama, a nome mio.
- Farò di più, Eccellenza. Un uomo che eredita centomila
dobloni in contanti...
- Lasciate andare, signor conte. Ah!... Ed il vostro affare?
- Quale?
- Spiegatemi perché le mie ronde vi hanno arrestato.
Il guascone si mise a ridere.
- È stato in causa d'una comica avventura. Eccellenza, -
disse. - Non conoscendo la città, mi ero rifugiato, insieme ai miei due servi,
in una taverna, per mangiare un boccone e rimettermi un po' dall'emozione
provata. Il padrone, avendo saputo, non so come, che io ero un conte, mi fece
pagare un'anitra ed una miserabile bottiglia di metzcal, la bagatella
d'un doblone. Io protestai, quel briccone protestò pure, anzi lanciò contro di
me tutti i suoi cuochi armati di spiedi, e allora sguainai la spada e li misi
tutti in rotta. Io credo che un altro gentiluomo non avrebbe fatto
diversamente.
- Forse di peggio, - disse il marchese, ridendo. - Ne avrebbe
infilzato qualcuno.
- E ne avrei infatti sbudellato qualcuno, se non fossero
scappati tutti come veltri.
- È meglio che l'avventura sia terminata senza spargimento di
sangue, conte. Quando volete partire, dunque?
- Se fosse possibile, immediatamente, - rispose il guascone,
il quale temeva, e non senza ragione, che da un momento all'altro giungessero il
taverniere d'El Moro ed i suoi aiutanti.
Il governatore batté le mani e subito comparve l'intendente,
seguito da due servi negri, i quali portavano su dei vassoi d'argento delle
tazze colme di cioccolatte e dei pasticcini.
Il marchese scambiò col suo segretario alcune parole a mezza
voce, poi, rivolgendosi verso il guascone, gli disse amabilmente:
- Spero, signor conte d'Alcalà, che non rifiuterete una tazza
di cioccolatte. Già noi in America ne facciamo molto uso, lo sapete.
- Ne bevo sempre, quando apro e quando sto per chiudere gli
occhi, - rispose il guascone, prendendo una tazza e vuotandola frettolosamente.
- Eccellenza, - proseguì poi, - al mio ritorno, se non vi
dispiace, verrò a ritrovarvi.
- La mia casa è sempre aperta ai gentiluomini d'oltre Atlantico,
- rispose cortesemente il governatore, porgendo la destra al falso conte.
Don Barrejo gliela strinse calorosamente, fece tre profondi
inchini, poi uscì dal salotto, facendone, prima di varcare la soglia, altri tre
anche più profondi.
Sul pianerottolo lo aspettava l'intendente.
- I cavalli e le armi sono pronte, signor conte, - gli disse.
- Il marchese è una persona dabbene, - rispose don Barrejo. -
Quando avrò incassata la mia eredità non mi scorderò né di lui, né di voi.
Centomila dobloni non sono gran cosa, tuttavia non sono, dopo tutto, cento
piastre.
- Dite: una fortuna colossale, signor conte.
- Peuh, - disse il guascone. - Mio zio avrebbe potuto
lasciarmi ben di più. Era il nipote dell'arcivescovo di Panama, quello morto
sei anni fa e so che era ricchissimo. Oh!... Non importa!... Signor intendente,
volete farmi il favore di far avvertire i miei uomini di venirmi a raggiungere?
- Me ne incarico io, - rispose il brav'uomo. - Scendete pure,
signor conte, troverete i cavalli pronti dinanzi alla porta del palazzo.
- Grazie, signor intendente: quando sarò in possesso dei miei
centomila dobloni non mi scorderò di voi.
Scese lo scalone, senza troppo affrettarsi, quantunque avesse
invece il desiderio di fare una sola volata fino al di là dei bastioni, per
paura che da un momento all'altro giungesse quel maledetto taverniere a
guastare la faccenda cosi bene incamminata, e uscì dal palazzo.
Dinanzi, trattenuti da due negri, scalpitavano tre bellissimi
cavalli sauri, dalla criniera lunghissima, bassi di statura, come sono
generalmente quelli di Tazza andalusa, i migliori che abbia la Spagna, perché
velocissimi, resistentissimi e d'una solidità meravigliosa.
Il guascone li esaminò a lungo, da uomo che se ne intende, poi
si stropicciò allegramente le mani, dicendo:
- Per bacco!... Il signor marchese di Montelimar possiede dei
cavalli splendidi!... Quando avrò ereditato i miei centomila dobloni, lo
pregherò di vendermene alcuni. Non manca nulla; bardatura solida, archibugio
appeso alla sella, pistole nelle fonde. È ben gentile S. E. il Governatore.
Si capisce che queste parole le aveva pronunciate a voce alta,
perché le udissero i due staffieri che trattenevano i cavalli ed i due
alabardieri che stavano di guardia dinanzi al magnifico portone del palazzo.
In quel momento comparvero Mendoza ed il fiammingo,
accompagnati dal capo-ronda, il quale appariva molto
avvilito per l'enorme granchio che aveva preso.
- A cavallo i miei servi, - disse il guascone, montando in
sella, da cavallerizzo esperto. - Vi avverto che ho molta premura e che quindi
faremo una lunga trottata.
Il basco ed il fiammingo erano rimasti immobili, come
trasognati, guardando con profondo stupore quel diavolo d'uomo.
Credevano di venire condotti in una prigione meno comoda di
quella del palazzo del governatore, per poi venire con ogni probabilità
appiccati, e si trovavano invece dinanzi dei magnifici cavalli e delle armi.
- Mi avete capito? - gridò don Barrejo, facendo un gesto
d'impazienza. - Il signor governatore ha riconosciuto l'errore commesso dalle
sue guardie e ci ha rimessi in libertà. Diamine!... Non poteva certo mantenere
l'arresto d'un conte d'Alcalà.
Quindi, volgendosi verso il capo-ronda,
gli disse con voce severa:
- E voi un'altra volta siate più guardingo, caramba!...
- Signor conte, ricevete le mie scuse, - rispose il povero
soldato.
- E voi ricevete invece questi, - rispose il guascone, levando
da un taschino alcune piastre e gettandogliele dinanzi. - Avanti!
Allentò le briglie e si allontanò, seguito dal basco e dal
fiammingo, mentre gli alabardieri di guardia gli presentavano le armi e gli
staffieri negri si inchinavano fino a terra.
Il guascone, che aveva sempre una grande paura che giungesse
il taverniere, attraversò la città al trotto, passò il ponte levatoio e lanciò
il cavallo a gran carriera, mormorando:
- Anche questa volta non hanno avuto il tempo d'intrecciare la
corda per appiccarmi.
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