Fatta un po' di toelette, per non sembrare dei veri
straccioni, il conte ed i tre avventurieri lasciarono la piantagione, seguendo
la riva destra dell'impetuoso fiumicello che aveva servito loro per sfuggire
alle guardie della Capitaneria.
Panama si stendeva dinanzi a loro a perdita d'occhio, colle
sue superbe chiese e coi suoi magnifici palazzi, formando un gigantesco
semicerchio intorno alla meravigliosa baia.
Distrutta da Morgan, la città non aveva tardato a risorgere
dalle sue rovine, più bella e più vasta di prima. Era stata però ricostruita
alcune leghe più al sud, in una pianura infinitamente più salubre della prima e
anche più spaziosa, ed il suo porto aveva acquistato una prosperità che tutte
le città marittime del centro d'America, del Perù, della Bolivia e del Chili le
invidiavano.
Quantunque minacciata continuamente dai filibustieri, sempre
in agguato sull'Oceano Pacifico, squadre di velieri e di galeoni giungevano dai
porti del sud, portando ricchezze incalcolabili e soprattutto i prodotti delle
inesauribili miniere d'oro del Perù e anche di quelle d'argento e non meno
inesauribili della California e del Messico.
I tre avventurieri ed il conte, fatta colazione in una fonda,
ossia in una piccola trattoria d'una delle innumerevoli borgate della
città, le quali s'allungavano in mezzo a floridissime piantagioni, s'avviarono
verso i quartieri signorili della città, fingendosi tranquilli borghesi a
passeggio.
Mendoza, come sempre, li guidava, essendo pratico della città.
Pranzarono in un'altra fonda, non osando ancora accostarsi alla posada
tenuta dalla bella castigliana, perché poteva ancora essere guardata da
qualche manipolo di guardie e, calata la sera, s'avviarono verso l'immensa
piazza dove sorgevano il palazzo del viceré, la cattedrale ed i palazzi dei
consiglieri dell'Udienza Reale di Panama.
- Signor conte, - disse il guascone, mentre s'incamminavano
verso l'abitazione di don Juan de Sasebo, - verremo noi ricevuti da quel
signore? Un Consigliere dell'Udienza Reale deve essere un
pesce-cane grossissimo.
- Ci pensavo in questo momento, - rispose il figlio del
Corsaro Rosso.
- Suppongo che non avrete l'idea di farvi annunciare pel conte
di Ventimiglia, signore di Roccabruna e di Valpenta.
- Sarebbe come mettermi una corda al collo.
- È necessario trovare qualche scusa.
- Voi che siete guascone e che avete sempre delle trovate
splendide, gettatene fuori una.
- L'ho qui nel cervello, - rispose don Barrejo.
- Spiegatevi dunque.
Il guascone si fermò a guardare il conte, poi gli disse:
- E perché non potremmo noi farci annunciare come messi
dell'Illustrissimo Presidente dell'Udienza Reale di Panama, incaricati di fare
ai consiglieri delle gravissime rivelazioni?
- Su che cosa?
- Sui progetti dei filibustieri, per esempio.
- Voi avete una fantasia meravigliosa.
- Me lo diceva anche mio padre, predicendomi che avrei fatto
una grande fortuna. Credo però, fino ad oggi, di aver dato più stoccate che
guadagnate piastre. Mio padre era troppo vecchio, povero uomo e non ci vedeva
più bene.
- Non avete ancora terminata la vostra carriera, - disse
Mendoza. - Invece di arruolarvi sotto gli spagnuoli di San Domingo, dovevate
correre il mare coi filibustieri del Golfo del Messico.
- Avete ragione, signor basco. Sono stato un imbecille però
spero di rifarmi.
Erano giunti sulla immensa piazza della cattedrale. Da una
parte giganteggiava il marmoreo palazzo del viceré; dall'altra s'alzava una
lunga fila di palazzi, abitati dai pezzi grossi del governo, e dinanzi ai
portoni, guardati da un paio di alabardieri negri, brillavano delle immense
lanterne.
Il guascone afferrò per una manica il primo soldato che
attraversava la piazza, chiedendogli ove abitava il Consigliere don Juan de
Sasebo.
- Quel portone, là, di fronte a voi, - rispose lo spagnuolo.
Venite dal Chili o dal Perù voi, per non sapere ove abita un
personaggio così importante?
- Veniamo dal Messico, il paese degli ignoranti, - ripicchiò
il guascone, un po' seccato.
Il soldato si strinse nelle spalle e proseguì il suo cammino,
borbottando:
- Questi avventurieri del Messico si sono incretiniti, bevendo
troppo metzcal.
Fortunatamente il terribile' guascone non l'aveva udito.
Il conte ed i suoi spadaccini si erano diretti verso il
palazzo del Consigliere dell'Udienza Reale di Panama e si erano presentati ai
due negri che passeggiavano dinanzi e indietro sulla gradinata.
- Il vostro padrone è in casa? - chiese il conte.
- Sta lavorando nel suo gabinetto.
- Andate ad avvertirlo che ho una comunicazione
importantissima da fargli, da parte dell'illustrissimo signor Presidente
dell'Udienza Reale. Dieci piastre per voi se fate presto.
Uno dei due negri si slanciò come un giaguaro su per la
superba gradinata, allettato da quel premio che non doveva guadagnare troppo
spesso.
Non era trascorso un minuto che ridiscendeva, saltando i
gradini a quattro a quattro, col pericolo di fiaccarsi il collo.
- Seguitemi, caballero, - disse. - Il signor
Consigliere vi aspetta.
Il conte sborsò le dieci piastre e salì lo scalone, sempre
seguito dai suoi avventurieri.
Attraversate parecchie sale, furono introdotti in un gabinetto
illuminato da due giganteschi doppieri d'argento ed ammobiliato con severa
eleganza.
Un uomo d'aspetto distinto, sulla quarantina, con una barba
nerissima che faceva spiccare vivamente il candore dell'altissimo colletto
stocchettato che usavano in quell'epoca i grandi personaggi, passeggiava pel
gabinetto, battendo a terra, con una certa nervosità, la punta della guaina della
sua spada.
Il conte si era levato il feltro, facendo nel medesimo tempo
un leggiero inchino. I tre spadaccini avevano fatto altrettanto, poi si erano
appoggiati contro la porta che avevano subito chiusa, per impedire l'entrata a
chicchessia.
- Siete voi don Juan de Sasebo? - chiese il conte.
- In persona, - rispose il Consigliere. - Mi hanno detto che
voi avete da comunicarmi delle notizie preziose da parte del Presidente
dell'Udienza Reale.
È vero, signore.
Parlate, però... - disse, indicando i tre avventurieri.
Vi dirò poi chi sono, - rispose il conte. - Possono assistere
al nostro colloquio.
- Allora parlate.
- Sapete che il marchese di Montelimar è stato fatto
prigioniero dai Corsari del Pacifico?
- Avete detto? - gridò il Consigliere, impallidendo.
- Che è stato preso a Nuova Granata.
- È stata espugnata quella città?
- Dopo sei ore di combattimento.
- Malgrado il suo robustissimo forte?
- Nulla resiste ai filibustieri, lo sapete bene.
- Sì, sono veri figli dell'inferno, - disse il Consigliere, con
collera.
- Lo credo anch'io, don Sasebo.
- Ed ora?
- Sono venuto a dirvi di mettere al sicuro la nipote del Gran
Cacico del Darien.
- Per ordine di chi?
- Del marchese, don Sasebo, - rispose il conte.
- Avete veduto il mio disgraziato amico? - chiese il
Consigliere, in preda ad una vivissima emozione.
- L'ho lasciato ventiquattro ore fa...
- Dove?
- All'isola Taroga.
Eravate caduto anche voi fra le unghie di quei ladroni?
Sì, signor Consigliere.
E siete riuscito a fuggire?
Ho avuto questa fortuna e questi tre uomini mi hanno aiutato
validamente. Senza di loro io non sarei qui.
Erano anche essi prigionieri?
Sì e sono tre nobili di Nuova Granata.
E perché il marchese non ha potuto seguirvi? - chiese il
Consigliere.
t, strettamente sorvegliato.
Poteva riscattarsi. Io sarei stato pronto a pagare a quei
ladroni di mare anche cinquantamila piastre, se le avessero chieste.
- E le avrebbero senza dubbio accettate, se un uomo non vi si
fosse opposto.
- Chi?
- Il figlio del Corsaro Rosso, il conte di Ventimiglia.
Don Sasebo aveva mandato un grido.
- Il figlio del famoso corsaro e nipote dei non meno famosi
corsari, il Nero ed il Verde, è giunto in America?
- Sì, signor Consigliere.
- Che cosa è venuto a fare qui?
- A cercare sua sorella, la nipote del Gran Cacico che vi è
stata affidata.
- Come lo sapete voi?
- Me lo ha detto il marchese.
- E che cosa vorrebbe il conte, per rimettere in libertà il
mio povero amico?
- La restituzione di sua sorella.
- E se non si trovasse più presso di me?
Questa volta fu il signor di Ventimiglia che divenne pallido.
- Possibile! - disse poi. - Il marchese mi aveva assicurato
che si trovava con voi.
- Infatti vi era.
- Ed ora?
Invece di rispondere, il Consigliere chiese:
- Credete voi possibile, signore, la liberazione del marchese?
- E come?
- Voi conoscete l'isola di Taroga, giacché m'avete detto poco
fa che ci siete stato come prigioniero.
- È verissimo, - rispose il conte, il quale si teneva in
guardia, non sapendo dove voleva finire il Consigliere.
- Non potreste assoldare, a mie spese, una dozzina di
avventurieri, persone che a Panama non mancano, e tentare la liberazione del
marchese?
- Ciò che voi mi proponete, signore, è una faccenda molto
seria. I filibustieri vegliano e, se ci prendono, non ci risparmieranno.
- Io non conterò le piastre.
- Non voglio dirvi né sì, né no, signor Consigliere, - rispose
il corsaro. - Trattandosi però d'una impresa così, desidererei che mi
accordaste almeno ventiquattro ore per riflettere.
- Anche quarant'otto, se lo desiderate, - rispose don Juan de
Sasebo.
- Tornerò domani sera, se non vi spiace, e vi darò una
risposta affermativa o negativa. Nel caso che accettassi e che riuscissi a
liberare il marchese, che cosa dovrò dirgli della fanciulla che vi ha affidata?
- Che è al sicuro.
- Ma dove? - insistette il conte.
- Non lo dirò che al marchese.
Il signor di Ventimiglia represse con grande fatica un gesto
di collera.
- Ci rivedremo domani sera, - disse poi.
- Dove abitate?
- In una piccola posada dei sobborghi, che non so nemmeno
come si chiami.
- Vi occorre del denaro?
- Pel momento no, signor Consigliere. Me ne darete se
accetterò la vostra proposta.
Don Juan de Sasebo si era alzato, ciò che voleva significare
che l'udienza era finita.
Il conte fece un profondo inchino e uscì insieme ai suoi tre
spadaccini, non troppo soddisfatto di quel colloquio.
Non era forse ancora uscito dal palazzo, quando un servo entrò
nel gabinetto, dicendo:
- Signore, vi è una persona che desidera vedervi.
- Ti ha detto chi è?
- Il signor marchese di Montelimar.
Il Consigliere aveva fatto un salto.
- Tu devi aver udito male.
- No, padrone, - rispose il negro.
- È impossibile che il mio amico sia giunto.
- Mi ha detto che è il marchese di Montelimar.
- Introducilo subito, subito.
Il servo uscì ed un istante dopo entrava, seguito dal
marchese.
- Tu! - esclamò il Consigliere, correndogli incontro ed
abbracciandolo. Non sogno io?
- No, amico, - rispose l'ex-governatore di
Maracaibo. - Qualche volta si scappa anche ai filibustieri.
- E sei giunto solo da Taroga?
- Insieme ad una dozzina di prigionieri.
- Ed io che avevo impegnato un avventuriero per liberarti?
- Chi è?
- Quello che mi avevi mandato per aver notizie sulla nipote
del Gran Cacico del Darien.
- Io! - esclamò il marchese. - Che cosa mi narri tu, don Juan?
- Come!... Non lo hai mandato?
- Io non ho dato a nessuno questo incarico, - rispose il
marchese.
- Chi è dunque quell'avventuriero?
- Un uomo solo può avere interesse a sapere che cosa è
avvenuto e dove si nasconde la nipote del Gran Cacico del Darien. Si trova
sempre presso di te?
- No, - rispose il Consigliere.
- Dove l'hai mandata adunque?
- Da parecchie settimane corre qui voce che i filibustieri
abbiano intenzione di tentare un audace colpo di mano sulla città e sapendo io,
che mi trovavo a Panama quando la presero d'assalto, di quanto siano capaci
quei terribili ladroni di mare, l'ho fatta condurre, sotto buona scorta, a
Guayaquil, una città che non si può prendere facilmente.
- E hai fatto bene, - rispose il marchese, - poiché un giorno
quella fanciulla varrà milioni e milioni di piastre, che intendo d'intascare
io. Se poi il figlio del Corsaro Rosso la vorrà, se la prenda pure senza
piastre.
- Che cosa mi narri tu, amico?
- È l'unica crede delle favolose ricchezze del Gran Cacico e,
quando il vecchio sarà morto, diventerà la padrona di montagne d'oro, che si
dice siano nascoste in caverne note solamente agli intimi del selvaggio
monarca.
- È dunque ancora vivo il Gran Cacico?
- E gode ottima salute, malgrado i suoi ottanta o novant'anni.
- Tu dunque credi che quell'avventuriero?...
- Non sia altri che il signor di Ventimiglia, - rispose il
marchese. - Un bell'uomo, giovane ancora, vero tipo d'italiano, coi capelli e
baffi neri, la pelle leggiermente abbronzata...
- Sì, è lui! - esclamò il Consigliere.
- Era accompagnato da tre uomini?
- Sì, tre figure di spadaccini.
- Le sue anime dannate. Tornerà qui?
- Domani sera.
- Al mio posto che cosa faresti, don Juan?
- Lo farei arrestare ed appiccare al più presto.
Il marchese scosse il capo.
- No, - disse poi. - Si verrebbe a sapere che la bella indiana
che io ho adottata è la figlia del Corsaro Rosso; si potrebbe anche venire a
sapere che io ho un motivo per tenerla presso di me e molte altre cose ancora.
No; si può spacciarlo senza rumore.
- Che cosa vuoi dire, amico?
- Non avresti sottomano qualche terribile spadaccino? Uno
famoso veh, perché si dice che il conte sia una lama terribile. Un agguato, una
disputa, una buona stoccata ed eccomi sbarazzato da quell'importuno.
Il Consigliere pensò un momento, poi disse:
- L'ho trovato.
- Chi è?
- Lo chiamano: El Valiente, ma pare che sia un
avventuriero dell'Europa centrale, poiché massacra orribilmente la nostra
lingua. Mi sono servito di lui una volta, in una certa circostanza e non ho
avuto da lagnarmi della sua abilità.
- Una lama scelta?
- Terribile.
- Costosa?
- Un cinquanta piastre.
- Ne darei anche mille, purché riuscisse ad abbattere il
figlio del Corsaro Rosso.
- Tu dimentichi una cosa.
- Quale.
- Ed i tre avventurieri che accompagnano il conte?
- Troveremo un pretesto qualunque per trattenerli qui. Si
potrebbe vedere questo Valiente?
Subito?
Se fosse possibile sarebbe meglio.
So dove abita: manderò un uomo a cavallo ad avvertirlo di venire
subito.
Guardò l'orologio appeso al muro, uno di quegli orologi
altissimi, chiusi in una cassa.
- Non sono che le nove, - disse. - Fra dieci minuti può essere
qui, aspettami.
Il Consigliere uscì per dare gli ordini, poi rientrò, dicendo:
- Il messo è già a cavallo; intanto ceneremo, poiché
m'immagino che avrai fame, caro amico.
- È da ieri sera che non mangio, - rispose il marchese.
Don Juan de Sasebo lo fece passare in un vicino salotto,
ammobiliato con molto gusto e dove una tavola era pronta, con bellissimi piatti
d'argento finemente cesellati.
Erano già alle frutta, quando un servo negro entrò, dicendo al
Consigliere:
- Padrone, El Valiente è qui.
- Sei riuscito a scovarlo?
- In una taverna vicina alla sua catapecchia.
- Conducilo qui subito.
Il negro uscì rapidamente ed un momento dopo El Valiente si
trovava dinanzi al marchese ed al Consigliere dell'Udienza Reale.
Era quell'uomo il vero tipo dell'avventuriero e spadaccino.
Era un uomo alto, grosso, forte come un giovane toro, con lunghi capelli biondastri
ed una barba invece rossastra, un naso che somigliava al becco d'un pappagallo
e due occhi grigiastri che avevano il lampo dell'acciaio.
Alla cintura portava una spada francese, lunga e sottile ed
uno di quei pugnali chiamati: misericordie.
- Mi avete fatto chiamare, Eccellenza? - chiese, facendo un
goffo inchino e levandosi il feltro adorno d'una lunga penna di struzzo, ormai
rosa dal tempo e dalle intemperie.
- Sì, perché ho ancora bisogno di voi, - rispose il
Consigliere.
- Qualche altra persona vi darebbe noia?
- Precisamente.
- Si manda allora all'inferno, - disse lo spadaccino. - Laggiù
vi è posto per tutti.
- Anche per voi, - disse il marchese.
- Può darsi, Eccellenza, ma molto tardi, io spero.
- Badate però che l'uomo che dovete spacciare è un gentiluomo
che ha il pugno molto saldo.
Un sorriso di sprezzo contorse le labbra del brigante.
- Ho mandato all'altro mondo non pochi gentiluomini,
Eccellenza, e più facilmente di quello che credete. Si vantano tutti famosi
spadaccini ed invece non sono che dei pessimi dilettanti, incapaci di fare una
buona cartocciata o di parare il colpo delle cento pistole.
- Un colpo famoso, a quanto si dice, - disse il marchese.
- Terribilissimo, Eccellenza. Se non si para, e si para assai
difficilmente, si va diritti all'altro mondo, senza un minuto di ritardo. Dov'è
l'uomo che devo spacciare?
- Correte troppo, Valiente, - disse il Consigliere.
- Quando devo dare delle stoccate ho sempre fretta, - rispose
il bandito.
- Non ucciderete prima di domani sera, - disse il marchese.
- Si può pazientare per venti ore: così avrò il tempo di
esercitarmi pel colpo delle cento pistole.
- Riuscirà?
- Pochi lo conoscono, Eccellenza. Solo i famosi spadaccini ne
sanno qualche cosa.
- E quello è uno dei buoni.
Il bandito alzò le spalle.
- Bah!... Avrà da fare con me.
- Quanto il prezzo?
- Cinquanta piastre per anima, è la mia tariffa. Non lavoro
mai per meno. I tempi sono pessimi e si guadagna poco anche ad ammazzare delle
persone» rispose El Valiente.
- Ve ne offro invece mille, purché il gentiluomo domani sera
sia morto.
Il Valiente corrugò la fronte, come presentisse un
terribile pericolo.
- Che quel gentiluomo mi porti sventura? - si chiese. - Per
pagarmi mille piastre, bisogna che quel signore sia veramente un formidabile
spadaccino.
- Ve l'ho già detto prima che non avrete da fare con un
dilettante disse il marchese.
- Ne ho ammazzati per lo meno venti. Che il ventunesimo deva
mandarmi a tener compagnia a messer Diavolo? Io non lo credo. Quando devo venir
qui?
- Domani sera, prima dell'Ave-Maria. Vi
daremo le istruzioni necessarie.
- Sta bene, - rispose il bandito.
Fece un nuovo e più goffo inchino, si gettò sulle spalle uno
sdruscito sèrapè, che fino allora aveva tenuto sul braccio sinistro, e
se ne andò tranquillo, come se avesse fatto un semplice affare commerciale.
- Quando lo farai appiccare? - chiese il marchese a don Juan
de Sasebo. - Quel furfante meriterebbe almeno venti spanne di corda e molto
solida.
- Quando non si avrà più bisogno di lui, lo manderemo a tener
compagnia a tutti i disgraziati che ha spediti all'altro mondo, - rispose il
consigliere.
- Qualche volta anche questi briganti sono necessari.
- Amico, possiamo andare a riposarci.
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