Cominciava ad annottare, quando quattro cavalieri che
montavano dei bellissimi destrieri andalusi, piccoli di statura, però
robustissimi, colle zampe secche e nervose, la testa leggiera ed il ventre
stretto, uscivano dalla porta di Siviglia, la più bella delle sei che contava
allora Panama.
Avevano spada e pistole alla cintura, archibugio appeso
all'arcione e le fonde ben gonfie, contenenti probabilmente dei viveri e delle
munizioni da guerra.
Erano il conte ed i suoi tre spadaccini, i quali, dopo essersi
provveduti di cavalli e d'armi da fuoco, avevano abbandonato frettolosamente la
fonda della bella castigliana per gettarsi sulla via di Guayaquil, prima
che venisse loro tesa qualche nuova imboscata da parte del marchese e di don
Juan de Sasebo.
Attraversato il ponte levatoio senza che le guardie vigilanti
all'entrata e all'uscita della galleria aperta attraverso il bastione dessero
loro alcun impaccio, allentarono le briglie e lanciarono i cavalli al galoppo
attraverso la silenziosa campagna.
Mendoza che già conosceva benissimo quasi tutto l'istmo di
Panama che aveva attraversato con Morgan alcuni anni prima, si era subito messo
alla testa del drappello, poiché i suoi compagni non sapevano dove si trovasse
Guayaquil.
- Signor conte - disse il guascone, il quale già non poteva
star zitto cinque minuti. - Che questa volta riusciremo finalmente? Vostra
sorella ci ha fatto correre un bel po'.
- Io spero di non ritrovare più sulla mia via né il marchese
di Montelimar, né don Juan de Sasebo - rispose il signor di Ventimiglia, il
quale, quantunque la sua ferita gli desse non poca noia si manteneva
magnificamente in sella.
- Preferireste trovare invece la buona marchesa? - disse il
guascone.
- Ah, quella sì e ben volentieri, - rispose il conte. Non l'ho
mai dimenticata.
- La rivedrete prima di lasciare l'America?
- Non farò ritorno in Europa senza prima salutarla.
- Ed esporvi a qualche nuovo pericolo.
- A quale, don Barrejo?
- A quello del matrimonio.
- Diavolo d'uomo! - esclamò il conte, ridendo. - Vedete bene
lontano voi.
- Sarebbe uno splendido partito, signor conte.
- Lasciate andare e occupiamoci per ora del marchese. È lui
che. in questo momento rappresenta il più grave pericolo. Sapete che un dubbio
mi tormenta da quando sono montato a cavallo?
- Che quel meticcio mi abbia ingannato? Non lo credo, signor
conte, parlava troppo seriamente e poi si sa che il vino fa dir sempre la
verità e ne aveva bevuto l'amico ricciuto.
- Non è ciò che mi tormenta: sono anzi certissimo che mia
sorella si trovi a Guayaquil. È un bel po' che i filibustieri di Grogner e di
Raveneau de Lussan minacciano Panama, quindi credo benissimo che abbiano
mandata mia sorella in quella città, per sottrarla ai pericoli d'un saccheggio.
- E allora che cosa temete?
- Che quel meticcio, per vendicarsi del brutto tiro
giuocatogli abbia narrato ogni cosa al marchese ed a don Juan.
- Tonnerre!... Voi mi avete
cacciato una pulce in un orecchio, signor conte. Non avevo pensato a questo.
In tal caso un inseguimento sarebbe probabile.
Abbiamo però un buon vantaggio e dei buonissimi cavalli, che
ho scelto con molta cura. Quello stupido, con tutto quel vino che aveva bevuto,
non può essersi svegliato tanto presto. Forse dorme ancora, mentre noi invece
galoppiamo.
- E spingeremo sempre più forte. Mi preme giungere a Guayaquil
prima che possa giungervi il marchese.
- Quando vi saremo?
- Domani sera, mi ha detto Mendoza.
- Fors'anche prima, signor conte, - disse il basco, che si
teneva sempre dinanzi, mentre don Ercole formava la retroguardia.
- Affretta più che puoi.
- E la vostra ferita non s'inasprirà?
- Non occupartene, - rispose il corsaro. - Si rimarginerà più
tardi.
I quattro cavalli continuavano intanto la loro rapidissima
corsa, essendo la strada in ottimo stato e anche molto ampia.
Lungo i margini magnifici, i filari di enormi palme si
stendevano senza interruzione, mentre al di là apparivano delle splendide
piantagioni d'indaco e di zucchero.
A mezzanotte il conte fece mettere i cavalli al passo, per non
stancarli troppo, poi verso il tocco ripresero il galoppo, mentre la luna
appariva dietro le piante che coronavano una collina.
Avevano percorso così un paio di leghe, senza aver incontrato
anima viva, quando Mendoza che aveva l'udito più acuto di tutti, arrestò
bruscamente il suo andaluso, dicendo:
- Fermi tutti!...
- Avete veduto qualche gattaccio? - chiese il guascone.
- Non scherzate, don Barrejo: questo non è il momento.
Stettero in ascolto e parve loro di udire un lontano fragore.
- Il galoppo di parecchi cavalli? - chiese il conte, con una certa
inquietudine.
- O è invece il rombo d'una cascata? - disse don Barrejo.
- A me sembrano cavalli - rispose Mendoza.
- Che il marchese ci dia la caccia? - domandò il conte.
- Così presto? - disse il guascone. - Poteva aspettare almeno
l'alba e starsene comodamente a letto. Che sia un nottambulo costui?
Tornarono ad ascoltare e ben presto si convinsero che non si
trattava d'una cascata, bensì d'un buon numero di cavalli galoppanti sulla
strada di Guayaquil.
- Dobbiamo dare battaglia signor conte? - chiese il guascone,
il quale era sempre pronto a menare le mani od a sparare archibugiate.
- Preferirei cercare un rifugio e lasciar passare il marchese,
- rispose il signor di Ventimiglia.
- E dopo? Se entra in Guayaquil prima di noi, non so se noi
potremo poi fare altrettanto. Io vi proporrei di tendergli una imboscata e di
fucilare per bene i suoi uomini.
- E farci prendere? - disse Mendoza. - Non avrà già con sé
quattro o cinque uomini di scorta. Si direbbe dal fragore che giunge fino a
noi, che è un intero squadrone quello che galoppa.
- Gettiamoci in mezzo alle piantagioni, - propose don Ercole.
- Non sono le canne abbastanza alte per nasconderci e poi la
luna sorge, - rispose il conte. - Se vi fossero delle macchie!
- Ah!... Il ponte del diavolo! - esclamò in quel momento
Mendoza. - Signor conte, a gran carriera.
Senza chiedere nessuna spiegazione lanciarono i cavalli ventre
a terra, divorando lo spazio con fantastica rapidità.
Quella corsa furiosa durò una buona mezz'ora, poi Mendoza la
rallentò, dicendo:
- Ci siamo.
Cinquanta passi più innanzi vi era un ponte in muratura; assai
largo, gettato su un fiume poverissimo d'acqua.
Mendoza balzò a terra, prese il cavallo per le briglie e
s'avanzò rapidamente verso la riva, dicendo:
- Seguitemi, signor conte.
- Perché vuoi farci guadare il fiume? - chiese il corsaro.
Nemmeno sull'altra riva vedo delle macchie bastanti per
nasconderci.
- E la vôlta del ponte, non la contate?... I cavalieri che
c'inseguono ci passeranno sopra, senza minimamente sospettare che quelli che
cercano si trovano invece sotto.
- Ohé, compare, diventate molto furbo, a quanto pare, - disse
il guascone.
- Sono anch'io del mar di Biscaglia. Affrettiamoci, signori,
anche gli spagnuoli avranno udito il nostro galoppo e avranno precipitata la
corsa.
Scesero la riva e condussero i cavalli sotto il ponte,
immergendosi nell'acqua fino alle ginocchia.
- Avvolgete le teste dei nostri corsieri nelle gualdrappe, -
disse il conte. - Potrebbero nitrire e tradirci.
I tre spadaccini furono lesti ad obbedire.
Il galoppo dei cavalli intanto diventava di momento in momento
più fragoroso.
Gli spagnuoli dovevano aver udito anche quello prodotto dai
cavalli dei fuggiaschi e si erano pure lanciati ventre a terra.
Il conte e Mendoza si erano nascosti dietro la pila del ponte,
per meglio accertarsi con chi avevano da fare, mentre il guascone ed il
fiammingo trattenevano con mano salda i quattro corsieri.
- Non devono essere lontani più di mezzo miglio, - disse il
signor di Ventimiglia al fedele basco. Credi tu che sia proprio il marchese?
- Scommetterei dieci dobloni contro una piastra, signore. Don
Barrejo ha fatto male a lasciare libero quel meticcio.
- Volevi tu che lo scannasse in pieno giorno?
- Poteva aspettare la sera e portarlo via.
- A tutto non si pensa sempre... eccoli... non ti far vedere.
Il mezzo squadrone del marchese di Montelimar, perché era
proprio quello che don Juan de Sasebo gli aveva affidato, giungeva a corsa
sfrenata, con un fracasso indiavolato.
Il conte udì distintamente il marchese a gridare:
- Spronate sempre: non devono essere lontani.
I cinquanta cavalieri passarono come un uragano sul ponte e
scomparvero in mezzo ad un fitto nuvolone di polvere.
- Grazie, Mendoza, - disse il conte, battendo sulle spalle del
basco. - Tu ci hai salvati.
- Senza dare un colpo di spada né sparare una pistolettata -
rispose il filibustiere. - La vostra e anche la mia salvezza non mi è costata
troppe fatiche.
- Ma senza la tua idea a quest'ora saremmo nelle mani del
marchese ed avrei forse fatta la fine di mio padre. Per quanto valorosi si
possa essere, non si può sostenere l'urto di un mezzo squadrone.
- Signor conte, - disse il guascone avvicinandosi coi cavalli.
- Rimontiamo in sella?
- Preferisco rimanere qui per qualche ora, così i cavalli si
riposeranno pienamente. Lasciamo che il marchese corra dietro alle nostre
ombre.
- Temete che ritorni?
- Chi può dirlo? Non trovandoci su questa via, potrebbe
distaccare un manipolo dei suoi cavalieri e rimandarli indietro a perlustrate
le piantagioni.
- Pure io non perderò inutilmente il mio tempo signore. Vi
piacciono i gamberi?
- Diventate pazzo, don Barrejo?
- Niente affatto, signor conte. Ne ho sorpreso uno attaccato
ai miei stivali ed era grosso, chiedetelo a don Ercole che se l'è mangiato
vivo, senza dividerlo con me.
Il fiammingo si limitò a scoppiare in una risata.
- Ecco che anche i taciturni figli della Fiandra in nostra
compagnia diventano allegri e burloni, - disse don Barrejo.
- Che cosa avete voi nelle vostre vene? - chiese il conte. -
Siamo appena sfuggiti a un cosi grave pericolo e scherzate.
- Che cosa volete, signor conte? Il sangue guascone è così.
Don Ercole legate i cavalli e cerchiamoci una deliziosa colazione per domani
mattina. Io adoro i gamberi, quando però sono dentro il mio ventre.
L'indiavolato avventuriero, senza pensare che gli spagnuoli
potevano tornate da un momento all'altro, accese un pezzo di miccia ed aiutato
dal fiammingo si mise a rovistare le pietre che si trovavano sotto il ponte,
tuffando le braccia nell'acqua fresca del fiumiciattolo.
Dovevano abbondare davvero in quel luogo i gamberi, poiché i
due compari in meno di mezz'ora empirono le fonde dei quattro cavalli, dopo di
averle vuotate di quanto contenevano.
Alle due del mattino il conte, non udendo più alcun rumore nei
dintorni del corso d'acqua, diede il segnale della partenza.
Rimontarono la riva non senza qualche fatica e spinsero i
cavalli a piccolo trotto sempre pel timore di veder ricomparire da un momento
all'altro i cavalieri del marchese.
La notte era sempre splendidissima, e la luna irradiava le
piantagioni sterminate di raggi azzurrini, permettendo così ai quattro
avventurieri di poter scorgere da lontano i loro nemici.
Sorvegliavano però attentamente i margini della strada, i
quali s'affondavano in certi fossati molto propizi per una imboscata.
Alle quattro del mattino intrapresero la salita di alcune
colline boscose dietro le quali, alla distanza di tre o quattro leghe, doveva
trovarsi la salda fortezza di Guayaquil.
Del marchese e dei suoi cavalieri fino allora nessuna nuova.
Avevano continuata la loro corsa verso la città o si erano fermati in qualche
luogo per perlustrare le piantagioni?
Qualche ora più tardi, raggiunta la cima della prima altura e
trovato un piccolo bosco, si accamparono.
Base della colazione, non importa dirlo, furono i gamberi
raccolti dal guascone e dal fiammingo, appena abbrustoliti sulla fiamma e
tuttavia trovati da tutti squisitissimi.
Stavano per cercare un torrente per dissetarsi, quando i
quattro cavalli mandarono dei sonori nitriti e si diedero a scalpitare.
- Amici, in guardia! - gridò il conte, correndo verso il suo
destriero e staccando rapidamente l'archibugio. - I nostri andalusi hanno
fiutato qualche cosa.
- Che i cavalli spagnuoli siano come i cani da guardia! -
disse il guascone.
- In arcione! - comandò in quel momento il basco.
Balzarono in sella e riguadagnarono rapidamente la via,
lanciando i cavalli a corsa sfrenata.
- Che cos'hai veduto dunque, Mendoza, per farci scappare?
chiese il conte, quando furono lontani dal boschetto un tiro d'archibugio.
- Ho veduto degli uomini che salivano nascostamente il fianco
della collina. Cercavano di sorprenderci, signore.
- Erano molti?
- Non ho avuto il tempo di contarli. Ho scorto degli elmetti e
delle canne d'archibugio e nient'altro.
- Soldati erano di certo, - rispose il conte. - Amici,
armatevi e tenetevi pronti.
- Che i gamberi ci portino sfortuna? - si chiese il guascone.
- Se sarà vero, non ne mangerò più in tutta la mia vita.
Cavalcavano da dieci minuti, quando un colpo d'archibugio
partì dal fossato di destra. Il cavallo di Mendoza spiccò un salto, s'inalberò,
poi stramazzò al suolo.
Quasi nell'istesso tempo una scarica nutrita partiva
dall'altro lato della via, atterrando i cavalli del conte e di don Ercole.
Solo quello del guascone era sfuggito miracolosamente a quella
tempesta di palle.
- Don Barrejo, salvatevi! - gridò il conte il quale era subito
balzato in piedi impugnando le pistole. - Ve l'ordino!... Siamo presi!
Il guascone fece fare al suo cavallo un volteggio fulmineo e
quantunque il suo cuore sanguinasse pel dispiacere di non poter aiutare i suoi
compagni, fuggì a corsa sfrenata verso Panama, pensando, e con ragione, che
avrebbe potuto essere a loro più utile libero che prigioniero.
Il brav'uomo in un lampo aveva fatto subito il suo progetto.
Correre a Panama, raggiungere Taroga ed avvertire Grogner e Raveneau de Lussan.
Il conte aveva aspettato a piè fermo gli spagnuoli, mentre
Mendoza e don Ercole, rimessisi subito in gambe anche essi, sguainavano le
spade.
Un uomo era sorto dal fossato di destra, mentre una trentina
di cavalleggieri apparivano sul margine di sinistra, tenendo gli archibugi
montati.
- Pare che siate preso, signor conte, - disse, con ironia. -
La resistenza sarebbe impossibile e vi costerebbe probabilmente la vita.
- Ah... Voi, signor marchese! - rispose il corsaro, con voce
alterata.
- Una volta per uno: prima io prigioniero dei filibustieri ed
ora voi prigioniero degli spagnuoli. Gettate la spada e le pistole.
Il conte esitava. Se avesse avuto ancora i cavalli vivi, non
avrebbe certo tardato a gettarsi furiosamente contro i cavalleggieri spagnuoli,
spalleggiato certo vigorosamente dal basco e dal fiammingo.
- Prima di arrendermi, - disse, - voglio sapere da voi, signor
marchese, che cosa intendete fare di me e dei miei compagni. Se avete
l'intenzione di appiccarmi, come avete impiccato mio padre, vi avverto che vi
darò battaglia, checché debba succedere e che il primo uomo che cadrà sarete
voi, poiché vi tengo sotto il tiro delle mie pistole.
- Io non ho alcuna intenzione di farvi del male, signor conte,
- rispose il marchese, il quale temeva quei terribili corsari, non meno dei
suoi compatriotti. - Io vi condurrò prigioniero a Guayaquil e là attenderete le
decisioni che prenderà il presidente dell'Udienza Reale.
- Il quale decreterà indubbiamente la mia morte e quella dei
miei compagni, - rispose il signor di Ventimiglia, con voce beffarda.
- No, perché la mia autorità pesa sulle decisioni dell'Udienza
ed io farò il possibile per ottenere per voi un decreto di espulsione dalle
colonie spagnuole dell'America centrale.
- Voi però dimenticate per quale motivo io ho lasciato
l'Europa. Non già per sete di guadagni, avendo terre e castella nella mia
patria da non saperne quasi che cosa fare. Io ho attraversato l'Atlantico per
ritrovare mia sorella, la figlia del Corsaro Rosso e nipote del Gran Cacico del
Darien.
La fronte del marchese di Montelimar si era oscurata.
- Sapete voi dove si trova? - chiese dopo qualche istante di
silenzio.
- Sì, a Guayaquil.
- Perché v'interessate tanto di quella giovane meticcia?
- Per Bacco!...È mia sorella! - gridò il conte.
- Sapete che io l'ho sempre tenuta come mia figlia e che ella
mi ama come se fossi suo padre?
- Perché ignora forse che suo padre era un conte di
Ventimiglia e che aveva in Europa un fratello.
- Questo è vero, - rispose il marchese.
- Che cosa risolvete dunque?
- Preferirei di non farvela vedere.
- Allora vi darò battaglia e vi ucciderò, - rispose il conte,
con voce risoluta.
- Non abbiate tanta fretta, signor conte. In questo affare noi
potremo benissimo intenderci. Lasceremo alla fanciulla la scelta fra me e voi.
- Impegnate la vostra parola di gentiluomo?
- Sull'onore dei Montelimar.
- Basta così, - disse il conte.
Gettò la spada e le pistole, subito imitato dal fiammingo e da
Mendoza.
Il marchese si era voltato verso i suoi uomini.
- Date tre cavalli a questi signori, - disse.
Tre bellissimi morelli andalusi furono condotti. Il conte ed i
suoi due spadaccini montarono in arcione, mentre dal margine opposto sbucavano
una ventina di cavalleggieri, tutti bene montati e bene armati.
- Signor conte, - disse il marchese, salendo pure a cavallo. -
Vi prego di seguirmi.
- Badate che conto sulla vostra parola - rispose il signor di
Ventimiglia.
- Vi mostrerò la lealtà dei gentiluomini spagnuoli. D'altronde
io non vi odio affatto.
- Ciò però non vi ha impedito di tentare d'assassinarmi, -
rispose il conte, con ironia.
- Avevo i miei motivi per fare ciò, allora.
- Avreste ora cambiata idea?
- Non ve lo posso dire. L'avete conciato bene quello
spadaccino che si vantava di essere invulnerabile. .È bensì vero che i
Ventimiglia hanno sempre goduto fama d'essere maestri nelle armi.
In quel momento in lontananza si udirono echeggiare degli
spari.
- Chi fa fuoco? - chiese il corsaro, con apprensione.
- Saranno cacciatori, - rispose il marchese.
Mentiva. Era una partita dei suoi cavalleggieri che davano la
caccia al bravo guascone.
Il marchese spronò il suo cavallo ed il mezzo squadrone,
diminuito d'una mezza dozzina di cavalieri, riprese, al piccolo trotto, la
corsa verso Guayaquil, sorvegliando attentamente i prigionieri.
Dopo quattro ore la truppa faceva la sua entrata nella città e
andava a fermarsi dinanzi ad un palazzotto di bell'aspetto, circondato da un
pittoresco giardino ricco di palme altissime e di banani meravigliosi, le cui
immense foglie spandevano intorno un'ombra fresca e deliziosa.
Guayaquil si trovava a circa dieci leghe dall'Oceano Pacifico
ed era allora famosa per la singolare sua costruzione, poiché le sue case erano
per la maggior parte erette sopra una specie di ponti per salvarle dalle
frequenti inondazioni. Per le sue ricchezze, era stimata una delle più ricche
dell'America centrale, essendo essa a capo d'una vasta contrada che possedeva
preziose miniere d'oro, d'argento e soprattutto di smeraldi.
Non contava che qualche decina di migliaia d'abitanti, però
era difesa da tre forti giudicati inespugnabili, con una guarnigione di
cinquanta uomini ciascuno.
Il marchese giunto dinanzi al palazzotto balzò a terra
invitando il conte a fare altrettanto, poi entrò nel giardino.
- Dove mi conducete? - chiese il signor di Ventimiglia.
- A vedere vostra sorella, - rispose il marchese, - giacché
desiderate conoscerla. Sarà di certo nel giardino amando l'aria libera.
Il dolcissimo suono d'una chitarra giunse in quel momento ai
loro orecchi.
- Deve essere Neala, - disse il marchese.
- È mia sorella che porta questo nome? - chiese il conte il
quale appariva assai commosso.
- Sì, conte.
Il marchese si diresse verso un piccolo padiglione di stile
moresco che occupava un angolo del giardino e che era ombreggiato da tre o
quattro immense palme a ventaglio e mostrò al conte una giovane di sedici o
diciassette anni, che indossava un semplice accappatoio di piccole trine
intessute con pagliuzze d'argento e che stava sonando una piccola chitarra.
Era una bellissima creatura, alta, slanciata, colla pelle un
po' abbronzata, gli occhi nerissimi dal lampo cupo e selvaggio, coi capelli
lunghissimi e pure nerissimi intrecciati graziosamente con fiori rossi.
Vedendo il marchese si era alzata deponendo la chitarra e
atteggiando le labbra ad un grazioso sorriso.
- Figlia mia - disse il marchese - non mi aspettavi di certo
così presto.
- No, - rispose la giovane fissando subito sul figlio del
Corsaro Rosso i suoi sguardi.
- Ti conduco qui un signore che pretende essere tuo fratello e
che...
Il conte lo interruppe bruscamente.
- Non dite che pretendo, marchese, poiché voi sapete quanto me
che mio padre ha sposato la figlia del Gran Cacico del Darien e che questa
fanciulla è realmente mia sorella. Io sono nato da padre e da madre bianchi: la
seconda moglie di mio padre fu invece una principessa indiana.
La giovane meticcia continuava a fissare il corsaro con
crescente intensità ed aveva fatto un passo innanzi, come attratta da una
irresistibile simpatia.
Era certamente il sangue che segretamente parlava.
- Figlia mia - riprese il marchese - questo signore che è il Conte
di Ventimiglia, vorrebbe strapparti a me e condurti lontano, lontano, in
Europa...
- Nei miei castelli, su un mare più azzurro dell'Oceano
Pacifico, dove l'aria è più balsamica e più pura che qui - disse il corsaro. -
Io sono bianco e voi siete bruna eppure siete mia sorella perché abbiamo avuto
lo stesso padre: il Corsaro Rosso, Conte di Ventimiglia signore di Roccabruna e
di Valpenta. Che cosa dice il vostro cuore, Neala? Che cosa dice il vostro
sangue? Che cosa pensa il vostro cervello? Io ho lasciato l'Europa per venirvi
a cercare, ho sfidato mille pericoli, ho combattuto al di là ed al di qua
dell'istmo di Panama per venirvi a dire che siete mia sorella. Chi preferite?
Il marchese di Montelimar che vi ha adottata come figlia o vostro fratello? Scegliete.
Neala rimase per qualche istante ancora silenziosa, poi con
uno scatto improvviso si fece addosso al corsaro e gli gettò le braccia al
collo, dicendo:
- Il cuore ed il sangue hanno parlato: io sono vostra sorella
e voi siete mio fratello!
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