13 - NAVI VOLANTI E MARITTIME
Il Tangaroff in quel
momento incrociava il battello volante, passandovi a babordo.
Era un fuso enorme tutto in
acciaio, lungo più di centocinquanta metri, colla prora acutissima e largo al
centro una quindicina di metri.
Era tutto coperto, con un gran
numero di finestre al posto della coperta difese da vetri che dovevano avere un
grande spessore.
Nel mezzo si ergeva una torre
pure in metallo, alta quattro metri, sulla cui piattaforma stavano seduti,
presso la ruota, due timonieri. Dietro si innalzava un albero per la telegrafia
aerea.
Filava velocemente, quasi senza
produrre alcun rumore, lasciandosi dietro una scia candidissima che pareva
oleosa.
Più che una nave, sembrava un
balenottero lanciato a tutta velocità.
Nel momento in cui passavano
sotto il Centauro, l'apparato elettrico di questo fece udire un lungo
tintinnio e registrò un dispaccio lanciato dai timonieri del «Tangaroff».
Era un cordiale «buon viaggio»
che inviavano ai naviganti dell'aria, unitamente alla notizia che i ghiacci
avevano ormai interrotta la navigazione nel Mar Bianco.
«Bella! Splendida!» esclamò
Brandok che seguiva collo sguardo il velocissimo piroscafo.
«Quando potrà giungere in
Islanda?»
«Domani sera» rispose Holker.
«Malgrado i ghiacci?»
«Se ne ridono dei ghiacci le
nostre navi. Li assalgono a colpi di sperone e li disgregano per quanto
spessore abbiano. Sono veri arieti, d'una potenza inaudita.»
«Nipote mio,» disse Toby «che
cosa è avvenuto dei battelli sottomarini che ai nostri tempi facevano tanto
parlare?»
«Dopo che le guerre sono state
rese impossibili, sono scomparsi o quasi. Ve ne sono ancora alcuni che servono
per le esplorazioni sottomarine e per il ricupero delle ricchezze perdute in
fondo ai mari.»
«E del Canale di Panama?» chiese
Brandok.
«È compiuto, mio caro signore, e
già da 85 anni.»
«Quella grande impresa è stata
condotta a termine?»
«Sì, dai nostri connazionali; ed
altre ancora ne sono state ultimate per accorciare i viaggi alle navi. L'istmo
di Corinto che univa la Morea alla Grecia è stato pure tagliato; quello della
penisola di Malacca pure, ed ora si sta compiendo un'altra grande opera.»
«Quale?»
«Il grande deserto del Sahara sta
per divenire un mare accessibile anche alle più grandi navi. Ci lavorano da
cinque anni e fra cinque o sei mesi anche quell'opera sarà compiuta.»
«Che cosa vi rimane ora da fare?»
chiese Brandok.
«Mantenere il mondo in
equilibrio, ve lo dissi già,» rispose Holker «e speriamo che vi riescano i
nostri scienziati. La campana ci chiama a colazione; quest'aria marina mi ha
messo addosso un appetito da lupo. Imitatemi amici; vi troverete meglio dopo.»
Mentre passavano nel salotto da
pranzo, il vascello volante continuava la sua corsa verso
sud-ovest, divorando lo spazio con una rapidità di
centoventi chilometri all'ora. L'oceano era sempre coperto da vasti banchi di
ghiaccio e anche ice-bergs i quali proiettavano dei
riflessi accecanti.
Qua e là si scorgevano dei
canali, entro i quali mostravasi ancora qualche rarissima foca, una delle poche
sfuggite alle feroci distruzioni dei pescatori norvegesi e russi.
I tre amici stavano per terminare
il pasto, semplice sì ma assai abbondante, quando udirono la suoneria
dell'apparato elettrico tintinnare e poco dopo videro comparire il capitano
colla fronte abbuiata.
«Avete ricevuto qualche cattivo
dispaccio, comandante?» chiese Holker.
«Mi telegrafano dalla stazione
scozzese di Capo York che una bufera terribile imperversa da due giorni intorno
alle isole britanniche» rispose il capitano. «S'annuncia ben cattivo l'inverno,
quest'anno.»
«Sarete costretto a rifugiarvi
nuovamente sulle coste norvegesi?»
«Non voglio perdere altro tempo;
sfiderò il ciclone.»
«Resisterà la vostra nave?»
chiese Brandok.
«Non vi inquietate signori; il
mio Centauro è costruito con acciaio di prima qualità.»
Non erano trascorse tre ore, che
già la bufera, annunciata dalla stazione scozzese, si faceva sentire anche nei
paraggi percorsi dal vascello volante.
Il cielo si era oscurato e dei
soffi impetuosi, delle vere raffiche marine giungevano dal mezzodì, investendo
poderosamente le ali e le eliche del Centauro.
L'oceano si rompeva in ondate che
diventavano rapidamente altissime, le quali disgregavano con mille fragori i
banchi di ghiaccio scendenti dall'isola Jean Mayen. Il comandante aveva dato
ordine ai suoi macchinisti di aumentare la velocità sperando di sottrarsi agli
assalti imminenti del ciclone e dando la possibilità ai timonieri di dirigersi
verso ovest per evitare il centro della bufera. Tuttavia il Centauro
subiva dei sussulti improvvisi e si trovava talvolta impotente a resistere alle
raffiche. Già più d'una volta era stato trascinato per qualche tratto verso il
settentrione, nonostante gli sforzi delle ali e delle immense eliche.
«Cadremo in mare?» chiese
Brandok, che si era collocato dietro i vetri dello scompartimento prodiero.
«Anche se ciò avvenisse, poco
danno ne avremmo» rispose Holker.
«Non andremo sott'acqua?»
«Niente affatto, mio caro
signore. I nostri ingegneri avevano pensato anche a simili disgrazie e vi hanno
posto rimedio.»
«In qual modo?»
«Non avete osservato che la parte
inferiore della piattaforma è quasi sferica come quella delle scialuppe e delle
navi e che ha anche una chiglia? Nell'interno vi sono delle casse d'aria le
quali impediranno al Centauro di sommergersi.»
«Sicché queste navi volanti si
possono, all'occorrenza, trasformare in scialuppe!» esclamò Toby con stupore.
«E perfettamente navigabili,
zio,» rispose Holker «perché la poppa nasconde entro un incavo un'elica di
metallo, che funziona colla stessa macchina che mette in moto le ali. Come
vedete nessun pericolo ci minaccia e anche calando, noi potremo giungere
egualmente in Inghilterra.»
«C'è da impazzire» disse Brandok.
«Questi uomini moderni hanno pensato a tutto.»
La bufera intanto, aumentava di
miglio in miglio che il Centauro guadagnava.
Il vento si era scatenato con un
fragoroso accompagnamento di urli, di fischi e di muggiti, balzando ora dal sud
al nord ed ora dall'est all'ovest, come se Eolo fosse completamente impazzito.
Lo spettacolo che offriva
l'oceano da quell'altezza era spaventevole e nello stesso tempo meraviglioso.
Montagne d'acqua, nere come
fossero d'inchiostro e colle creste invece candidissime e quasi fosforescenti,
si rovesciavano in tutte le direzioni, accavallandosi e rimbalzando a grande
altezza.
Si formavano abissi profondi che
subito si riempivano per riaprirsi più oltre, e dai quali uscivano dei muggiti
formidabili, prodotti dall'irrompere tumultuoso delle acque.
Tutto il giorno il Centauro
lottò vigorosamente, ora innalzandosi ed ora abbassandosi, respinto sovente
fuori dalla sua rotta; e quando cadde la sera si trovò avvolto in una nebbia così
fitta, che le lampade a radium non riuscivano a romperla.
«Ecco un altro pericolo e forse
maggiore» disse Brandok.
«Perché?» chiese Holker.
«Se il Centauro
s'incontrasse con qualche altro vascello aereo procedente in senso inverso, chi
riuscirebbe a salvarsi da una collisione fra due macchine spinte colla velocità
di centocinquanta chilometri all'ora?»
«Non temete» disse Holker. «Ciò
può avvenire in una città dove le macchine volanti sono numerosissime, in mare
no.»
«E perché no?»
«Ogni macchina volante è fornita
d'un eofono.»
«Che bestia è questo eofono?»
«Un semplice eppure
preziosissimo, apparecchio, formato da due imbuti ricevitori del suono,
separati fra di loro da un diaframma centrale. Questi due imbuti vengono
applicati agli orecchi del timoniere e quando questi apparecchi si trovano
nella direzione delle onde sonore emesse da un corpo qualunque, producono un
rumore nella medesima intensità e sono così sensibili da registrare le
vibrazioni più impercettibili. Supponete ora che un vascello volante s'accosti
a noi. Il rumore che produce, spostando la massa d'aria, e anche le vibrazioni
delle ali si trasmettono subito agli imbuti del nostro timoniere. Che cosa si
fa allora? Si lancia un telegramma che viene raccolto e trasmesso sul vascello
dall'apparecchio elettrico. Entrambi i vascelli volanti si fermano e deviano,
ed ecco tolto ogni pericolo d'investimento. Che cosa ne dite ora, signor
Brandok?»
Il giovine scosse il capo senza
rispondere.
Anche durante l'intera notte
l'uragano non cessò un momento di infuriare. Il vento che soffiava ad oriente
aveva respinto il Centauro assai lontano dalla sua rotta, trascinandolo
in mezzo all'Oceano Atlantico.
A mezzodì, quando il capitano,
approfittando d'un raggio di sole fece il punto, s'accorse d'aver oltrepassata
la Scozia di qualche centinaio di miglia.
«Pel momento dobbiamo rinunciare
alla speranza di approdare in Inghilterra» disse ad Holker, che lo interrogava.
«Il vento ci trascina come se il mio Centauro fosse diventato un veliero
e non sarebbe prudente cercare di resistergli.»
«E dove andremo a finire noi?»
«Vi spaventa una corsa in mezzo
all'Atlantico?»
«No, purché il vento non ci
faccia tornare in America. Noi desideriamo visitare le grandi capitali degli
stati europei.»
«Quando il ciclone si calmerà, riprenderemo
la corsa verso l'Inghilterra. A Liverpool prenderete o il treno o il vascello
che va a Londra. Non è questione che di qualche giorno di ritardo. Questo
ventaccio finirà per cambiare.»
Il capitano s'ingannava.
L'uragano imperversò con furia
estrema per due giorni ancora, mettendo più volte in serio pericolo il Centauro
le cui ali a poco a poco si sfasciavano.
La mattina del terzo giorno,
quando già il vento cominciava finalmente a scemare di violenza, il capitano
avvertì i viaggiatori di rifugiarsi nella galleria per non venire trascinati
via dalle onde.
«Scendiamo in mare?» chiese
Holker.
«Sì, signore,» rispose il
comandante. «Il Centauro non si sostiene in aria che con grandi sforzi e
piuttosto di cadere improvvisamente, preferisco scendere.»
«L'oceano è sconvolto» osservò
Brandok.
«L'armatura della galleria è di
una solidità a tutta prova ed i vetri hanno uno spessore di cinque centimetri.
Le onde non riusciranno mai a sfondarla. Diventiamo marinai dopo essere stati
volatili. Noi già, non soffriamo il mal di mare.»
Entrarono nella galleria assieme
all'equipaggio e al comandante, potendosi maneggiare i due timoni anche
dall'interno, ed il Centauro calò lentamente in mezzo ai flutti.
Brandok, Toby e anche Holker, per
un momento temettero di finire in fondo all'Atlantico.
Appena il vascello volante si
posò sulle acque subì una serie di sussulti e di beccheggi così spaventevoli da
temere che si rovesciasse per non raddrizzarsi mai più.
Appena però le due eliche
d'acciaio uscirono dalle loro nicchie e si misero in moto, il Centauro
riprese la sua stabilità e si mise in marcia come un piroscafo qualunque,
salendo e scendendo i cavalloni.
I cassoni d'aria che riempivano
la sua carena lo tenevano meravigliosamente a galla, meglio d'una botte vuota.
Ma che soprassalti di quando in quando. E che ondate doveva sopportare la
galleria! I marosi vi si precipitavano sopra con furia incredibile, facendo
tremare le armature. Guai se i vetri avessero ceduto! Nessuna delle persone
rinchiuse sarebbe uscita più viva.
«Perbacco!» mormorava Brandok,
che si teneva aggrappato ad uno dei sostegni della galleria, per poter meglio
resistere a quelle scosse. «Ecco una emozione che fa venire la pelle d'oca.
Signor Holker, non finiremo per caso il nostro viaggio con un capitombolo negli
abissi dell'Atlantico?»
«Non abbiate paura; questi
vascelli sono meravigliosamente costruiti e possono resistere anche in mare
alle più violente ondate. Non vedete come sono tranquilli i macchinisti e i
timonieri? Da questo potete capire se si ritengono perfettamente sicuri.»
«E dove ci troviamo noi?» chiese
Toby.
«A non meno di quattro o
cinquecento miglia dalle coste della Spagna» rispose il capitano che lo aveva
udito.
«Della Spagna avete detto?
Dell'Inghilterra volevate dire.»
«No, signore. Il vento, dopo
averci allontanato dalle coste inglesi, ci ha trascinati verso il sud in
direzione delle isole Canarie.»
«E torneremo in Europa così?»
chiese Brandok.
«Il mio povero Centauro
non può ormai più riprendere il volo. Guardate come i cavalloni frantumano le
ali e le eliche. Ma non ve ne date pensiero; noi camminiamo con una velocità di
quaranta miglia all'ora, perché le macchine non si sono guastate. Fra due
giorni al più giungeremo a Lisbona od a Cadice, ed in quei porti, navi e
vascelli volanti diretti in Inghilterra ne troverete quanti vorrete.»
«Sicché,» disse Brandok «noi
saremo costretti a tagliare la corrente del Gulf-Stream per
tornare in Europa?»
«Certo» rispose il capitano.
«Avremo occasione di vedere quei
famosi mulini?»
«Cerco anzi di dirigermi verso
l'isola N. 7, per vedere se là posso sbarazzarmi del galeotto che si trova
chiuso nell'ultima cabina, e che voi non avete ancor veduto. Quell'isola si
trova a venticinque miglia dalla città sottomarina portoghese d'Escario; potrei
risparmiare una gita inutile fin là.»
«No, signor capitano» disse
Holker. «I miei amici non hanno ancora veduto uno di quei rifugi dei peggiori
bricconi del mondo. Siamo pronti a pagare doppio biglietto se ci condurrete ad
Escario.»
«Sia» rispose il comandante dopo
una breve esitazione. «Chissà che non trovi là alcuni meccanici per rimettere a
posto il mio Centauro.»
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