16 - ATTRAVERSO L'ATLANTICO
Il vecchio Jao non si era
ingannato. Se la nuova società del Duemila aveva pensato di relegare in quelle
strane città sottomarine gl'individui pericolosi, sopprimendo sui loro bilanci
le spese di mantenimento per esseri ormai inutili, aveva però procurato loro
degli asili sicuri, d'una solidità a tutta prova per non esporli ad una morte
certa.
Così la città sottomarina,
strappata dallo scoglio dall'impeto dei cavalloni, non era diventata altro che
una città galleggiante, abbandonata è vero ai capricci delle correnti e dei
venti, ma che poteva aspettare benissimo l'incontro di qualche nave marina o
volante, purché qualche bufera non la scaraventasse contro qualche ostacolo.
Tutto il pericolo stava lì.
L'acqua dolce non poteva mancare,
essendovi dei potenti distillatori elettrici che potevano fornirne in grande
quantità; i viveri nemmeno, perché reti ve n'erano in abbondanza e si sa che
gli oceani sono ben più ricchi dei mari.
Disgraziatamente l'uragano aveva
ben poca intenzione di finire. Né le onde, né il vento accennavano a calmarsi,
minacciando di trascinare la città galleggiante in mezzo all'Atlantico, poiché
la bufera imperversava da levante.
La gigantesca cassa d'acciaio,
dopo essere sprofondata, era subito risalita a galla, rollando spaventosamente
e girando su se stessa.
Se i piloni d'acciaio avevano
ceduto sotto gli urti possenti delle onde, la cupola aveva meravigliosamente
resistito al tuffo e meglio ancora avevano resistito i tre americani, il
capitano ed il pilota del Centauro e Jao.
Aggrappati tenacemente alle traverse,
avevano aspettato che la città ritornasse a galla, opponendo una resistenza
disperata alle onde.
«Credevo che la nostra ultima ora
fosse giunta» disse Brandok dopo aver respirata una gran boccata d'aria. «E tu,
Toby?»
«Io mi domando se sono ancora
vivo o se navigo sotto l'Atlantico» rispose il dottore.
«Spero che sarai soddisfatto
degli ingegneri che hanno fatto costruire questa colossale cassa.»
«Gente meravigliosa, mio caro. Ai
nostri tempi non sarebbero stati capaci di fare altrettanto.»
«Ne sono pienamente convinto.
Capitano, dove ci spinge la tempesta?»
«Verso
sud-ovest» rispose il comandante del Centauro.
«Vi sono isole in questa
direzione?»
«Le Azzorre.»
«Andremo a sfracellarci contro di
esse?»
«Ciò dipende dalla durata della
bufera, signore.»
«Non vi pare che si calmi?»
«Niente affatto. Infuria sempre
tremendamente e temo che ci faccia ballare per molto tempo. Soffrite il mal di
mare?»
«Niente affatto.»
«Allora tutto va bene.»
«E se fra un paio di giorni
questo cassone si schiaccerà contro qualche scoglio, andrà anche allora tutto
bene?» chiese Holker, ridendo.
«Non l'abbiamo ancora incontrato
quello scoglio, quindi, finché non lo incontreremo, non abbiamo alcun motivo
per allarmarci» rispose il capitano del Centauro. «Vi è però un'altra
cosa che mi preoccupa assai.»
«Quale?»
«La risposta dovete darmela voi,
Jao.»
«Parlate, capitano.»
«I vostri sudditi posseggono dei
viveri?»
«Per due o tre giorni, non di
più.»
«E noi?»
«Prima che l'uragano scoppiasse,
vi erano molti pesci messi a seccare lungo le balaustrate, ma credo che il mare
abbia portato via tutto.»
«Ne potremo avere dai forzati?»
«Forse, quando si saranno
stancati di bere» rispose Jao. «Vi sono però delle reti in un ripostiglio della
cupola.»
«Ma nessun distillatore per
procurarci l'acqua...»
«Quassù no.»
«Corriamo dunque il pericolo di
morire se non di fame, per lo meno di sete, se i vostri sudditi si rifiuteranno
di fornirci l'acqua. Ecco quello che temevo.»
«Abbiamo l'ascensore, capitano»
disse Jao.
«Che ci servirà ottimamente per
farci accoppare da quei pazzi. Non sarò certamente io che scenderò nella città
per chiedere dell'acqua a quei furfanti. A proposito, che cosa fanno? Che si
siano accorti che la loro prigione cammina attraverso l'Atlantico?»
«Io scommetterei di no» disse
Toby.
«Che dormano?» chiese Brandok.
«Non odo più le loro grida.»
«Andiamo a vedere» disse il
capitano. «Sono curioso di sapere se continuano a bere ed a ballare.»
Si spinsero verso il pozzo
dell'ascensore.
Le lampade a radium ardevano
sempre, ed un profondo silenzio regnava nell'interno della città galleggiante.
Sulla piazza, in mezzo ad un gran numero di barili e d'ogni sorta di rottami,
dormivano dei gruppi di forzati, fulminati di certo da quelle terribili bevute.
Altri giacevano stesi al suolo
entro le case semidistrutte, prive dei tetti. Un orribile tanfo saliva sempre.
«Dormono come ghiri» disse
Brandok.
«Sfido io, dopo una simile
orgia!» rispose Toby «Un barile di ammoniaca non basterebbe a rimetterli in
piedi.»
«E noi approfitteremo del loro
sonno» disse Jao.
«Per fare che cosa?» chiese il
capitano del Centauro.
«Per fare la nostra provvista
d'acqua, signore.»
«Voi siete un uomo meraviglioso.
Chi scenderà?»
«Io.»
«E se vi accoppano?»
«Non vi è alcun pericolo» disse
Toby. «Quei furfanti non si sveglieranno prima di ventiquattro ore.»
«Ed i miei marinai?» chiese il
capitano «Che siano stati uccisi?»
«Ne vedo qualcuno steso sulla
piazza» disse il pilota. «Essi non hanno potuto resistere alla tentazione di
fare una colossale bevuta, ed hanno fatto causa comune coi forzati. Non contate
più su di loro.»
«Miserabili!»
«Sono tutti irlandesi; voi sapete
quanto me se quella gente beva, quando si presenta l'occasione.»
«Non perdiamo tempo» disse Jao.
«Aiutatemi, signori.»
L'ascensore fu sbloccato e l'ex
governatore scese nella città accompagnato dal pilota.
La sua prima preoccupazione fu di
sfondare tutti i barili pieni d'alcool che non erano stati ancora vuotati, e
così por fine a quell'orgia pericolosa; poi s'impadronì d'una cassa di pesce
secco e di un caratello d'acqua dolce.
Nessun forzato si era svegliato.
Quei trecento e più furfanti non si erano mossi e russavano con un fragore tale
da far tremare perfino i vetri della cupola.
L'ascensore risalì e fu subito
bloccato perché non potessero servirsene quelli che stavano sotto.
«Ora» disse Jao «possiamo
aspettare l'incontro di una nave. Per quindici giorni almeno non correremo il
pericolo di morire di fame e di sete.»
«Ed i vostri sudditi ne avranno
abbastanza per resistere tanto?» chiese Brandok.
«Che crepino tutti! Sono dei
miserabili che non destano alcuna compassione» rispose Jao con rabbia. «Io non
mi occuperò più di loro.»
«Eppure io temo invece che noi
saremo costretti ad occuparcene e molto» disse Brandok. «Quando si risveglieranno
e sentiranno la loro città ballare vorranno salire anche loro e ci daranno non
pochi fastidi.»
«Ed io condivido il vostro
pensiero, signore» disse il capitano. «Avremo la tempesta sopra le nostre teste
e quei pazzi sotto di noi. La nostra passeggiata attraverso l'Atlantico,
prevedo che non sarà troppo divertente. Chissà! Aspettiamo che il sole si
mostri per poter meglio giudicare la violenza e la durata di questo ciclone.»
Emergendo assai la città
galleggiante dopo il suo distacco dalla roccia, e non essendovi alcun pericolo
che le onde giungessero fino al culmine della cupola, i sei uomini si
sdraiarono presso l'orifizio del pozzo, per concedersi, se era possibile,
qualche ora di sonno.
L'enorme massa metallica subiva
però dei soprassalti così terribili e così bruschi da rendere impossibile una
buona dormita.
Le onde che si succedevano alle
onde con furia sempre maggiore, la scrollavano terribilmente e la facevano
talvolta girare su se stessa, essendo sprovvista di timoni.
Di quando in quando sprofondava
pesantemente negli avvallamenti, come se dovesse scomparire per sempre nei
baratri dell'Atlantico; poi si risollevava bruscamente con mille strani fragori
che impressionavano specialmente Brandok, i cui nervi, già da qualche tempo,
sembravano fortemente scossi.
Talvolta s'alzava sulle creste
dei cavalloni con un dondolio spaventoso, quindi scendeva, scendeva, con
rapidità vertiginosa, roteando come una trottola.
E l'uragano intanto, invece di
calmarsi, aumentava sempre.
Lampi accecanti si succedevano
senza tregua con un crescendo terrorizzante, seguiti da tuoni formidabili che
si ripercuotevano sinistramente perfino dentro la città, facendo vibrare le
pareti di metallo, senza riuscire a svegliare gli ubriachi.
Tutta la notte, l'enorme massa
oscillò e girò, percossa incessantemente dai cavalloni, i quali la spingevano
verso il Mar dei Sargassi piuttosto che verso le Azzorre, come dapprima aveva
creduto il capitano.
Finalmente, verso le quattro del
mattino, un barlume di luce apparve fra uno squarcio delle tempestose nubi.
L'Atlantico offriva uno
spettacolo impressionante. Masse d'acqua, coperte di spuma, si accavallavano
rabbiosamente, urtandosi e spingendosi.
Nessuna nave, né aerea, né
marittima, appariva. Solamente dei grossi albatros volteggiavano fra la spuma e
la caligine, grugnendo come porci.
«Nessuna speranza di venire
salvati, è vero, capitano?» chiese Brandok.
«Per ora, no» rispose il
comandante del Centauro.
«Dove ci spinge il vento?»
«Verso
sud-ovest.»
«Lontano dalle rotte tenute dalle
navi?»
«Purtroppo, signore.»
«Dove andremo a finire dunque?»
«Sarebbe impossibile dirlo,
poiché il vento potrebbe anche cambiare da un momento all'altro.»
In quell'istante delle grida
spaventevoli scoppiarono nell'interno della città galleggiante.
I tre americani, il capitano, il
pilota e Jao si affrettarono a raggiungere la bocca del pozzo.
I forzati si erano svegliati e,
presi chissà da quale furioso delirio, si azzuffavano ferocemente fra di loro
armati degli attrezzi da pesca e di coltelli.
I miserabili cadevano a dozzine,
immersi in veri laghi di sangue, coi crani spaccati da colpi di rampone o coi
petti squarciati da colpi di coltello.
«Disgraziati, che cosa fate?»
gridò Jao inorridito.
La sua voce si perdette fra i
clamori spaventevoli dei combattenti.
Il capitano sparò alcuni colpi
della sua rivoltella elettrica, sperando che quelle detonazioni, troppo deboli,
però, attirassero l'attenzione di quei furfanti.
Nessuno vi aveva fatto caso:
forse nemmeno un colpo di cannone sarebbe stato sufficiente ad impressionarli.
«Lasciate che si scannino» disse
Brandok. «Tanti pessimi soggetti di meno.»
«D'altronde, noi nulla potremmo
fare per calmarli» disse il capitano del Centauro. «Se scendessimo, ci
farebbero a pezzi.»
«Io vorrei sapere per quale
ragione si scannano a quel modo» disse Holker.
«Sono ancora ubriachi, non lo
vedete?» disse il capitano. «Vomitano sangue e alcool insieme.»
«Finitela!» gridava intanto, con
quanta voce aveva in gola Jao! «Basta, miserabili! Basta!»
Era fiato sprecato.
La strage orrenda continuava con
maggior rabbia fra i due partiti, formatisi chissà per quale motivo.
Combattevano sulla piazza, nelle
viuzze, perfino dentro le case, fra urla e bestemmie. Di quando in quando dei
gruppi si staccavano e correvano a rinforzarsi ai pochi barili che il pilota e
Jao non avevano veduto e sfondato; poi, vieppiù eccitati, si scagliavano con
furore nella mischia.
Quella battaglia spaventosa durò
più di una mezz'ora, con grande strage da una parte e dall'altra; poi i
superstiti un centinaio appena, esausti, si separarono, rifugiandosi chi nelle
baracche semisfondate, chi negli angoli più oscuri della città, lasciandosi
cadere al suolo come corpi morti.
«È finita» disse Brandok. «Che
ricomincino e tramutino la città galleggiante in una città di morti?»
«Ecco un nuovo pericolo per noi»
disse il capitano del Centauro. «Chi getterà in mare quei tre o
quattrocento morti? Col calore che regna qui si corromperanno presto e
scoppierà fra i superstiti qualche malattia che finirà per distruggerli.»
«E che forse non risparmierà
nemmeno noi,» disse Toby «se non troveremo qualche mezzo per lasciare questa
città di morti.»
«Per ora rassegnatevi, signori»
disse il capitano. «Non vedo alcuna terra sorgere all'orizzonte.»
«Il Centauro deve essere
stato costruito quando brillava una cattiva stella, mio caro capitano» disse
Brandok.
«Così pare. Non è stato che un
continuo succedersi di disgrazie. Chissà, aspettiamo la fine di questo poco
allegro viaggio. La città per ora non minaccia di affondare, quindi abbiamo
diritto di sperare.»
Sembrava però che le speranze
dovessero diventare ben magre, poiché l'uragano continuava sempre ad infuriare,
sconvolgendo l'Atlantico per un tratto certamente immenso.
Nondimeno la città galleggiava
sempre benissimo, ora sollevandosi ed ora sprofondandosi fino a metà della
cupola.
Talvolta i cavalloni giungevano
quasi fino presso i sei uomini, i quali si tenevano bene aggrappati all'orlo
del pozzo, per paura di venire portati via.
La spuma talvolta li avvolgeva
così fittamente che non potevano distinguersi l'uno dall'altro, quantunque si
trovassero molto vicini.
Il sole era sorto da qualche ora,
però i suoi raggi non riuscivano ad attraversare l'enorme massa di vapori,
sicché sull'oceano regnava una semioscurità spaventosa.
A mezzodì i naufraghi mangiarono
alla meglio qualche boccone; poi, dopo essersi assicurati con delle reti alle
traverse dei vetri, cercarono di dormire qualche ora sotto la guardia del
pilota del Centauro.
Tutta la notte non avevano chiuso
un solo istante gli occhi, e specialmente Brandok e Toby si sentivano
estremamente stanchi ed in preda a dei tremiti convulsi, che li impressionavano
non poco.
Verso sera uno splendido raggio
di sole ruppe finalmente le nubi, illuminando di traverso le onde, essendo
l'astro prossimo al tramonto.
Il capitano, avvertito dal
pilota, si era affrettato ad alzarsi per cercare di conoscere, almeno
approssimativamente, dove l'uragano aveva spinto la città galleggiante. Rimase
subito colpito dalla presenza di enormi masse di alghe che fluttuavano in mezzo
alle onde.
«Lo temevo» disse aggrottando la
fronte.
«Che cosa avete?» chiese Brandok
con apprensione.
«Miei cari signori, noi corriamo
il pericolo di venir fermati per sempre nella nostra corsa ed imprigionati.»
«Da chi?» chiesero ad una voce i
tre americani.
«Dai sargassi. Se questo enorme
cassone si caccia fra quegli ammassi di alghe, non ne uscirà più, ve lo
assicuro io, a meno che un'altra tempesta non scoppi soffiando in senso
inverso.»
«Ma voi capitano, avete la
iettatura» disse Brandok.
«Si direbbe davvero, purché
invece non l'abbia Jao o la sua città.»
«Ci spinge proprio sui sargassi
il vento?» disse Toby.
«E le onde anzi lo aiutano»
rispose il capitano, che diventava sempre più inquieto.
«Tempesta, alghe, morti e persone
pericolose sotto i piedi» mormorò Brandok. «Non valeva proprio la pena di
ritornare in vita dopo cent'anni per provare simili avventure.»
«Ed i vostri amministrati che
cosa fanno Jao?» chiese il capitano.
«Russano in mezzo ai morti.»
«Ancora! Meglio per noi. Se non
si svegliassero più sarei ben contento, poiché sono certo che ci daranno non
pochi fastidi quando finalmente apriranno gli occhi e non troveranno più alcool
per continuare la loro indecente orgia. Attenzione! L'urto sarà abbastanza
forte per scaraventarvi in acqua se non vi terrete ben saldi.»
L'Atlantico, che si trovava
fermato nella sua corsa furibonda, sferzato poderosamente dal vento che lo
incalzava senza tregua, raddoppiava la sua rabbia, cercando di sfondare, ma
invano, quelle interminabili masse di alghe, saldamente intrecciate le une
colle altre per mezzo d'un numero infinito di radici.
Le ondate, non trovando sfogo, si
ritorcevano su loro stesse, provocando dei contrassalti d'una violenza
indescrivibile.
Immense cortine di spuma vagavano
al di sopra dei sargassi abbattendosi di quando in quando e lacerandosi sotto i
vigorosi soffi delle raffiche.
La città galleggiante rollava in
modo inquietante, tuffando i suoi fianchi nelle onde.
Tutte le sue balaustrate erano
state strappate, però le traverse d'acciaio delle invetriate resistevano
sempre. Guai se avessero ceduto sotto il peso immane dei cavalloni. Nessuno dei
forzati sarebbe di certo sfuggito all'invasione delle acque.
Gli ultimi bagliori del crepuscolo
stavano per scomparire, quando la città galleggiante che continuava la sua
corsa verso il sud-ovest si trovò in mezzo alle prime
alghe.
«Ci siamo!» gridò il capitano,
dominando per un istante, colla sua voce tonante, i mille fragori della
tempesta. «Tenetevi saldi!»
Una montagna liquida sollevò la
città, la tenne un momento come sospesa in aria, poi la scaraventò innanzi con
forza inaudita.
Si udì un rombo sonoro, prodotto
dalle pareti d'acciaio, poi l'enorme massa rimase immobile, mentre le onde
attraversavano velocemente la cupola lasciando cadere entro il pozzo dei
torrenti d'acqua, i quali precipitarono sulle teste degli ubriachi come una
gran doccia salutare.
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