17 - FRA I SARGASSI
Il Mar dei Sargassi, come ognuno
sa, non è altro che un ammasso immenso di alghe, radunate colà dal gioco
diretto ed indiretto delle correnti marine e soprattutto dalla grande corrente
del Gulf-Stream. Ha una superficie di
260.000 miglia quadrate, con una lunghezza di 1.200 e una
larghezza cha varia dalle 50 alle 160 miglia.
Quelle alghe della specie sargassum
bacciferum, si presentano a ciuffi staccati che hanno una lunghezza da
trenta a ottanta centimetri, e si vedono ora sparsi ed ora agglomerati,
formando ora delle strisce ed ora dei veri campi, talvolta così fitti da
arrestare i velieri che hanno la disgrazia di venire spinti là dentro.
Si crede che là sotto esista
quella famosa Atlantide, così misteriosamente scomparsa coi suoi milioni e milioni
di abitanti, e può darsi benissimo che quell'isola serva di fondo a quello
sterminato ammasso di vegetali.
La città galleggiante, spinta in
mezzo alle alghe dal possente urto delle onde, vi si era così ben incastrata da
rimanere quasi di colpo immobile, come se si fosse arenata sopra un banco di
sabbia.
L'enorme massa d'acciaio,
investendo i sargassi con uno dei suoi lati, vi si era incastrata come un
immane cuneo dentro un tronco d'albero ancora più immane.
Le onde, che si rovesciavano al
di sopra degli sterminati campi di alghe, tentando invano di scompaginarli,
l'assalivano ancora, investendo specialmente la cupola, con poco divertimento
dei sei uomini, i quali correvano il pericolo di venire portati via; però le
ondate non riuscivano più a scuoterla.
«È finito il nostro viaggio,
capitano?» disse Brandok, che si teneva aggrappato disperatamente al margine
del pozzo.
«Purtroppo» rispose il comandante
del Centauro. «Siamo peggio che arenati, e non saprei chi potrebbe trarre
dal mezzo di queste alghe questo gigantesco cassone di metallo. Nemmeno una
flotta intera vi riuscirebbe.»
«Saremo dunque costretti a vivere
eternamente qui, o a morire di fame?»
«Di fame no, poiché il Mar dei
Sargassi è ricco di pesci minuscoli, sì, però non meno eccellenti né meno
nutritivi degli altri, e che si possono prendere senza l'aiuto delle reti.
Troveremo, anzi, anche dei voracissimi e grossi granchi, che ci forniranno dei
piatti squisiti.»
«Preferirei però trovarmi lontano
da qui.»
«Ed io non meno di voi.»
«Verrà qualche nave a levarci da
questa imbarazzante situazione?»
«È possibile che qualche legno
volante, per accorciare il cammino, passi sopra questo mare d'erbe, ma quando?»
Un tumulto spaventevole scoppiò
in quel momento nelle profondità della città galleggiante.
«Si sono risvegliati» disse Toby.
«Signor Jao, cercate di calmare quelle furie, se potete, e di spiegare loro
quanto è avvenuto durante la loro sbornia fenomenale.»
«Sarà un affare un po' serio.
Sarebbe meglio per noi che finissero di scannarsi tutti.»
Si curvarono tutti sull'orlo del
pozzo e videro sotto di loro, radunati sulla piazza, che era ingombra di
cadaveri, cinquanta o sessanta uomini che guardavano per aria, urlando come
belve feroci.
«L'ascensore! Calate l'ascensore!
Vogliamo fuggire!»
«Furfanti!» gridò Jao. «Che cosa
avete fatto?»
«Signor Jao!» gridò un uomo di
statura quasi gigantesca «perdonateci, eravamo diventati come pazzi e non
sapevamo più quello che facevamo. Tutta la colpa è dell'alcool al quale non
eravamo più abituati.»
«E vi siete scannati, banditi.»
«Se eravamo come pazzi!...»
«E avete distrutte perfino le
case e rovinati tutti gli attrezzi da pesca.»
«È colpa dell'alcool!» gridò un
altro. «Se quel maledetto capitano non l'avesse portato, oggi non piangeremmo
tanti camerati.»
«Sì, è lui il birbante!» urlarono
trenta o quaranta voci.
«E voi siete dei ladri!» gridò il
capitano del Centauro, mostrandosi.
Un immenso clamore scoppiò, un
clamore che parve il ruggito di cento leoni riuniti.
«Miserabile!»
«Canaglia!»
«Ci hai avvelenati apposta!»
«Qualche infame governo ti aveva
mandato qui per farci diventare pazzi e poi ammazzarci l'un l'altro.»
«A morte! A morte!»
«Toby!» esclamò Brandok. «Hanno
ancora ragione loro.»
«Va bene» gridò Jao. «Ne
riparleremo, quando sarete diventati più ragionevoli ed i fumi dell'alcool non
vi guasteranno più il cervello.»
«Ah! Cane d'un governatore!»
vociò il gigante. «Non morrò contento se prima non avrò la tua pelle.»
«Vieni a prenderla» rispose Jao.
«Ti sfido.»
«Non mi scapperai, te lo giuro.»
«Sì, accoppiamoli tutti!»
urlarono in coro gli altri.
«Lasciamoli gridare e occupiamoci
dei nostri affari» disse il capitano. «Già non potranno mai salire fino a noi,
se non caliamo l'ascensore; e per togliere loro ogni speranza lo getto in
mare.»
Così dicendo il comandante, prima
che gli altri avessero il tempo di opporsi, con una spinta formidabile lo
rovesciò giù dalla cupola.
Le alghe, che in quel luogo non
erano troppo fitte, s'aprirono e lo inghiottirono.
«Avete condannato a una morte
certa quegli sciagurati» disse Toby.
«Se domani una nave approdasse
qui, sapete che cosa farebbe?» chiese il capitano.
«No.»
«Farebbe senz'altro saltare
questa città con una buona bomba ad aria liquida, insieme a tutti quelli che
contiene, morti e vivi. È vero Jao?»
«Così hanno decretato i governi
dell'Europa e dell'America, per tenere a freno i rifiuti della società» rispose
il vecchio.
«Non sono ancora tre mesi che una
nave aerea, mandata dal governo americano, ha colato a fondo la città sottomarina
di Fortawa, perché i cinquecento forzati che l'abitavano si erano ribellati,
uccidendo il capitano di una nave e tutti i passeggeri per saccheggiare poi il
carico.»
«Queste sono leggi inumane» disse
Brandok.
«La società vuole vivere e
lavorare tranquillamente,» rispose il capitano. «Tanto peggio per i furfanti.
Bah! Lasciamo questi poco interessanti discorsi e facciamo colazione, giacché
l'oceano ci lascia un po' di tregua.»
«Io non potrò mangiare
tranquillamente pensando che sotto di me vi sono forse cento persone che
cominciano a soffrire la fame.»
«I viveri non mancheranno loro
per parecchi giorni» disse Jao. «Se poi verranno a più miti consigli li
sbarazzeremo dei cadaveri perché non scoppi qualche terribile epidemia che
sarebbe indubbiamente fatale anche a noi, col calore spaventevole che regna in
questa regione, e permetteremo loro di venire a respirare una boccata d'aria.
Che cosa ne dite, capitano?»
«Io li lascerei crepare» rispose
il comandante del Centauro.
«No, ciò sarebbe inumano» dissero
Toby e Holker.
«Io sono convinto che finiranno
per calmarsi» disse Brandok. «Quando i cadaveri cominceranno a corrompersi,
saranno costretti ad arrendersi.»
«Cerchiamo la nostra colazione»
ripeté il capitano. «Non ci conviene consumare il nostro pesce secco, che
potremmo più tardi rimpiangere. Scendiamo sui sargassi, signori; i pesci, i
granchi grossi ed i granchiolini, come vi ho detto, abbondano fra queste
alghe.»
Si lasciarono scivolare lungo le
invetriate della cupola, tenendosi con una mano alle traverse di metallo e si
calarono sul campo di sargassi che era in quel luogo così folto da poter
reggere benissimo un uomo.
Il capitano aveva detto il vero
assicurando che la colazione non sarebbe mancata.
In mezzo alle alghe, formate da
fronde brune, molto ramificate, con corti peduncoli forniti di foglie
lanceolate, guizzavano miriadi di piccoli pesci, piatti, deformi, con una bocca
molto larga, lunghi appena un centimetro, del genere degli antennarius, di
octopus purpurei, e saltellavano dei piccoli cefalopodi e dei grossi
granchi, occupati a fare delle vere stragi dei loro sfortunati vicini.
«Che disgrazia non possedere una
buona padella ed una bottiglia d'olio» mormorava Brandok che non perdeva però
il suo tempo. «Che ottima frittura si potrebbe mangiare!»
La caccia, poiché si trattava
d'una vera caccia, anziché d'una pesca, durò una buona mezz'ora e fu
abbondantissima.
Non potendo cucinare tutti quei
piccoli pesci, poiché i fornelli a radium si trovavano in fondo alla città
galleggiante, i tre americani ed i loro compagni furono costretti a mangiare
quella squisita frittura... viva!
L'uragano intanto a poco a poco
si calmava. Le nuvole si erano finalmente spezzate, il vento aveva terminato di
lanciare i suoi poderosi soffi e l'Atlantico, come se si fosse stancato di
quella gigantesca battaglia che durava da quarantotto ore, si spianava
rapidamente.
Non accennava invece a calmarsi
la rabbia dei forzati. Le troppo copiose libazioni dovevano aver sconvolto
completamente quei cervelli che forse non erano mai stati equilibrati.
Resi maggiormente furiosi dal
rifiuto di Jao di calare l'ascensore, avevano saccheggiato i magazzini gettando
tutto sottosopra, poi avevano ripresa la demolizione delle casupole che ancora
rimanevano, tutto fracassando e tutto disperdendo.
Salivano di quando in quando dal
pozzo urla feroci, che commuovevano non poco Toby e Brandok, ma che lasciavano
assolutamente indifferenti il capitano, Jao, il pilota e perfino Holker, i quattro
uomini moderni ormai abituati a considerare i malviventi come belve pericolose
per la società!
Alla sera però tutto quel baccano
cessò. I forzati, stanchi di distruggere e di urlare, si erano finalmente
decisi a riposarsi, malgrado il tanfo insopportabile che cominciava ad
espandersi al di sotto della immensa cupola; i cadaveri cominciavano a
decomporsi.
I tre americani ed i loro
compagni, seduti sull'orlo del pozzo, un po' tristi, guardavano il cielo che
era tornato ad oscurarsi, chiedendosi quale altro malanno stava per coglierli.
Si sarebbe detto che un nuovo
uragano stava per scatenarsi sull'irrequieto oceano. Un'afa pesante,
soffocante, regnava negli alti e nei bassi strati, satura di elettricità.
Il sole, qualche ora prima, si
era tuffato più rosso del solito, dentro una nuvolaccia nera che era apparsa
verso ponente.
«Ancora cattivo tempo, è vero,
capitano?» chiese Brandok.
«Sì» rispose il comandante del Centauro,
che appariva più preoccupato del solito. «Avremo una seconda burrasca signori
miei, che getterà completamente fuori di rotta le navi volanti che potrebbero
trovarsi in questi paraggi. Ho però una speranza.»
«Quale?» chiese Toby.
«Che questo uragano che verrà da
ponente ci tragga dai sargassi e ci spinga nuovamente al largo.»
«Sarebbe una vera fortuna,
capitano.»
«Adagio, signore. Se il vento ci
spingesse questa volta verso le Canarie? Ecco quello che temo.»
«Vi rincrescerebbe approdare a
quelle isole?» chiese Brandok con sorpresa.
Il capitano del Centauro
guardò a sua volta l'americano con profonda sorpresa.
«Ma da dove venite voi?» gli
chiese.
«Dall'America, signore.»
«Un paese che non è poi molto
lontano dalle Canarie.»
«Non so che cosa vogliate dire
con ciò, capitano» disse Brandok sempre più stupito.
«Disgraziata la nave marina od
aerea che cadesse su quelle isole» rispose il capitano. «Nessun uomo
dell'equipaggio uscirebbe certamente vivo.»
«Che cosa è successo dunque su
quelle isole?» chiese Toby, che non era meno sorpreso di Brandok.
«Diamine! I governi dell'America,
dell'Europa, dell'Asia e dell'Africa hanno popolato quelle isole di tutti gli
animali che un tempo esistevano su tutti i cinque continenti.»
«Perché?» chiese Brandok.
«Per conservare le razze. Là vi
sono tigri, leoni, elefanti, pantere, giaguari, coguari, bisonti, serpenti e
tante altre bestie delle quali io non conosco nemmeno il nome» rispose il
capitano. «Come ben sapete, ormai, tutti i continenti sono fittamente popolati,
quindi quegli animali non avrebbero più trovato né rifugio, né scampo. Gli
zoologi di tutto il mondo, prima della distruzione completa di tutte le belve,
hanno pensato di conservare almeno le ultime razze.»
«Trasportandole alle Canarie?»
«Sì, signor Brandok» rispose il
capitano.
«E gli abitanti di quelle isole
non vengono divorati?»
«Quali abitanti?»
«Non ve ne sono più? Scusate la
mia ignoranza, capitano, ma noi veniamo dalle parti più remote del continente
americano, dove non giungono notizie di tutti gli avvenimenti del mondo» disse
Toby, che non desiderava affatto far conoscere la storia della loro
risurrezione.
«Credevo che gli americani
fossero più innanzi di noi europei» disse il capitano. «Dunque voi avete sempre
ignorato la terribile catastrofe che ha colpito quelle disgraziate isole
cinquant'anni or sono?»
«Non ne abbiamo mai udito
parlare» rispose Brandok.
«Già si sapeva che tutte quelle
isole erano d'origine vulcanica» rispose il capitano. «Non erano altro che le
punte estreme d'immense montagne o meglio di vulcani, inghiottiti forse durante
il gigantesco cataclisma che fece sprofondare l'antica Atlantide. Un brutto
giorno il Tenerifa, dopo chi sa quante migliaia d'anni di sonno, cominciò a
svegliarsi, vomitando lave in quantità prodigiosa e tanta cenere da coprire
tutte le isole del gruppo. Ancora si fosse limitato a questo; vomitò invece,
anche una tale massa di gas asfissiante da distruggere completamente la
popolazione.»
«Non ne scampò nemmeno uno?»
chiese Brandok.
«Appena quindici o venti, i quali
recarono in Europa la terribile notizia» rispose il capitano. «Quell'eruzione
spaventevole durò vent'anni, facendo scomparire parecchie isole, poi cessò
bruscamente. I governi europei ed americani, dopo aver invano cercato di
ripopolare quelle terre, hanno allora pensato di relegarvi tutti gli animali,
feroci o no, che ancora sussistevano sui cinque continenti, per impedirne la
totale distruzione.»
«Sicché quelle isole sono
diventate tanti serragli» disse Toby.
«Sì, signore. Di quando in quando
dei coraggiosi cacciatori si recano là a fare delle battute, onde provvedere i
musei ed impedire che quegli animali diventino troppo numerosi.»
«Quante cose hanno fatto questi
uomini in cent'anni!» mormorò Brandok, che era diventato pensieroso. «Se
potessimo ripetere l'esperimento, che cosa vedremmo fra un altro secolo? Forse
noi, uomini d'altri tempi, non potremmo più vivere.»
L'uragano che il capitano aveva
annunciato si avanzava, con un crescendo orribile di tuoni e di lampi così
intensi che Brandok e Toby si sentivano accecare.
Pareva che la grande elettricità
sviluppata dalle infinite macchine elettriche funzionanti sulla crosta
terrestre, avesse avuto una ripercussione anche negli alti strati aerei, perché
i due americani non avevano mai veduto, ai loro tempi, lampi così abbaglianti e
di così lunga durata.
L'uragano questa volta veniva da
ponente. Era quindi probabile che il Mare dei Sargassi, scompaginato dai
furiosi assalti dell'Atlantico, allargasse le sue mille e mille braccia,
lasciando libera la città galleggiante.
Alla mezzanotte, l'oceano
sollevato da un vento impetuosissimo, diede i primi cozzi ai campi dei
sargassi. I suoi cavalloni piombavano sulle masse erbose con furia estrema,
rodendo o sfondando qua e là i margini.
La città galleggiante, investita
per di sotto, si agitava in tutti i sensi. Pareva che dei marosi, d'una potenza
incalcolabile, la urtassero nella sua parte inferiore, poiché di quando in
quando subiva dei soprassalti violentissimi che mettevano a dura prova i
muscoli dei tre americani e dei loro compagni.
I forzati, svegliati dal rombare
incessante dei tuoni, dai bagliori intensissimi dei lampi e dal rumoreggiare
delle onde, avevano ricominciato a urlare, mescolando le loro voci a quella
possente della tempesta.
Spaventati da tutto quel
fracasso, non sapendo che cosa succedeva all'esterno, chiedevano che si calasse
l'ascensore, che ormai non c'era più, minacciando di sfondare le pareti della
città galleggiante e di annegare tutti.
«Non ci mancherebbe altro!»
esclamò il capitano, un po' inquieto. «Se mettono in esecuzione la loro minaccia,
buona sera a tutti. Non sarà il campo dei sargassi che ci salverà, con questo
indiavolato ondulamento. Caro Jao, bisogna cercare di calmarli.»
«Bisognerebbe farli salire e
allora ci accopperanno tutti» rispose il vecchio che cominciava a tremare.
«Cercate di rassicurarli.»
«Non mi ascolteranno. Vogliono
uscire da quella bolgia infernale dove soffocano. Non sentite che puzza orrenda
comincia a sprigionarsi da tutti quei cadaveri?»
«Non siamo stati noi a commettere
la strage» disse il capitano. «Ne sopportino le conseguenze ora. Noi non
possiamo, in così piccolo numero e senza ascensore, far salire fino a noi
quattrocento e più cadaveri. Ci vorrebbe una settimana di lavoro.»
«E forse non basterebbe» disse il
pilota.
«Eppure bisogna fare qualche cosa
per quei disgraziati,» disse Toby.
«Che stupido sono!» esclamò in
quel momento Jao. «E più stupidi di me sono anche loro.»
«Perché, amico?» chiese il
capitano.
«Noi possiamo tramutare la città
galleggiante in una immensa ghiacciaia. E nessuno prima ci aveva pensato! Tre
volte bestia con cento corna!»
«In qual modo?» chiesero Brandok
e Toby.
«Abbiamo più di venti serbatoi
pieni d'aria liquida per la conservazione del pesce. Dieci si trovano sotto la
cupola e gli altri nei quattro angoli della città. Fra cinque minuti i cadaveri
geleranno o poco meno, e la loro putrefazione sarà immediatamente arrestata.»
«E gelerete anche i vivi» disse
Brandok.
«Hanno delle coperte; che si
coprano» disse il capitano.
«Cercate almeno prima di calmarli
ed avvertirli» disse Toby. «Non udite come picchiano contro le pareti della
città? Non dubito che siano robustissime, però potrebbero cedere in qualche
punto.»
«Avete ragione» rispose Jao.
Per essere meglio udito dai forzati,
si calò fino sulle traverse d'acciaio che avevano servito di sostegno
all'ascensore, comparendo fra i potenti fasci di luce proiettati dalle lampade
a radium che non erano state più spente.
Fu subito scorto dagli abitanti i
quali non cessavano di guardare in alto, sempre colla speranza di veder
scendere l'ascensore, ed un coro d'invettive salì su pel pozzo con un frastuono
indiavolato.
«Eccolo, il brigante!»
«Eccolo, il traditore!»
«Linciamo quell'avanzo di galera
che ha giurato da sempre la nostra distruzione.»
«Scendi cane!... Scendi!...»
Jao li lasciò sfogare, ricevendo
filosoficamente, senza turbarsi, quell'uragano d'ingiurie e di minacce, e
quando vide che non avevano più fiato, fece loro un gesto amichevole, gridando:
«Ma finitela, pazzi! Volete
ascoltarmi sì o no? Se continuate, risalgo e non mi rivedrete più mai».
«Sì, sì, lasciamolo parlare!»
gridarono parecchie voci.
«Parla dunque, vecchio» disse una
voce.
«La nostra città si è staccata
dallo scoglio e la tempesta ci ha portati fra i sargassi.»
«Tu menti!»
«Che uno di voi, ma uno solo,
salga per accertarsi se io ho detto la verità.»
«Cala l'ascensore!»
«Il mare l'ha portato via.»
«Manda giù una fune allora.»
«Sì» rispose Jao. «Vi avverto
però che se sale più d'uno la taglieremo. La cupola è avariata e crollerebbe
sotto il vostro peso.»
«E vuoi che crepiamo qui, fra
tutti questi cadaveri che puzzano orrendamente?» gridò un altro.
«Aprite i serbatoi dell'aria
liquida e geleranno presto.» Aveva appena terminato di parlare che tutti quegli
uomini si precipitavano verso i quattro angoli della città galleggiante, dove
si vedevano degli enormi tubi d'acciaio.
Si udirono tosto dei fischi
acutissimi, poi una corrente d'aria gelida eruppe dal pozzo, mentre le lastre
di vetro si coprivano per di sotto d'uno strato di ghiaccioli.
Intanto Brandok, il capitano ed
il pilota avevano attaccato le funi che una volta servivano per sospendere le
reti e che le onde in parte avevano risparmiate, e le avevano annodate.
«Caliamole nella ghiacciaia»
disse Brandok, che respirava a pieni polmoni l'aria fredda che usciva sempre a
folate dal pozzo. «Siamo quasi sotto l'equatore e battiamo già i denti. Che
cosa non hanno dunque inventato questi meravigliosi uomini del Duemila? Io
finirò per impazzire davvero, te lo assicuro!»
I forzati, aperte le valvole,
erano corsi a chiudersi nelle case che ancora si mantenevano, bene o male, in
piedi, impadronendosi di tutte le coperte che trovavano.
Se sotto la cupola andava
formandosi il ghiaccio, quale freddo doveva regnare laggiù con quei quattro
serbatoi che soffiavano fuori gradi e gradi di gelo?
La fune finalmente, solidamente
trattenuta dal capitano, dal pilota e da Jao toccò il suolo; ma allora un altro
e più spaventevole tumulto scoppiò fra quei furibondi.
Venti mani l'avevano afferrata e
non volevano più lasciarla. Quelli che non avevano potuto farsi innanzi a
tempo, si erano messi a percuotere spietatamente i compagni che pei primi
l'avevano presa.
Il capitano ed i suoi compagni,
nauseati da quelle scene, invano si erano provati a ritirare la fune. Sarebbe
stato necessario un argano.
Già il primo stava per proporre
di tagliarla, quando un giovine galeotto più lesto degli altri, con un salto
degno d'un clown, balzò sopra le teste dei rissanti, aggrappandovisi e
troncandola, con un colpo di coltello, sotto i propri piedi.
«Su! Su!» gridò il capitano.
Il giovine montava rapidamente,
poiché anche gli americani prestavano man forte al capitano.
I forzati, vedendo salire il
compagno, lo coprivano d'ingiurie, minacciando di sventrarlo appena fosse
disceso.
«Noi non potremo mai andare
d'accordo con quelle canaglie» mormorò Brandok. «Il galeotto di cent'anni fa mi
pare che si sia mantenuto eguale. La scienza tutto ha perfezionato fuorché la
razza, e l'uomo malvagio è rimasto malvagio. Passeranno secoli e secoli, ma,
levato lo strato di vernice datogli dalla civiltà, sotto si troverà sempre
l'uomo primitivo dagli istinti sanguinari.»
La fune, vigorosamente tirata dal
capitano e dai suoi compagni, era giunta presso i margini del pozzo.
Il galeotto che vi si era
aggrappato, un giovinotto quasi ancora imberbe, biondo, allampanato, tutto
braccia e gambe, appena si vide a buon punto, lasciò la fune balzando agilmente
sulla cupola.
«Guarda dunque e va a riferire ai
tuoi compagni quello che hai veduto» gli disse Jao.
«Che siamo sul mare o all'inferno
poco m'importa» rispose il galeotto, respirando a lungo. «Sono uscito da quel
macello e mi basta. Accoppatemi, se volete, ma io non ritornerò mai più laggiù.
Mi farebbero a brani.»
«Rimani adunque, però t'avverto»
disse il capitano «che se tenterai qualche cosa contro di noi, avrai da
aggiustare i conti colla mia rivoltella elettrica.»
«Non vi darò alcun impiccio, ve
lo giuro, signore.» Sotto, i forzati urlavano a squarciagola. La gran voce
della tempesta però non tardò a soffocare tutti quei clamori.
L'uragano sconvolgeva per la
seconda volta l'Atlantico.
«Dove andremo?» si chiese il
capitano, che guardava con inquietudine le onde che si rovesciavano, con furia
estrema sui campi dei sargassi.
Ad un tratto la città
galleggiante che si trovava un po' sbandata, si raddrizzò di colpo, emergendo
bruscamente di parecchi metri.
«Aggrappatevi alle traverse!»
aveva gridato Jao.
Un'onda mostruosa, passando
attraverso il campo dei sargassi contro cui s'appoggiava la città galleggiante,
avanzava con mille muggiti spingendo innanzi a sé delle fitte cortine d'acqua
polverizzata che velavano perfino la luce dei lampi.
«Andiamo dunque?» chiese Brandok,
che col robusto braccio destro teneva fermo Toby, affinché non venisse portato
via dal cavallone.
Una tromba, una vera tromba
d'acqua passò su di loro, coprendoli ed inzuppandoli dalla testa ai piedi, poi
la città galleggiante si spostò e fece un salto immenso. Era nuovamente libera.
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