XXII -
LA CACCIA AI «MANGIATORI DI LEGNO»
Quattro lunghi giorni trascorsero,
senza che i minatori potessero mettere la punta del naso fuori dalla caverna, a
causa della bufera di neve che non cessò un solo istante dall'imperversare. Un
vento furioso, irresistibile e rigido, soffiò senza interruzione, con tremendi
ruggiti, cacciandosi innanzi nembi di nevischio e di ghiacciuoli, e facendo
precipitare, dagli alti picchi, delle valanghe enormi che andavano a sfasciarsi
in fondo agli abissi. Il signor Falcone e i suoi compagni mantennero
costantemente acceso il fuoco, avendo avuta la precauzione di fare prima
un'ampia provvista nella vicina pineta. Il quinto giorno, calmatasi la
tormenta, abbandonarono il loro ricovero per scendere nella regione dei laghi,
e di là raggiungere rapidamente la frontiera dell'Alaska, per poi risalire il
Tanana fino all'Yukon. Essendo la neve caduta in abbondanza sugli altipiani, la
marcia non fu facile come avevano sperato. Parecchie volte si videro costretti
ad aprire le casse prendere vanghe e picconi e rompere il ghiaccio per evitare
che i cavalli si spezzassero le gambe, o a aprirsi il passo attraverso avanzi
di valanghe. Dovettero impiegare un'intera giornata per abbassarsi di cinque o
seicento metri, però finirono col trovare un'ampia vallata che si dirigeva
verso nord ovest, e che probabilmente sboccava nella regione dei Laghi del
Lewes. Il 24 maggio, dopo una marcia rapidissima e difficile fra folte foreste
di pini, abeti neri e betulle, giungevano finalmente sulle rive del Lewes,
fiume formato da due laghi piuttosto vasti, che, dopo un corso abbastanza
tortuoso, va a scaricarsi nel Pelly nei pressi del forte Sceikirk. Avendo
esaurite quasi tutte le loro provviste, raggiunsero le rive del lago
meridionale, certi di trovale abbondante selvaggina, essendo la stagione
propizia per la caccia.
- Troveremo dei castori,
delle renne, dei daini moose, e volatili in abbondanza, - disse Bennie
ad Armando.
- E orsi? - chiese il
giovanotto
- Non mancheranno, ve lo
assicuro.
- Allora mettiamoci in
caccia, mentre Back e mio zio rizzano la tenda e preparano la colazione.
- Che mangeranno
probabilmente loro, - disse Bennie. - Quando si va in cerca di selvaggina, non
si sa quando si ritorna.
- Faremo colazione sul
luogo della caccia, - rispose Armando, mettendosi in tasca alcuni biscotti.
Raccomandarono al signor
Falcone e al messicano di fare buona guardia, trovandosi in una regione
percorsa da tribù indiane di pessima fama, e saliti sui loro cavalli si
allontanarono al galoppo costeggiando il lago. Quel bacino aveva una lunghezza
considerevole, forse trentacinque o quaranta miglia, però non doveva essere
largo più di dieci o dodici. Le sue rive erano coperte da una vegetazione
relativamente fitta. Dopo una cavalcata di una mezza dozzina di chilometri.
Bennie si arrestò sulla riva del lago, al margine di un gruppo gigantesco di
pini e di abeti.
Là il lago descriveva una
curva rientrante, formando una specie di baia coperta di piante pallustri,
luogo preferito dagli uccelli acquatici e soprattutto dai cigni. Legarono i
cavalli a una giovane betulla e si spinsero verso la riva, tenendosi nascosti
dietro alcuni cespugli di ribes e di salici nani
- I cigni non devono
mancare - disse Bennie, gettando uno sguardo fra i canneti. - Sono volatili che
meritano un colpo di fucile quantunque la loro carne sia inferiore a quella
delle anitre.
- Trovano da pescare in
queste acque? - chiese Armando.
- Tutti i laghi di questa
regione e anche i fiumi dell'Alaska, sono ricchissimi di pesci. Ci sono delle
trote bianche squisite che raggiungono un peso di oltre trenta libbre, poi trote
di montagna, più piccole, ma delicate, trote color salmone, egualmente
eccellenti, pesci persici, barbi grossissimi e lucci.
In quell'istante un suono
simile allo squillo di una tromba, seguito poco dopo da un lungo fischio, si
udì alzarsi fra i canneti.
- Ecco un cigno, - disse
Bennie alzando il fucile. - Non sarà solo, ne sono certo. Armando, raccogliete
quei sassi e lanciateli in mezzo a quelle piante acquatiche.
Il giovanotto ubbidì, e
scagliò con quanta forza aveva, un grosso ciottolo. Subito un nugolo di
volatili si alzò rumorosamente. Aironi e anitre, in numero straordinario,
furono i primi a mostrarsi, poi si levarono, battendo le candide ali, sette od
otto superbi cigni. Mentre i primi, più lesti e meglio conformati al volo,
filavano vertiginosamente in mezzo al lago, i secondi, più pesanti e meno
astuti, piegarono verso riva, facendo udire il loro acuto fischio, Bennie e
Armando erano balzati prontamente in piedi, con i fucili alzati. Vedendo quei
grossi volatili passare a trenta metri, lasciarono partire i due colpi. Un
superbo cigno, il capo-fila, colpito mortalmente da una palla, volteggiò
parecchie volte nell'aria, agitando pazzamente le ali, e venne a cadere a venti
passi.
- Bel colpo, in fede
mia!... - esclamò Bennie, precipitandosi sulla preda e afferrandola. - Qui ci
sono almeno trenta libbre di carne.
- Un arrosto colossale che
farà una splendida figura a cena, - disse Armando. - Ne abbatteremo altri,
Bennie?
- Uhm!... I cigni sono
troppo diffidenti per esporsi due volte al fuoco dei cacciatori.
- Che cosa andremo ad
uccidere, ora?
- Diavolo!... Siete ben
esigente, giovanotto. Abbiamo appena scaricati i nostri fucili che già chiedete
di abbattere qualche altro volatile o qualche animale. Ah!... Che siate proprio
fortunato, Armando?
- E perché, Bennie?
- Toh!... Sono delle vere
tracce queste! - disse il canadese, curvandosi al suolo e osservando certe
buche, fate sul terreno pantanoso. - Si, non m'inganno: in questo punto è
passato un mangiatore di legno.
- Dite?
- Un moose.
- Non vi comprendo,
Bennie.
- Una specie di daino che
rassomiglia a un piccolo asino, - disse il canadese.
- E perché lo chiamate mangiatore
di legno? - chiese Armando.
- Perché si nutre di
preferenza con rami di acero rigato, alle cui piante i cacciatori hanno dato il
nome di legno di moose.
- Sono difficili a
uccidersi?
- Talvolta, mio caro,
fanno sudare freddo.
- Forse che sono armati di
artigli come gli orsi?
- No, Armando, ma hanno
delle corna e così aguzze da passare da parte a parte un uomo.
- Ci terremo in guardia,
Bennie.
- Venite, Armando.
Appese il cigno al ramo di
un albero per esser certo di ritrovarlo più tardi, gettò ai cavalli un fascio
di foglie e di erbe, poi si mise a seguire le tracce, che si addentravano nella
foresta. Sapendo per esperienza che i moose difficilmente si allontanano
dalle rive dei fiumi e dei laghi, essendo avidissimi dei fiori delle ninfee,
non credettero opportuno inoltrarsi troppo fra quel caos di vegetali.
- Lo troveremo presso le
rive, - disse ad Armando che lo interrogava.
La pista era stata
abbandonata, poiché Bennie non desiderava fare giri lunghi ed era certo di
ritrovarla. Invece di guardare il suolo, egli osservava gli alberi, dirigendosi
specialmente là dove vedeva qualche acero rigato o qualche gruppo di salici.
Avevano già percorso quasi un chilometro, quando l'attenzione del canadese fu
attirata dai giri concentrici che descriveva un'aquila dalla testa bianca.
- Che cosa sta osservando
quel rapace? - si chiese, arrestandosi.
- Di certo spia qualche
preda.
Guardò attentamente le
piante sulle quali si librava il grosso volatile, e si diresse a quella volta,
procurando di non far rumore e di tenersi nascosto dietro i cespugli e i
tronchi degli alberi. Armando lo seguiva da vicino, tenendo un dito sul
grilletto del fucile. In breve i due cacciatori si trovarono presso una radura
erbosa, in mezzo alla quale si trovava una macchia di cornioli. Alzando lo
sguardo, il canadese s'accorse che l'aquila mirava a calare precisamente su
quel boschetto.
- C'è qualche preda là dentro
- mormorò. - Armando, state attento.
Dopo aver osservato, senza
però scorgere nulla, se poteva scoprire l'animale che si trovava nascosto, si
lanciò risolutamente nella piccola radura. Vedendo comparire il cacciatore,
l'aquila si rialzò rapidamente, lanciando un grido di collera, mentre dalla
macchia fuggivano a precipizio due piccoli animali le cui forme ricordavano
quelle dei daini.
- Ah!... Ah!... - esclamò
Bennie. - Il covo dei moose.
Puntò il fucile e lasciò
partire il colpo. Uno dei due moose fece un brusco scarto, e cadde
mandando un bramito di dolore, mentre l'altro si precipitava in mezzo ai larici
e alle betulle che circondavano la radura. Bennie ed Armando stavano per
precipitarsi sulla preda, quando un animale si scagliò fuori da un gruppo di
aceri rigati, caricando i due cacciatori a testa bassa, e minacciando di
passarli parte a parte con le lunghe e aguzze corna. Era un vecchio moose,
grande quasi quanto un cervo, con gli orecchi simili a quelli degli asini, le
labbra lunghe e cascanti, il collo corto e grosso, coperto da una fitta
criniera nerastra. Per nulla spaventato da quel primo sparo, il coraggioso
animale si lanciava innanzi, risoluto a vendicare la sua prole.
- Armando!... - gridò
Bennie. Attento!
Il giovanotto, invece di
gettarsi dietro a qualche tronco di albero, per evitare il pericolo di farsi
infilare da quel paio di corna acutissime, puntò il fucile, mirando l'animale.
Stava per far scattare il grilletto, quando il terreno gli mancò
improvvisamente sotto i piedi, e lo precipitò dentro una escavazione profonda
poco più di un metro.
- Bennie!... - gridò,
mentre la scarica partiva in alto.
Il moose non era
allora che a cinque o sei passi, e caricava alla disperata con la testa bassa.
Un momento di ritardo e le aguzze corna dell'inferocito animale si sarebbero
cacciate come due spade nel petto del giovane. Fortunatamente Armando non aveva
perduta la calma. Comprendendo che gli sarebbe mancato il tempo per uscire da
quella trappola - forse una trappola per prendere i lupi e i carcajou -
si abbassò bruscamente rannicchiandosi.
Il moose, che non
si era accorto della scomparsa del suo avversario, tanto doveva essere cieco
per la collera, continuò la sua corsa balzando sopra la buca e non si arrestò
che venti metri più avanti, guardando intorno a sè, stupito di non aver
atterrato il cacciatore. Intanto Bennie aveva ricaricato precipitosamente
l'arma. Vedendo Armando cadere in quella buca, apertasi sotto i suoi piedi, si
era rassicurato, sapendo di che cosa si trattava.
- Non temete amico!... -
Gridò.
Poi si lanciò incontro al moose.
Questi, scorgendolo non esitò. Riabbassò la testa e riprese la carica, mandando
un bramito soffocato. Il canadese lo attese intrepidamente poi, quando se lo
vide a quindici passi, lasciò partire il colpo. Il moose, certamente
colpito, si impennò rizzandosi sulle zampe posteriori, poi scosse violentemente
la testa, facendo cadere a terra una delle sue corna.
- Morte e dannazione!.. -
urlò il canadese, voltandosi precipitosamente e fuggendo a precipizio nella foresta.
La palla, per una rara combinazione, invece di cacciarsi nel cranio del moose,
aveva colpito un corno, spezzandolo di colpo, ma salvando l'animale. Reso più
furioso, l'indemoniato mangiatore dì legno si scagliò dietro al
cacciatore, stringendolo così da presso da impedirgli di ricaricare il fucile.
Armando non aveva avuto il tempo di accorrere in aiuto del compagno, tanto
quella scena si era svolta rapidamente. Quando potè uscire dalla trappola,
daino e cacciatore erano scomparsi in mezzo alla foresta. Caricò prontamente il
fucile e si gettò in mezzo alle piante, gridando a piena gola:
- Bennie!... Bennie!...
Nessuna voce rispondeva
alla sua, e nessun rumore si udiva nella foresta. Che cos'era dunque accaduto
del compagno e del suo inseguitore?...
Continuò a correre per una
buona mezz'ora, avanzando a casaccio, girando e rigirando in mezzo a quel caos
di tronchi e di cespugli, e sprofondando talora in mezzo ad ammassi polverosi
di vecchie piante cadute e imputridite; poi stanco, affamato, si arrestò. Dove
l'aveva condotto quella corsa? Si trovava presso il lago, presso
l'accampamento, o molto lontano da entrambi?... E di Bennie che cosa era
accaduto?... Era riuscito a sbarazzarsi del suo nemico o era stato ucciso da
quel tremendo corno?... Stava rivolgendosi quelle domande, quando in distanza
udì un colpo di fucile, che l'eco della foresta ripercosse lungamente.
- Bene!... - mormorò. - È
l'arma del canadese, non posso ingannarmi. Bennie si sarà liberato del moose.
Cerchiamo di raggiungerlo.
Ormai rassicurato sulla
sorte del suo coraggioso compagno, Armando, dopo essersi dissetato in una pozza
d'acqua limpida, si rimise in cammino immaginando di poter uscire facilmente da
quella foresta, però non doveva tardare a perdere le sue illusioni. Nulla è più
difficile che orientarsi in mezzo a una foresta vergine. Si crede di mantenere
una via diritta e invece si ripiega sempre o a destra o a sinistra, descrivendo
circoli più o meno grandi che riconducono a poco a poco, al medesimo punto o
nelle vicinanze. Non potendo avere alcun punto di riferimento, nè riuscendo a
scorgere sempre il sole, l'uomo si trova come un marinaio abbandonato in pieno
oceano. Armando doveva, in breve, fare una triste esperienza. Dopo aver camminato
per più di un'ora, con sua grande sorpresa si accorse di trovarsi nella zona
che aveva attraversato e notato tre quarti d'ora prima.
- Questo è strano!... -
esclamò. - Ho sempre camminato diritto, o almeno l'ho creduto, e ora rivedo
ancora questa pozza d'acqua che conserva le tracce delle mie scarpe. Come va
questa faccenda?... Che mi sia smarrito?...
Si arrestò alcuni minuti,
indeciso sulla via da prendere e in preda a viva inquietudine, poi si rimise
animosamente in cammino, cercando di dirigersi verso le rive del lago. Se
riusciva a giungere là, seguendo le coste, era certo di poter ritrovare i
cavalli e l'accampamento. In quella nuova direzione, la foresta, invece di
diradarsi, tendeva a diventare sempre più fitta. Armando camminò con lena
disperata tre lunghe ore, poi stanco, affamato e assetato, tornò a fermarsi
alla base di un pino enorme, che lanciava la sua vetta a ottanta metri dal
suolo.
- Mi sono smarrito -
disse. - È impossibile che da solo lasci questa dannata foresta.
Non avendo mangiato dal
mattino, si sedette sul tronco di un pino abbattuto, levò dalla tasca due
biscotti e si mise a mangiarli con grande appetito. Avrebbe preferito un bel
pezzo di cigno arrosto o di moose, ma per il momento si rassegnò. Avendo
visto, poco discosto, uno stagno, vi si diresse per dissetarsi. Già cominciava
a intravederlo attraverso i macchioni e i tronchi colossali dei pini, quando si
sentì piombare addosso una massa pesante che, per poco, non lo atterrò e che
gli confisse delle unghie nelle spalle. Con una rapida mossa si gettò da un
lato, chinandosi bruscamente, e si sbarazzò di quell'animale cadutogli addosso.
A tre passi vide una massa pelosa agitarsi al suolo, poi rizzarsi sulle zampe,
mandando una specie di grugnito per niente rassicurante.
Quell'animale, che lo
aveva assalito così audacemente, slanciandosi dai rami di un acero ricciuto,
era di forme tozze, robuste, lungo forse un metro e alto mezzo col collo corto,
le zampe basse, e una coda lunga mezzo piede. Il suo pelame lungo e ispido era
d'un bruno castano, con una specie di gualdrappa dorsale un po' più oscura e
orlata da una striscia molto più chiara.. Trovandosi dinanzi a lui, parve
sorpreso della sua stessa audacia, e invece di assalirlo subito, si mise a
indietreggiare, soffiando come un gatto in collera e mostrando i suoi lunghi
denti bianchi.
- O m'inganno, o questo
deve essere un ghiottone, - disse Armando, prendendo il fucile. - Veramente non
ho mai udito raccontare che simili animali osino assalire l'uomo. Che mi abbia
scambiato per un daino? O che mi sia caduto addosso senza volerlo?
Il ghiottone, poiché si
trattava proprio di uno di quegli animali continuava a indietreggiare,
mostrando sempre i denti e soffiando, mentre Armando lo minacciava con la canna
del fucile, cercando di mirarlo in un punto mortale. Tutto a un tratto la
fiera, comprendendo di essere perduta, con una mossa che mai si sarebbe
sospettata in un corpo così mal conformato, si rizzò sulle zampe posteriori e
si scagliò risolutamente sul cacciatore, aprendo i lunghi e robusti artigli.
Quell'attacco fu così
inaspettato, che Armando non ebbe il tempo di prendere la mira. Puntò a
casaccio il fucile e sparò precipitosamente. Afferrò il fucile per la canna,
non avendo il tempo necessario per ricaricarlo, e servendosene come mazza, percosse
con tutte le sue forze il muso dell'assalitore. Quantunque perdesse sangue in
abbondanza dalle mascelle fracassate, il ghiottone, pazzo di dolore e di
rabbia, s'aggrappò alle gambe del giovanotto, tentando di lacerargli le uose di
cuoio.
Una seconda mazzata, più
centrata della prima, che lo colpì proprio in mezzo al cranio, lo fece
finalmente cadere. Non era però ancora morto: si dibatteva disperatamente
tentando di rimettersi in piedi, agitando pazzamente le tozze gambe e mandando
sordi grugniti. Un colpo di fucile sparatogli a bruciapelo in un orecchio, pose
termine alla sua agonia.
- Non avrei mai creduto
che un animale così piccolo mi aggredisse, - disse Armando, avvicinandosi e
osservandolo curiosamente. - Mi hanno pur detto che sono così audaci da
assalire perfino le renne, però non sentii mai raccontare di uomini assaliti e
divorati dai ghiottoni.
Armando non si era
sbagliato. I ghiottoni, animali che abbondano nelle regioni settentrionali
dell'America, specialmente nell'Alaska e nei territori inglesi del Nord-Ovest,
quantunque siano dotati di una forza veramente straordinaria in relazione alla
loro mole, non osano assalire l'uomo. Se però risparmiano l'indiano e l'uomo
bianco, non indietreggiano dinanzi ai grossi animali. Sembrerà incredibile, eppure
osano assalire le alci e le renne, vincendole. Per ottenere una più facile
vittoria, si arrampicano su di un albero, si nascondono fra i rami, e quando la
preda passa a breve distanza, si lasciano cadere, lacerandole le vene del collo
con una rapidità prodigiosa. Essendo dotati di un appetito fenomenale,
distruggono una quantità enorme di selvaggina, non indietreggiando dinanzi ad
alcun pericolo, pur di riempirsi il ventre fino all'inverosimile. Affamati,
osano perfino entrare nelle capanne degli indiani per saccheggiarle. Con
tuttociò sono anche prudenti e difficilmente si lasciano cogliere nelle
trappole che i cacciatori scavano in gran numero per impadronirsi della
pelliccia di quegli animali, la quale si paga ordinariamente sino a dodici
dollari. Armando, non ignorando che la carne dei ghiottoni è sdegnata perfino
dagli indiani, quantunque si fosse ardentemente augurato un pezzo d'arrosto,
non volle servirsene, però non abbandonò la pelle, che gli poteva tornare utile
durante la notte. Con pochi colpi di coltello privò l'animale della sua
spoglia, se la gettò sulle spalle e riprese la marcia, con la speranza di poter
finalmente lasciare quella interminabile foresta. Dissetatosi nello stagno,
cercò di dirigersi nuovamente verso est, per arrivare sulle rive del lago, ma
dovette in breve convenire che avrebbe sprecato inutilmente le sue forze. Stava
per calare il sole quando si accorse di trovarsi ancora fra i gruppi di pini
che aveva già osservato cinque ore prima. Quella lunga e faticosa marcia non gli
aveva servito che per descrivere un altro circolo attorno allo stesso punto.
- Suvvia, - disse con
rassegnazione. - Bisognerà passare la notte nella foresta.
Si fermò dinanzi a un
grosso acero ricciuto per ricaricare il fucile, ma subito impallidì. La cartuccera
era vuota. Soltanto allora si ricordò che nel momento in cui era caduto davanti
al moose, sprofondando in quella trappola da lupi o da volpi, un certo
numero di cartucce per la violenza del salto, erano balzate fuori. Quella
scoperta lo spaventò.
- Che cosa farei se
incontrassi un orso?... - si chiese.
Si frugò nelle tasche, in
cui aveva l'abitudine di riporre qualcuna carica a pallottoni per la piccola
selvaggina, e ne trovò due.
- A qualcosa mi serviranno
- disse. - Cerchiamo di economizzare i miei due ultimi colpi, poi domani
tenterò di arrivare al punto dove il moose ci ha assaliti. Non osando
coricarsi a terra, si arrampicò, dopo reiterati sforzi, sul grosso tronco
dell'acero e si accomodò fra la biforcazione dei rami, per passarvi la notte.
La fame, però, che lo tormentava, non avendo mangiato che due soli biscotti,
gli impediva di chiudere gli occhi.
- Rimpiango il ghiottone -
disse, stringendo la cintola. - In mancanza di meglio quelle costolette,
fossero pure state coriacee e impregnate di selvatico, sarebbero servite.
Domani andrò a cercarlo, se i lupi non l'avranno già divorato.
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