XXIX
ATTRAVERSO L'ALASKA
Il forte Scelkirk si trova
sulla riva sinistra dell'Yucon, a poche miglia dal Mac-Millan, uno dei più
ragguardevoli affluenti del fiume. Come tutti gli altri che si trovano
disseminati a grandi distanze nell'Alaska e nei territori inglesi del
nord-ovest, è costruito con tronchi d'albero grossolanamente spianati, però
molto alti e piantati profondamente nel suolo, per potere, in caso di pericolo,
resistere agli assalti delle bellicose tribù indiane. L'interno si compone di
alcuni fabbricati di legno, con i tetti di zinco o di rame, alcuni usati come
magazzini o per gli oggetti di scambio o per le pelli acquistate dagli indiani;
gli altri servono di stanza ai cacciatori della compagnia americana e al loro
comandante. Bennie e i suoi compagni furono affabilmente accolti da quei bravi
cacciatori, ed ebbero premurose cure da parte di tutti. Primo pensiero del
canadese fu quello di chiedere se avessero avuto qualche buona scialuppa da
cedere, avendo intenzione di scendere l'Yucon fino a Dawson, ma ebbe purtroppo
un rifiuto. Il forte non possedeva che una sola baleniera, e il comandante non
poteva assolutamente cederla, dovendo servire a loro per attraversare il fiume.
Fu quindi deciso di arrestarsi alcuni giorni al forte per far riposare i
cavalli, poi di farsi trasportare sulla riva opposta, volendo evitare l'immensa
curva che l'Yucon descrive dalla foce del Mac-Millan a quella dello Stewart. Il
comandante, d'altronde, li aveva consigliati di conservare i cavalli, che erano
ricercatissimi a Dawson, dove i più malandati si vendevano a centinaia di
dollari. Le notizie, poi, giunte dalle miniere, erano sempre strabilianti, tali
da incoraggiare le speranze dei futuri minatori. Si diceva che nuovi filoni, di
una ricchezza favolosa, erano stati scoperti sulle rive del Klondyke, e che dei
cercatori d'oro, in poche settimane di lavoro, avevano realizzato fortune
straordinarie. Quelle liete notizie avevano tanto accesa la fantasia dei
cacciatori del forte, da indurli, per la maggior parte, a recarsi verso le
terre del prezioso metallo. Dei ventotto cacciatori che, pochi mesi avanti,
contava il fortino, diciassette erano partiti per il Klondyke, e il povero
governatore temeva che anche gli ultimi, un giorno o l'altro se ne andassero,
lasciandolo solo. Il Falcone e i suoi compagni rimasero quattro giorni al
forte, poi il quinto, acquistate altre vanghe, zappe, provviste di polvere e di
palle, essendo a corto di munizioni e nuovi vestiti e coperte, si facevano
trasportare sull'opposta riva, con i loro cavalli. La marcia fu subito ripresa
verso ovest, attraverso terreni difficili, in parte paludosi, cosparsi però qua
e là di piccole pianure irregolari, irte di gibbosità argillose e divise da
veri fiumicelli di fango. La vegetazione era scarsissima. Soltanto di tratto in
tratto, si scorgeva qualche gruppo di conifere, o di cedri dalla corteccia
giallastra o qualche macchia di cornioli. Anche la selvaggina era rarissima.
Per lo più non si vedeva fuggire che qualche moffetta o skunk, come
vengono chiamati dagli indiani quegli animaletti, lunghi circa quaranta
centimetri con una coda di lunghezza quasi eguale, il pelame nero lucidissimo,
attraversato sul dorso da una striscia biancastra. Non sono pericolosi, però,
se inseguiti, da alcune glandole spruzzano un liquido oleoso che manda un odore
così nauseante da far vomitare uomini e animali, e da far loro provare un
disgusto intollerabile per alcune settimane. Nemmeno i cani possono
sopportarlo, e fuggono urlando disperatamente. Marciavano da due giorni,
allontanandosi sempre più dall'Yucon per evitare la grande curva che si estende
dalla foce del Mac-Millan a quella dello Stewart, quando si trovarono in una
vallata rinchiusa tra aspre montagne, tagliate quasi a picco, dove si vedevano
biancheggiare, all'estremità di una specie di gola, delle masse enormi che non
si potevano ancora ben distinguere.
- Che cosa si trova
laggiù? - si chiese Bennie, trattenendo il proprio cavallo. - Guardate, signor
Falcone.
- Si direbbe che è
precipitata una foresta di alberi bianchi - disse il meccanico.
- Che siano piante
pietrificate? - chiese Armando. - Tu sai zio, che se ne sono scoperte
nell'Arizona.
- Ma no, non devono essere
alberi - disse Bennie.
- Si direbbero ossa
gigantesche - osservò Back.
- Sì, delle ossa, forse, -
mormorò il canadese. - Che la leggenda di Giorgio Hughes fosse vera?
- Chi era Hughes? - chiese
Falcone.
- Ve la narrerò poi;
andiamo a vedere, innanzi tutto, se sono piante o scheletri di animali
mastodontici.
Lanciarono i cavalli al
galoppo, e quindici minuti dopo giungevano all'entrata della gola. Là uno
spettacolo strano si offerse ai loro sguardi stupiti. In mezzo a una specie di
imbuto gigantesco, formato da un circolo di rocce altissime, si trovavano
ammucchiati centinaia e centinaia di scheletri mostruosi. Era un caos di
cestole, di denti smisurati, alcuni diritti, altri ricurvi e di un avorio più
candido di quello degli elefanti, di stinchi, crani, spine dorsali, zampe di
ogni forma e dimensione. Pareva che centinaia di esseri antidiluviani, chissà
per quale capriccio, si fossero trascinati in quell'imbuto per morire insieme.
Falcone, in mezzo a quell'ossario, potè benissimo distinguere parecchi
scheletri di cervi-elefanti, o meglio di sivathenum, animali
appartenenti a una razza scomparsa da parecchie migliaia di secoli, simili alle
alci nelle forme, però grossi elefanti, dalla testa ornata da quattro corna
immense, fantastiche e con il collo grosso quanto un tronco d'albero; di
mastodonti, altri animali di grandezza favolosa, della famiglia dei pachidermi,
sprovvisti però di proboscide e di zanne; di megaterii alti cinque metri
e lunghi sette, con zampe dalla circonferenza di due metri e mezzo ciascuna, e
il corpo difeso da grosse piastre ossee. Si scorgevano anche degli scheletri,
ben conservati, di dinoteri, specie affine ai mastodonti, con due enormi
zanne rivolte in basso come quelle dei trichechi, di una lunghezza esagerata, e
non pochi di mammouth, specie di elefanti di mole gigantesca.
- Quante ricchezze perdute
- disse Falcone, guardando quei denti smisurati che uscivano dall'ammasso di
scheletri e di ossa. - Qui ci sarebbe tanto avorio da diventare milionari,
senza bisogno di andare alle miniere del Klondyke.
- È vero, signore, - disse
Bennie. - Disgraziatamente ci sarebbero necessarie delle centinaia di cavalli e
di carri per trasportarlo, e non ne possediamo.
- E dei battelli a vapore
- aggiunse Armando.
- Deve essere qui che
Hughes ha fatto la sua fortuna - proseguì Bennie. - Credevo fosse una leggenda,
e ora mi accorgo che si tratta di una cosa vera.
- E chi era Hughes? -
chiese Falcone. - Si può finalmente saperlo?
- Un cercatore d'oro che
era stato raccolto, quasi moribondo, da alcuni indiani e adottato dalla tribù.
Egli aveva chiesto ai suoi protettori se c'erano delle ricchezze nell'Alaska,
ed essi, invece di condurlo alle miniere che allora non si conoscevano, lo
guidarono in un cimitero di animali antidiluviani. Aiutato dalla tribù, Hughes
fece raccolta di avorio, e dopo molti sforzi, riuscì a portare il suo carico
alla costa e ad imbarcarlo. Si dice che in tal modo guadagnasse molti milioni,
vendendo l'avorio negli Stati Uniti.
- Noi però non troveremmo
mai una tribù che si addossasse tale incarico - disse Falcone
- Purtroppo, signore. Avete
visto quale fortuna abbiamo avuto presso i Tanana. Lasciamo questo avorio ad
altri meno frettolosi di noi, e mettiamoci in marcia verso il paese dell'oro.
Tre giorni dopo giungevano
allo Stewart, tagliandolo a quindici miglia dalla foce. Lì fecero una fermata
per dare un po' di riposo ai cavalli. Esplorando i dintorni, per cercare della
selvaggina, Bennie e Falcone trovarono, in una piccola pianura, alcuni pozzi o claim,
scavati da qualche banda di cercatori d'oro. Esaminando le sabbie scavate,
rinvennero parecchie pagliuzze del prezioso metallo, ma in così scarsa
quantità, che non valeva la pena di raccoglierlo. Quella scoperta, tuttavia, li
rianimò.
- Cominciamo a percorrere
i terreni auriferi - disse Bennie. - Non so che cosa sia, ma comincio a provare
quell'emozione che fu giustamente chiamata, la febbre dell'oro. Chissà quanti
tesori e quante pepite sono nascoste sotto questi terreni quasi ancora vergini.
- Forse delle fortune
colossali - disse Falcone. - Si direbbe che la terra americana è impastata
d'oro e d'argento.
- E le miniere
dell'Alaska?
- Non si sa ancora
precisamente quanto possano rendere, ma ritengo che fruttino un numero ingente
di milioni di dollari, e che sempre più ne daranno.
- Che fortuna se potessimo
scoprirne una buona anche noi, signor Falcone.
- Se l'oro non scarseggia
per gli altri, troveremo anche noi qualche ricco filone, specialmente con i
mezzi che possediamo.
- Quali mezzi?
- Aspettate che siamo sul
luogo e vedrete che dalla grande cassa uscirà fuori uno strumento che gli altri
minatori probabilmente non hanno. Bennie, torniamo al campo; la selvaggina qui
non si fa vedere.
- Fortunatamente abbiamo
provviste sufficienti per arrivare a Dawson.
- È vero, Bennie.
Quella notte il canadese
non sognò che monti d'oro e claim di una ricchezza favolosa. Credeva
ormai di essere sulle rive del Klondyke e di scavare, a ogni colpo di zappa,
delle pepite enormi, del peso di parecchi chili, dei veri massi auriferi.
L'indomani partivano per
il distretto di Klondyke. Se avessero voluto, avrebbero potuto risparmiare
strada risalendo verso nord però non volevano lanciarsi nella regione aurifera,
senza prima aver fatte nuove provviste a Dawson, anche per avere notizie sulla
regione più ricca. Passato a guado il fiume Indiano, affluente di destra
dell'Yucon, rimontarono la riva del fiume, tagliando il Klondyke presso la sua
foce, e l'indomani, scorgevano le prime case di Dawson, varcando la frontiera
dell'Alaska.
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