XXX - UN
DUELLO FRA MINATORI
Dawson è situata quasi a
cavalcioni del confine dell'Alaska e dei possedimenti inglesi del nord-ovest. È
una città fondata da non molti anni, poiché prima del 1896, sul terreno che ora
occupa, non esisteva la più misera capanna. Solamente qualche orso o qualche
lupo si mostravano di quando in quando. Nel 1897 contava tre o quattro capanne
costruite con tronchi d'albero appena squadrati, ma la scoperta dell'oro e il
continuo accorrere dei minatori, in pochi mesi la ingrandirono. Nel luglio
dello stesso anno aveva più di seicento baraccamenti, rizzati alla meglio,
parecchie centinaia di tende, un ufficio postale, numerose case da giuoco e
bar, degli alberghi e una popolazione di tremilacinquecento abitanti. La città
prosperò subito e i suoi abitanti trovarono presto il modo di passarsela bene,
spennacchiando a dovere i ricchi minatori che tornavano dai placers carichi
di polvere d'oro o di belle pepite. Solamente gli albergatori andarono
in fallimento, quantunque quei galantuomini avessero trovato il modo di far
pagare prezzi proibitivi ai loro ricchi clienti. Un po' più tardi gli americani
aggiunsero alle misere baracche guazzanti in mezzo al fango e all'acqua
stagnante, un piccolo teatro, un ospedale e dei magazzini per l'Alaska
Commercial Company e per la North American Transportation and Trading
Company. Queste due compagnie di navigazione posseggono ora sette vapori,
che viaggiano sull'Yucon, quando questo fiume lo permette, essendo gelato otto
mesi dell'anno, e forniscono di viveri la città e trasportano continuamente
nuovi emigranti attratti dalla febbre dell'oro. Sembra però che i loro viaggi
non siano sempre felici: infatti, poveri diavoli che s'erano imbarcati su quei
vapori, corsero spesso il pericolo di morire di fame, come quelli del piroscafo
Bella, rimasto prigioniero dei ghiacci tredici giorni, con scarsissime
provviste a bordo. Falcone e i suoi compagni, attraversata la città, pensarono
di alloggiare in un albergo, volendo riposare alcuni giorni e rifare le loro
provviste, prima di partire per il Klondyke. Tutti insieme possedevano un paio
di migliaia di dollari, e poi contavano di sbarazzarsi di tre cavalli,
ricavandone qualche altro migliaio. L'albergo scelto, uno dei migliori,
consisteva in una lurida capanna a un solo piano, costruita con tronchi
d'albero, con una stanza per dormire, una sola che però si poteva dividere in
parecchie cabine sufficienti a contenere una persona, con delle portiere di
tela. Fu fissato il prezzo di due dollari a persona, senza il vitto; poi fu
ordinata una modesta colazione consistente in una zuppa di fagiuoli, in
un'anitra arrostita, un po' di formaggio e in una bottiglia di whisky. Totale:
venti dollari.
- Corna di bisonte!... -
esclamò Bennie. - Quest'albergo è una rovina!.. Se dovessimo restare qui un
paio di settimane, rimarremmo senza un dollaro.
- Ci rifaremo alle miniere
- rispose Falcone, ridendo.
- Bisogna però sbrigarci
ad andarcene, signore.
- Fra tre giorni ci
metteremo in viaggio.
Volendo prima vendere tre
cavalli, avvertirono l'albergatore della loro intenzione. Il brav'uomo, un yankee
puro sangue, si offerse di acquistarli al prezzo di mille dollari, pensando
forse che sull'affare avrebbe trovato modo di guadagnare qualche centinaio e
più di dollari. Accettato il contratto, pagò in polvere d'oro, essendoci
scarsità di dollari e di sterline, e regalò una bottiglia di birra, che
assicurava costargli tre dollari. Intascato il prezzo, e consegnati i tre
cavalli. Falcone e i suoi compagni si misero in moto per fare le loro
provviste, e per avere informazioni sui migliori terreni auriferi. Innanzi
tutto andarono a radersi la barba e ad accorciarsi i capelli, pagando due
dollari ciascuno, e fecero ferrare uno dei loro cavalli, che durante il lungo
viaggio era rimasto quasi senza ferri. Sbrigate quelle prime faccende,
cominciarono gli acquisti, provvedendosi di cinquecento libbre di farina, cento
di fagiuoli, centocinquanta di maiale salato, venti di thè, cento di zucchero,
trenta di caffè, cinquanta di lardo, centocinquanta di conserve; poi sale,
pepe, polvere, piombo, spendendo circa un migliaio di dollari. Fortunatamente
possedevano i due cavalli, altrimenti avrebbero dovuto ricorrere ai portatori
per farsi trasportare alle miniere quei viveri, ciò che sarebbe stata una vera
rovina.
D'altronde tutto costava carissimo,
e tutti si facevano pagare bene. Un operaio, a Dawson, non lavorava per meno di
venti dollari al giorno; un medico non si muoveva per una visita se non
riceveva prima quindici dollari. Quei diversi acquisti occuparono l'intera
giornata ai futuri minatori. Pranzato all'albergo, decisero di recarsi in una
delle tante case da giuoco dove si raccoglievano i cercatori d'oro, per
interrogarli sulla pista da prendersi e sulla ricchezza dei vari placers
disseminati sulle rive del Klondyke. Sapendo però che in quelle bische le risse
erano frequenti, si armarono prudentemente delle loro rivoltelle e dei loro bowie-knife.
- Non si sa mai cosa possa
succedere, - disse Bennie ai suoi compagni. - Anche nel Colorado, quantunque la
polizia americana tenesse gli occhi aperti, accadevano risse feroci, che
terminavano a colpi di rivoltella. Qui la polizia non esiste: sarà peggio
ancora.
Bar dove si giocava
sfrenatamente ce n'erano parecchi, però i nostri minatori decisero di entrare
nel più vasto, che portava per insegna il titolo attraente di Fiume d'oro.
Vi si spacciavano tutte le
bibite possibili e immaginabili e non era altro che una vasta tenda conica
sostenuta da un palo di dimensioni gigantesche, dipinto con i colori della
bandiera degli Stati Uniti. Numerosi tavoli fabbricati rozzamente, erano stati
collocati all'intorno, assieme con sgabelli, improvvisati con rami d'albero o
con vecchie casse di petrolio o barilotti segati a metà. Da un lato, invece,
giganteggiava il banco del liquorista, zeppo di rispettabili fiasconi e di
bottiglie che portavano dei cartelli variopinti, dove si leggevano i più
disparati nomi: Whisky, Gin del 1850, Brandy del 1882, Pale-ale. Ginepro di
Germania, Bordeaux di Francia, Vermouth di. Torino, Madera del 1830!!!...
Il barista, un pezzo di uomo da far invidia a un granatiere di Pomerania, forte
come un Ercole, con una barba rossa che gli giungeva fino al petto, e la
cintura armata di due grosse rivoltelle, troneggiava su un alto sgabello,
sorvegliando attentamente i clienti, mentre due negri giganteschi, con un
grembiule che un tempo doveva essere stato bianco, versavano senza posa quei
liquori scelti, fabbricati probabilmente dal loro padrone con chissà quali
miscele velenose e micidiali. Una trentina di minatori avevano occupati i tavoli.
Erano magri, sparuti, con barbe e capelli lunghi, che davano loro un aspetto
selvaggio, con le vesti stracciate, gli stivali sfondati, ma con le cinture
gonfie di polvere d'oro e di pepite. Quegli straccioni portavano addosso delle
fortune favolose. Nessuno era disarmato. Alla cintura avevano rivoltelle,
pistole, coltelli e qualcuno persino una scure per essere pronto a spaccare il
cranio al ladro che avesse osato allungare la mano verso la cintura piena d'oro
o uccidere chi avesse barato al giuoco.
Tutti bevevano
smodatamente, alternando grandi bicchieri di grog, tazze di whisky,
di gin, di brandy e punch fiammeggianti. Intorno a un
tavolo otto o dieci minatori, non meno stracciati degli altri giocavano ai
dadi. Dinanzi ad ognuno stava un mucchio d'oro in polvere o in granelli più o
meno grossi, e accanto erano bene in mostra rivoltelle e i bowie-knife.
Già esaltati dalle bevande
somministrate senza posa dai due negri del bar, con gli occhi ardenti per
l'ansietà e la febbre della vincita, con quelle lunghe barbe arruffate, i
lineamenti alterati dall'emozione, più che minatori parevano banditi pronti a
scannarsi alla minima contestazione. Nel momento in cui Falcone e i compagni,
dopo aver bevuto dei grog, s'avvicinarono al tavolo da giuoco, la
fortuna pareva stesse arridendo prodigiosamente a un giovane minatore di
venticinque anni. Quel preferito dalla sorte, spiccava stranamente fra tutti
gli altri. Era si un bel giovane, dai lineamenti energici, gli occhi neri e
vellutati, la carnagione un po' abbronzata, e le forme eleganti e slanciate.
Pareva un ispano-americano, forse un compatriotta di Back, avendo in capo un
ampio sombrero di feltro, adorno ancora di un gallone d'oro, un manga di
velluto a grossi bottoni di metallo, stretta da un'alta cintura di pelle, e
calzoni larghi. Mentre i lineamenti dei suoi compagni erano alterati, i suoi
conservavano una impassibilità assoluta. Fumava tranquillamente la sigaretta,
aspirando il fumo a intervalli misurati, e ritirava, senza che un muscolo del
suo volto manifestasse alcuna compiacenza, l'oro che vinceva.
- Ecco un uomo fortunato,
- disse Bennie, gettando uno sguardo sul mucchio d'oro che si trovava dinanzi
al giocatore. - A quest'ora deve aver vinto sei o settemila dollari.
Il messicano, udendolo, si
rivolse al canadese; poi gli disse sorridendo:
- Ottomila e quattrocento,
Caballero.
- Una bella somma,
signore.
- Che forse mi costerà
cara, - rispose il messicano, guardando sottecchio i suoi compagni di giuoco. i
cui volti avevano assunto una espressione selvaggia. - La fortuna è talvolta
pericolosa nell'Alaska.
Uno dei giocatori, un uomo
basso, tarchiato, con un dorso da bufalo e una foresta di capelli rossi, alzò
vivamente il capo e gettò sul fortunato vincitore uno sguardo bestiale, dicendo
con voce rauca, sibilante:
- Che cosa volete dire, gentleman?
- Io? Nulla, - rispose il
messicano.
- Mi sembra che, oltre a
derubarci, ci prendiate in giro.
A quelle parole il
messicano impallidì, allungando rapidamente una mano sul bowie-knife,
poi disse:
- Avete detto derubarvi, è
vero?
- Sfido chiunque a provare
il contrario.
- Voi mentite,
furfante!...
- Mi appello a tutti i
giocatori.
- Che parlino, dunque!...
I minatori si limitarono a
rispondere con un grugnito, che non rappresentava nè una affermazione, nè una
smentita. Uno però scosse il capo, dicendo seccamente.
- No.
- Io ho guadagnato
onestamente - disse il messicano. - Se è la collera per aver perduto che vi fa
girare la testa, riprendete il vostro oro, buffone!...
Il californiano - doveva
essere tale il suo avversario, a giudicare dall'accento - alzò sdegnosamente le
spalle, dicendo:
- Non è l'oro che
rimpiango: dico solamente che voi siete un ladro!...
Bennie, che si trovava
vicino al messicano, appoggiò le mani sulla tavola, dicendo:
- Io dico, gentleman,
che v'ingannate. È un quarto d'ora che io ed i miei compagni assistiamo al
giuoco, e affermo che questo giovanotto ha giuocato lealmente.
Il californiano gettò sul
canadese uno sguardo feroce, dicendo:
- Di che cosa vi immischiate,
voi che non avete ancora giocato un dollaro? Gli spiantati non hanno parola a
una tavola da giuoco.
- Ehi, mio caro, bada di
non prendere un tono troppo alto con me o ti demolisco come un cavallo di legno
- gridò Bennie.
Il giovane messicano s'intromise:
- Caballero, grazie
del vostro intervento, - disse, ritirando l'oro e versandolo in un sacco di
pelle. - Lasciate a me la cura di dare una lezione a quel gradasso.
- A me gradasso!... - urlò
il californiano, facendo balzare la tavola sotto un pugno formidabile. - Vi
uccido come un ladro!...
Ciò detto, impugnò la
rivoltella che teneva dinanzi a sè, puntandola sul messicano; però gli mancò il
tempo di mettere in esecuzione la minaccia. L'erculeo barista, prevedendo un
alterco, aveva abbandonato precipitosamente il suo banco, e allungando
prontamente la destra aveva afferrato il polso del californiano, stringendolo
con tale forza da far cadere l'arma. Furibondo per quell'intervento
inaspettato, il minatore si volse, digrignando i denti come una belva, il
barista non gli lasciò il tempo di pronunciare una sola parola. L'afferrò per
il colletto, come se si fosse trattato di un bamboccio, e scuotendolo
ruvidamente gli disse:
- Battersi sì; assassinare
no, nel mio bar, gentleman. O agite da galantuomo, o vi
scaravento fuori, con una pedata.
- Voglio il suo sangue!...
- urlò il californiano, rosso per la rabbia.
- Caballero,
lasciate andare quel coccodrillo sdentato, - disse il messicano. - Se desidera
una lezione, sono pronto a dargliela.
- A me una lezione!... -
vociò il minatore.
- A te, buffone.
- Ti farò a pezzi con due
coltellate!... -
- Ti aspetto.
- Ah!... Mi sfidi!...
- Certamente!...
- Il mio bowie-knife!....
Un minatore suo
compatriotta fu pronto a porgerglielo.
Il messicano, dal canto
suo, aveva fatto tre passi indietro, spostando i tavoli per farsi un po' di
largo. Back, vedendo che impugnava un bowie-knife, si levò dalla cintola
la navaja, un solido coltello dalla lama acuta e lunga un buon piede,
l'aprì con un colpo secco, e glielo porse, dicendogli:
- Questo vale molto più
dell'altro, per noi messicani.
- Grazie, Caballero,
- rispose il giovane con un sorriso. - La navaja, è migliore.
Aveva appena impugnato
l'arma, quando tre o quattro spari rimbombarono bruscamente. Il californiano,
fingendo di curvarsi per raccogliere qualcosa, aveva impugnata rapidamente la
rivoltella caduta a terra, e aveva fatto fuoco sul suo avversario.
Fortunatamente, nella fretta non aveva mirato, e le palle erano andate a
colpire due fiaschi di brandy, spezzandoli di colpo. Il messicano,
sfuggito miracolosamente a quella scarica, si era scagliato sopra la tavola da
giuoco, brandendo la navaja, ma ormai il californiano era sparito
assieme ad alcuni suoi amici, che gli avevano protetta la ritirata, mandando
all'aria alcune tavole.
- Canaglia!.., - gridò il
messicano. - Ti ritroverò!...
- Lasciate che vada a
farsi appiccare altrove, Caballero, - gli disse Bennie. - Badate invece
che non vi tenda un agguato per derubarvi dell'oro che avete guadagnato.
- Di questo sono certo,
camerata - rispose il giovane, con una certa apprensione.
- Fortunatamente noi
apriremo gli occhi.
- Volete farvi uccidere al
mio posto?
- Bah!... Non siamo uomini
da perdere la pelle così facilmente, Caballero.
- Perdonate, senor, siete
minatore?
- Non ancora.
- Siete giunti da poco?
- Stamane.
- Col piroscafo della North
American?
- No, veniamo
dall'Alberta.
- Carrai!.... A
cavallo?
- Sì, Caballero.
- Un viaggio lunghissimo.
- E pericoloso,
soprattutto.
- E siete venuti a cercare
l'oro?
- Questo è il nostro
progetto.
- Avete già lavorato nelle
miniere?
- Il mio compagno Back e
io siamo vecchi minatori.
- E non conoscete ancora
il Klondyke?
- No, Caballero.
- Allora spero di farvelo
conoscere io, signori; offro un punch. Non mi farete il dispiacere di
rifiutarlo.
Pochi minuti dopo, Bennie,
i due messicani e i due italiani si trovavano seduti attorno a un fiammeggiante
punch, e si scambiavano le loro confidenze. Quel giovane messicano, don Pablo
Carrea, nativo di Mazatlan, era giunto nell'Alaska undici mesi prima, lavorando
nei placers del Bonanza e del Barca, affluenti del Klondyke, insieme con
alcuni tedeschi e inglesi, e guadagnando moltissimo. Ammalatosi a causa delle
continue fatiche e delle privazioni, era stato costretto ad abbandonare le
miniere e a ritornare a Dawson, quando la fortuna cominciava largamente a
compensare la società. La malattia, e soprattutto il medico, avevano divorato
la maggior parte dell'oro che, con tanta fatica, aveva strappato alla terra, e
ora, completamente guarito, aspettava la partenza di qualche gruppo di minatori
per tornarsene al Klondyke.
- Se riesco ad andare
lassù, fra quei terreni auriferi, tornerò ricco come un creso - concluse il
giovanotto.
- Sapete dove si trova
qualche ricco filone? - chiese Falcone.
- Sì - rispose il
messicano con un filo di voce.
Si guardò intorno per
vedere se qualcuno dei bevitori ascoltava le sue parole, poi curvandosi verso i
suoi amici, disse:
- Da un minatore canadese,
a cui una sera salvai la vita, e che ora è morto, ucciso in una rissa, mi è
stato indicato un luogo dove l'oro si trova quasi a fior di terra, in pepite
grossissime. Noi andremo a sfruttare quel placer, se volete unirvi a
me.
- È molto lontano quel
posto? - chiese Falcone.
- Si trova plesso le
sorgenti del Barem, ai primi contrafforti del monte omonimo. La località mi è
stata descritta così minuziosamente che non potrei ingannarmi. Due cascate, tre
picchi aguzzi, e la sorgente nel mezzo.
- Siamo pronti a seguirvi
- disse l'italiano.
- E io accetto la vostra
compagnia, - rispose il messicano. - In questi pochi minuti ho avuto il tempo
di apprezzarvi, Caballeros, e sarò lieto di dividere con voi quei
tesori. Dove siete alloggiati?...
- Da un certo Calkraff, -
disse Bennie.
- Lo conosco. Avete fatto
i vostri preparativi.
- Tutto è pronto; non ci
manca che caricare i due cavalli.
- Ah!... Voi avete due
cavalli? Ci saranno d'immensa utilità, anch'io ne ho comperati due, essendo il
Barem un po' lontano.
- E possediamo anche uno sluice,
- disse Falcone.
- Uno sluice... -
esclamò il messicano, con gioia. - Allora in due mesi noi saremo ricchi come
nababbi. Caballeros, partiamo, e domani all'alba lasceremo Dawson.
- Un momento, signor
Pablo, - disse Bennie. - Volete un consiglio?
- Parlate.
- Venite a dormire con
noi: quel californiano è capace di attendervi in qualche luogo e uccidervi a
tradimento.
- È vero, - disse il
messicano, ridendo. Quel furfante di James Korthan non aspetta che una
occasione per mandarmi all'altro mondo.
- Lo conoscete?
- È un furfante della
peggior specie, che mi odia ferocemente, e cerca tutti i modi per vendicarsi.
- E di che cosa?
- Del rifiuto di averlo
come compagno. Una sera ho commesso l'imprudenza di raccontargli che conoscevo
un ricchissimo placer situato sul Barem. Mi propose di associarlo, io
invece rifiutai, conoscendolo come persona pericolosissima. Da quel momento
divenne il mio più mortale nemico.
- Bisogna guardarsi da
quell'uomo, - disse Bennie. - È capace di seguirci fino alle sorgenti del
Barem, per poi giocarci qualche brutto tiro.
- Lo temo anch'io, Caballeros.
- Partiremo di notte, e
cercheremo di nascondere a tutti la nostra direzione. Andiamo e teniamo pronte
le rivoltelle.
Il messicano pagò il punch,
si mise nella cintura l'oro guadagnato, poi uscirono tutti e cinque, tenendo
nella destra le armi da fuoco.
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