CAPITOLO SESTO: IL
MAGNETIZZATORE.
Aspettavano da quasi un'ora,
essendo il rifugio dei paria assai lontano, quando
videro ricomparire il baniano e gli sikkari tutti carichi come muli di vecchi
tappeti.
«Altezza», disse il cacciatore di
topi che precedeva i quattro sikkari, «ecco la salvezza». Yanez lo guardò e
sorrise beffardamente. «È questa la scala che getterai attraverso il fiume?»
«Sì, altezza. Io ho ben notato
che le acque sono estremamente pesanti, impregnate come sono di sabbie e di
rifiuti d'ogni specie che le piccole cloache conducono fino qui». «E che cosa
speri tu?»
«Che gettando dinanzi a me
tappeti e tappeti, e fuggendo sempre, di poter raggiungere la scala e
rigettarla fra le due banchine. Peso assai poco io, e quantunque non sia più
giovane, posseggo ancora una straordinaria agilità». «E se le acque ti
assorbono?»
Il baniano si passò una mano
sulla fronte come per tergere delle stille di freddo sudore, ma poi, crollando
le spalle, rispose: «O tentare o morire tutti. A corte sanno che vi siete
recato qui?»
«Sì» rispose Yanez, «ed hanno
ordine di mandare in mio soccorso dei rajaputi se avessi
tardato a ritornare».
«E si smarrirebbero, Altezza.
Senza una guida, qui non si può camminare con piena sicurezza». «Prova a
gettare un tappeto».
Il baniano ne prese uno dei più
fitti e lo slanciò sulle pigre acque. Come aveva previsto, avrebbe potuto
servire almeno per qualche momento come di tavola di passaggio, poiché le
sabbie ed i detriti d'ogni sorta lo sostenevano quasi come se fosse una
barchetta.
«Io non avrei mai avuto una tale
idea» disse Yanez. «Ora io credo il passaggio possibile per colui che dovrà
gettarci la scala».
«E sarò io, Altezza, che sono il
meno pesante di tutti, che saltellerà sui tappeti. Sarà necessario che i vostri
uomini mi aiutino». «Gettando tappeti dinanzi a te finché potranno?» «Sì,
Altezza: poi ci penserò io». «Tu sei un coraggioso e ti raddoppio la paga».
«Volete fare di me un piccolo rajah?» «Chissà, vedremo».
Gli sikkari con Kammamuri e
Tremal-Naik si allinearono sulla banchina pronti ad
aiutare il brav'uomo, che per salvarli si esponeva ad un gravissimo pericolo.
Una calata fra quelle acque che forse, pur essendo densissime, potevano essere
egualmente assai profonde, non era cosa da tentare tutti. Il cacciatore di
topi, sempre tranquillo, si gettò sulle spalle sette od otto tappeti dei più
spessi per servirsene più avanti, poi scese la riva osservando nuovamente le
acque. Solamente in quel momento il tappeto che era stato gettato mezzo minuto prima, cominciava ad affondare a pochi metri di
distanza. «Ti senti il coraggio?» gli chiese Yanez.
«Sì, Altezza. Io sono sicuro di
raggiungere la scala e di arrampicarmi sull'altra banchina. Sono pronti gli
sikkari?» «Non aspettano che te».
Tre o quattro tappeti volarono
dinanzi al baniano, stendendosi mollemente sulle torbide acque. «Via!...» gridò Yanez, preparandosi ad
aiutare i suoi uomini.
Il cacciatore di topi balzò sul
primo tappeto, mantenendosi perfettamente in equilibrio. Gli sikkari
continuavano intanto a lanciarne altri, con un'abilità veramente prodigiosa. Si
sa, d'altronde, che tutti gli indiani sono, più o meno, giuocolieri e che
posseggono un colpo di mano stupefacente. I thugs insegnino. Il baniano
continuava a saltellare come un gigantesco topo, badando di cadere più
leggermente che gli era possibile. Quando i tappeti degli sikkari non poterono
più giungergli, allora adoperò quelli che aveva portati con sé e che, come
abbiamo detto, erano i più fitti.
La scala lasciata cadere dai
paria nella loro fuga precipitosa, non era lontana che tre o quattro metri, ben
poca cosa per quel saltatore inarrivabile. Lanciò uno dietro l'altro i suoi
tappeti, badando che cadessero ben aperti, perché opponessero alle acque
fangose una breve resistenza, e si slanciò nuovamente balzando come un vero
canguro.
Con un ultimo e più impetuoso
slancio piombò sulla scala, una estremità della quale
era rimasta appoggiata alla banchina, tirò il fiato, guardò i tappeti che ormai
cominciavano a tuffarsi e la salì colla sveltezza d'una scimmia. «Bravo!...»
gridarono Yanez e Tremal-Naik.
Gli sikkari e Kammamuri, non meno
entusiasti dei loro padroni, lanciavano pure delle grida, facendo rimbombare la
volta del fognone, ed i molossi, per fare anche loro qualche cosa, ringhiavano
contro il prigioniero, badando bene che non si allontanasse.
Il baniano, raggiunta la
banchina, ritirò la scala, la issò tutta, cosa facilissima, essendo di bambù
leggero, e la lanciò attraverso il fiume nero. Il ponte era pronto e proprio
nel momento che l'ultimo tappeto spariva nella melma pestilenziale,
avvolgendosi su se stesso. Anche questa volta furono i molossi che passarono
pei primi. «Kammamuri, bada al bramino!...» gridò Yanez. «Non lo lasciar cadere». «Siamo in sette pronti
a trattenerlo» rispose il maharatto.
Il prigioniero ebbe un moto di
ribellione, sentendosi spingere innanzi, trattenuto solidamente colla catenella
d'acciaio.
«Voi mi volete affogare dentro
quella gora fangosa!...» gridò,
cercando di retrocedere.
«No, mio caro, noi vogliamo
invece portarti al palazzo reale» rispose il portoghese. «Tu sei un uomo troppo
prezioso per lasciarti morire. Passa o sparo!...» «Preferisco un colpo di fucile».
«No, no!...
I morti non possono più parlare, mentre tu, che sei ancora vivo, devi
raccontare a noi tante cose più o meno interessanti». «Sparami!...» urlò il paria, digrignando i
denti. «Io cerco la morte». «Salta nel fiume fangoso allora». «Ah, no, Altezza!... Credo che nessuno ne avrebbe il coraggio».
«Eppure, come hai veduto, quel
semplice cacciatore di topi ha sfidato la corrente». «Io non sono un baniano».
«Sei peggio di lui, un paria!»
gridò Yanez impazientito, afferrandolo per la fascia di seta che gli stringeva
la lunga sottana. «No, sono un bramino!» protestò il prigioniero. «Sì, come lo
sono io. Séguimi, o ti faccio portare dai miei sikkari».
Il disgraziato, vedendosi ormai
perduto, si avanzò sulla scala preceduto dal
portoghese e seguito da Kammamuri che teneva ben stretta la catena.
Quando furono nel mezzo del fiume
puzzolente, il paria, quantunque avesse le braccia ben legate dietro il dorso,
tentò di scattare per giungere primo alla banchina, senza pensare che vi era là
pronto il baniano, come vi erano pure i molossi.
Un poderoso pugno che per poco
non gli fece perdere l'equilibrio, somministratogli dal maharatto in pieno
dorso, lo persuase della inutilità dei suoi sforzi. Si mise a saltare i
gradini, guardando bene dove metteva i piedi, per paura di seguire i tappeti, e
cadde finalmente fra le braccia del cacciatore di topi bene allargate per
riceverlo.
«Ecco un uomo che ci darà da fare
se vorremo farlo parlare» disse Yanez a Kammamuri. «Ma no, signore. Io lo
renderò più docile d'un capretto, ve l'assicuro». «Hum!...»
«Vedrete!... Datemi una cantina e due arghilah. Io non
domando altro». «E questo furfante parlerà?»
«Meglio d'un pappagallo
ammaestrato, signor Yanez. Voi già sapete che noi maharatti siamo famosi per
torturare i prigionieri di guerra». «Siete anche troppo feroci». «No, se
parlano, si lasciano andare. Che cosa possono desiderare di più?»
Gli sikkari erano giunti guidati da
Tremal-Naik. Rovesciarono la scala nella fogna puzzolente, si presero in mezzo
il paria, e si slanciarono sulla banchina che doveva condurli alla luce ed
all'aria pura.
Marciavano da cinque o sei
minuti, spingendo continuamente il prigioniero, il quale tentava di apporre
delle continue resistenze, quando videro altre lampade avanzarsi. Erano venti o
venticinque, schierate su due file. «Chi va là?» gridò Yanez, facendo
rintronare le volte colla sua voce sonora. «Rajaputi del maharajah «risposero
parecchie voci. «Non fate fuoco!...» «Ed io sono il
maharajah in persona».
Un gran grido di gioia echeggiò
fra gli uomini che si avanzavano, e che dovevano essere stati mandati
certamente dalla rhani affinché le riconducessero lo SpOSO.
Quei salvatori, ormai troppo
tardivi, erano venticinque rajaputi guidati da un ufficiale, splendidi tipi di
soldati, dai lineamenti fieri e assai caratteristici, con i visi assai barbuti.
Somigliano ai cosacchi della Russia, e come quelli sono abilissimi cavalieri e
nessuno li supera nel maneggio della lancia.
«Altezza» disse l'ufficiale,
salutando colla scimitarra, «La rhani è inquieta e ci
ha mandati a cercarvi. Si temeva che vi fosse successa qualche disgrazia».
«Nessuno vuole prendersi la briga
di portarsi via la mia pelle» disse Yanez. «È successo qualche nuovo
avvelenamento? Vorrei sperare di no».
«Il palazzo era troppo guardato
perché qualcuno osasse avvicinarsi e tentare qualche cosa».
«Allora possiamo andare a cenare.
Tutti abbiamo una gran fame, dopo tante marce e contromarce».
«Presso l'uscita della fogna vi
sono quattro ratt tirati da zebù scelti che in un momento vi porteranno al
palazzo reale». «Non ci aspettavamo tanto. In cammino, e gli occhi sempre
addosso al bramino».
Percorsero velocemente l'ultimo
tratto della banchina e sbucarono presso la vecchia moschea decapitata.
Quattro ricche carrozze, chiamate
dagli indiani ratt, assai eleganti, sormontate da leggère cupole dorate,
contornate inferiormente da tende di seta azzurra e tirate ognuna da quattro
piccoli buoi corridori, tutti bianchi, gibbosi, e colle corna dorate,
aspettavano Yanez ed i suoi compagni. Erano le due del mattino e la città
dormiva profondamente. Anche le lampade a olio, un gran lusso per gli assamesi,
che mai prima avevano potuto apprezzare i vantaggi della illuminazione
notturna, stavano per spegnersi.
Yanez con Tremal-Naik salì sul
primo ratt, gli altri si accomodarono sui tre che venivano dietro, poi i zebù partirono a corsa sfrenata, senza aver bisogno di
essere eccitati dai loro conduttori che erano armati di pungoli. La traversata
della popolosa città fu compiuta in brevissimo tempo, ed i quattro equipaggi,
verso le due e mezza del mattino si arrestavano dinanzi all'imponente palazzo
del maharajah dell'Assam.
Yanez lasciò gli
sikkari a guardia del suo appartamento ed entrò nel gabinetto, sempre
illuminato, insieme con Tremal-Naik, a Kammamuri, al cacciatore di topi ed al
prigioniero.
Surama vi era già, vestita d'un
lungo accappatoio di seta bianca con leggerissimi ricami in argento.
«Ah, mio signore!...» gridò, muovendo
sollecitamente incontro al portoghese. «Tu hai giurato di farmi sempre
tremare».
«Mia cara», rispose Yanez,
«questa volta non si è trattato d'una partita di caccia, bensì di affari di
stato. Sai che siamo riusciti a scovare l'avvelenatore dei nostri ministri?
Guarda un po' questo bel tipo che si ostina a spacciarsi per un bramino, mentre
per me non deve essere che un miserabile paria». «Che sia proprio lui, Yanez?»
«Lo abbiamo riconosciuto. Ora ci
dirà per conto di quali persone agiva. Qui sotto c'è
un mistero che noi dobbiamo chiarire».
Surama aveva fissati i suoi occhi
in quelli del bramino e si sentì prendere subito da uno strano malessere.
Abbassò le palpebre ma le parve di vedere ancora gli
occhi fosforescenti del prigioniero carichi certamente di qualche potente
fluido magnetico. Allora si alzò e si avvicinò a Yanez, dicendogli: «Lascia che
mi ritiri, mio signore, quell'uomo mi fa troppa paura». «Paura di che cosa, se
sei in mezzo a noi, mia piccola rhani?» «Dei suoi occhi».
Il portoghese guardò il
malandrino, e vide che i suoi sguardi, sempre fosforescenti come quelli d'una
tigre, seguivano dappertutto Surama.
«Alto là, bandito!...» gridò, precipitandosi verso
di lui colle pugna strette. «Guarda ancora mia moglie e ti spezzo le ossa».
Poi volgendosi verso Surama, che
appariva come in preda ad un vago spavento, le disse:
«Va' a riposarti, mia piccina, e
lascia a me ed ai miei uomini sbrigare questa oscura faccenda».
Attese che Surama si fosse ritirata, da due giovani paggi fece portare della
carne fredda, della selvaggina arrostita, delle frutta con un pudding di
proporzioni monumentali, e si sedette alla tavola rotonda.
Kammamuri aveva intanto
incatenato per bene il prigioniero alla poltrona sulla quale era stato costretto
a lasciarsi quasi cadere, mettendogli per maggior precauzione ai due lati i
molossi del Tibet sempre ringhianti e di cattivo umore.
Il cacciatore di topi, che non
osava cenare col maharajah, si era seduto su un'altra poltrona che stava dietro
a quella del bramino. I quattro uomini, poiché anche il bravo bramino non era
stato dimenticato, mangiarono in fretta pochi bocconi, in silenzio, in preda a
molte preoccupazioni, poi il portoghese, che non aveva offerto al prigioniero
nemmeno un bicchiere di birra, accese la sigaretta, si
rovesciò sulla larga e comoda spalliera, accavallò le gambe e disse:
«Ora qui si deve giuocare a carte
scoperte, signor sacerdote di non so quale divinità. Ricòrdati che non siamo
più nelle cloache e che non potrai avere alcun aiuto dai tuoi compagni, quei
famosi cacciatori di coccodrilli assai sospettosi, e che forse domani farò
arrestare tutti nella laguna dai miei rajaputi».
Il viso del prigioniero rimase
assolutamente impenetrabile; solamente la strana fiamma magnetica che alimentava
i suoi occhi parve diventare più intensa.
«Tu dunque», proseguì Yanez, che
subiva tranquillamente quelle occhiate che tanto avevano spaventata la rhani
«ti ostini ancora a farci credere di essere un bramino, anziché un miserabile
paria?» «Mio padre possedeva una pagoda» rispose il prigioniero. «Dove?» «Sulle
rive del terribile lago di Jeupore, sempre pullulanti di coccodrilli». «E
perché sei venuto nella mia capitale?» «Volevo visitare l'India intera, sahib».
«Trascinandoti dietro quei trenta
o quaranta esseri impuri che nessun bramino oserebbe avvicinare, anche se fosse
in punto di morte?» «Potreste ingannarvi sul loro vero essere, sahib».
«Un paria si conosce ad un miglio
di distanza, e poi hanno dei volti che non rassomigliano affatto a nessun
indiano anche di bassa casta, come il sudra. Non giuocare con me. Governo da un
bel pezzo l'India e conosco le sue diverse popolazioni, e ti ripeto che un
bramino non avrebbe mai osato mangiare in compagnia
d'un impuro. Si sarebbe piuttosto lasciato morire di fame. Che cosa hai da
rispondere?»
«Che quegli uomini che abitavano
le cloache non erano dei paria, ecco tutto» rispose il prigioniero, continuando
a dardeggiare su Yanez sguardi sempre più carichi di magnetismo.
«Socchiudi quelle palpebre, e se
vuoi guardare, guarda in terra od in alto» disse il portoghese, il quale
cominciava ad allarmarsi. «Se credi di ipnotizzarmi per ordinarmi poi di farti
sciogliere le catene ed aprirti le porte, t'inganni, avvelenatore dei miei
ministri».
Il bramino alzò le spalle e guardò
altrove, mordendosi fortemente le labbra, forse seccato che si fossero accorti della straordinaria potenza del suo sguardo.
«Continua, Yanez» disse
Tremal-Naik, il quale aveva accesa una grossa pipa che aveva del narghilè.
«Vediamo fino a quando cercherà d'ingannarci
quest'uomo».
«Non caveremo nulla dalla sua
bocca senza i grandi mezzi di Kammamuri» rispose il portoghese. «Tentiamo una
prova. Slegatelo e conducetelo nella sala dove si trova ancora la sua vittima».
«Quale?» chiese il bramino con un sorriso quasi insolente. «Lo accoppo con una
bottiglia di birra!...» gridò
il maharatto.
«E poi? Addio segreto, mio bravo
Kammamuri. No, quest'uomo deve vivere e confessare, e a questo devi pensarci
tu».
«Ero ancora giovane, signor
Yanez, eppure mi ricordo ancora bene come i miei compatrioti trattavano le spie
degli inglesi. Nessuna poteva resistere, ed anche questo brigante, venuto
chissà da quali regioni, non rimarrà a lungo zitto. Una cantina e due arghilah
e saremo a posto».
«Sotto il palazzo ci sono dei sotterranei
in quantità. Non avrai che da scegliere».
Il bramino si era lasciato
liberare dalla catena, però per la prima volta parve un po' scosso, ed un
fremito strano percorse il suo viso assai bruno. Lo afferrarono pei polsi e lo
trascinarono fino nella grande sala dove il primo ministro, vegliato da una
mezza compagnia di superbi rajaputi, dormiva il sonno eterno.
Il veleno cominciava a produrre i
suoi effetti. Gli occhi del disgraziato, orribilmente spalancati e iniettati di
sangue, pareva che da un momento all'altro dovessero schizzare via. I
lineamenti erano spaventosamente alterati, mentre invece le carni conservavano
ancora una relativa freschezza.
«Ecco l'uomo che tu hai
avvelenato» disse Yanez, afferrando pel collo il bramino e costringendolo a curvarsi
sul cadavere. «Ecco l'opera dei bis cobra. Distillano un veleno terribile quei
brutti lucertoloni. Non l'avrei mai creduto».
«E chi è che ha somministrato a
quest'uomo il veleno? Bisogna cercarlo prima d'incolpare me. E poi chi dice che
il veleno del bis cobra sia mortale?» «Ne hai qui una prova».
Tremal-Naik si avvicinò al
piccolo ed elegante mobile sul quale si trovava ancora la bottiglia della
limonata, la prese e tornò verso il bramino, il quale conservava sempre una
calma straordinaria, incredibile. «Berresti tu questo veleno?» gli chiese.
«Bada che è bava del bis cobra». «Che io ho messo là dentro?» «Sì» affermò
Yanez. «Ti hanno veduto vuotare una fiala». «Chi?» «Lo sappiamo noi e basta».
«E questo è veleno?» «Ha ammazzato l'uomo che hai dinanzi agli occhi». «Chi ve
lo ha detto, sahib?» «I miei ministri». «Si sono ingannati. Questo non è
veleno».
Strappò con violenza la bottiglia
dalle mani di Tremal-Naik, e tentò di trangugiare la sostanza rossa per
sottrarsi alle torture che si aspettava, ma Yanez e Kammamuri furono pronti ad
impedirglielo.
«Niente di questi scherzi» disse
il primo, scaraventando il vetro contro la parete. «Per ora basta un morto nel
mio palazzo. Non ne desidero affatto due».
«Io vi avrei dimostrato che
quello non era veleno», disse il bramino, «e che domani sarei stato più vivo di
prima».
«Allora tu sei un incantatore di
rettili, un sapwallah, altro che un bramino!...» disse Yanez. «Si sa che quelle persone possono sfidare
impunemente i morsi dei cobra anche senza morire e bere veleni. Non avevi forse
tu nascosto nella tua veste un serpente del minuto, uno dei più pericolosi che
esistano, e che non perdonano?» «Non ce l'avevo messo
io» rispose l'ostinato.
«Tu perdi inutilmente il tuo
tempo, Yanez» disse Tremal-Naik. «Quest'uomo è più forte di quello che
crediamo, e se è Sindhia che lo ha scelto, quel pazzo alcolizzato non si è
sbagliato. Questo vale il greco che ci ha dato tanto da fare qui e poi anche
nel Borneo, e che era la sua mano destra. Ti ricordi quel bravo Teotokris?»
«Per Giove!...
Mi pare di vederlo ancora scoppiare come una rana gonfia di tabacco. Questo
Sindhia ha fortuna nel cercarsi i i suoi malandrini.
Orsù, che cosa facciamo qui dinanzi a questo morto?» «Ordina: noi tutti siamo
pronti a obbedirti».
«Che Kammamuri e il baniano
vadano a cercarsi un sotterraneo e portino con loro il prigioniero.
Aggiungeremo loro, per maggior precauzione, un paio di sikkari e un molosso.
Che provino loro a strappare qualche preziosa confessione a questo bramino che
mai è stato sacerdote». «Lasciate fare a me, signor Yanez» disse Kammamuri.
«Ed un po' anche a me che ho
tanta conoscenza coi topi, Altezza» disse il baniano. Il portoghese li guardò
con un po' di apprensione. «Non voglio che muoia» disse. «Ricordatevelo».
«Camperà ancora cinquant'anni, ve
lo dico io» disse il maharatto. «Vi promettiamo di non guastarlo troppo». «Vi
manderò due sikkari».
«Sono inutili. Questo malandrino
è nelle nostre mani e non ci fuggirà, ve lo assicuro, è vero cacciatore di
topi?» «Sì, noi bastiamo» rispose il baniano. «Devo avvertirvi d'una cosa».
«Dite, signor Yanez» disse Kammamuri. «Guardatevi dai suoi occhi».
«Noi ci terremo allo scuro e sarà
solamente lui illuminato. Mi sono già accorto della potenza magnetica dei suoi
sguardi, ma se crede di addormentarci s'inganna. E poi sarà ben legato e colle
catene d'acciaio dei cani».
Dai rajaputi che vegliavano sul
morto si fece dare due lanterne e si allontanò col malabaro e col prigioniero,
il quale d'altronde non aveva opposta nessuna resistenza, avendo ben compreso
che sarebbe stata inutile. Andava a cercarsi il sotterraneo adatto per
tormentare, in silenzio e senza essere disturbato, l'avvelenatore.
Yanez e Tremal-Naik si
trattennero alcuni minuti ancora nel vasto salone conferendo con due ministri
che erano sopraggiunti, intorno alle misure da prendersi pei funerali, i quali
dovevano essere spettacolosi trattandosi d'un così grande personaggio, poi,
entrambi un po' preoccupati, ritornarono nel gabinetto da lavoro dinanzi alla
cui porta vegliavano, sempre insensibili ai colpi di sonno, i sei sikkari.
Si erano appena seduti alla
tavola rotonda per bere un ultimo bicchiere di birra e fare un'altra fumata,
quando la porta della stanza di Soarez si aprì e comparve Surama coi capelli
tutti sciolti che le giungevano fino quasi a terra, avvolgendola come in un
manto di velluto, e gli occhi straordinariamente dilatati e fissi su qualche
punto. Yanez e Tremal-Naik si erano alzati precipitosamente guardandola con
viva sorpresa.
«Taci» aveva detto prontamente il
primo all'indiano. «Si direbbe che è in preda ad un sogno. Vedi? Non si è
nemmeno accorta della nostra presenza. Lasciamola fare». «Qui c'entra lo
sguardo magnetico del bramino» disse Tremal-Naik. «È quello che temo. Stiamo a
vedere». Si erano ritirati in un angolo del salotto, mettendosi a sedere su un
divanetto.
Surama continuava a rimanere
immobile, cogli occhi vitrei fissi nel vuoto, carichi di strani lampi, e colle
mani abbandonate lungo il corpo. Un tremito vivissimo agitava le sue membra,
scompigliando persino la sua superba capigliatUra.
Si avanzava come un automa,
sfiorando leggermente i tappeti foltissimi che coprivano il pavimento, senza
produrre il menomo rumore. Si arrestò un momento facendo un gesto vago, ebbe
come una indecisione, poi si mosse rapidamente verso
la poltrona alla quale era stato legato il bramino. Le sue mani scorsero lungo
i bracciuoli, poi un grido le sfuggì: «Mi hai chiamato e non ci sei!...» Yanez si era alzato di scatto, in preda ad una
vivissima agitazione. «Quel cane me l'ha ipnotizzata!...»
Si avanzò verso la rhani senza
fare rumore e si fermò qualche passo distante, colle braccia allargate, pronto
a riceverla se fosse caduta. Tremal-Naik si era pure alzato raggiungendo il
fedele amico.
Surama continuava a passare e ripassare
le sue piccole mani sui bracciuoli e pareva che colle dita tentasse di
sciogliere dei nodi. Le catene d'acciaio che stringevano i polsi del bramino
forse?
«Io comincio ad avere paura di
quell'uomo» disse Yanez sottovoce a Tremal-Naik. «Quel malandrino sarà più
terribile del greco e porterà la rovina sulla mia corona». «Fallo fucilare allo
spuntare del sole» rispose l'indiano.
«No, deve prima parlare. Io non
sono ancora sicuro se sia Sindhia che ritenti la conquista della sua corona e...»
Si era bruscamente interrotto,
prendendo fra le braccia Surama alla quale era mancato improvvisamente
l'equilibrio. Se la strinse al petto con passione baciandole i foltissimi
capelli neri, e si vide come respingere.
«Non sei tu che mi hai chiamata»
disse la rhani, con voce fioca. «Io non ho trovato le catene... non so trovare
la via per vedere il tuo sguardo fatale».
«Non svegliarla» disse
Tremal-Naik. «Portala a letto ed affidala alle cure della nutrice di Soarez».
Yanez sollevò la rhani fra le robuste braccia e la portò nel suo appartamento.
L'indiano era rimasto nel salotto, passeggiando nervosamente. La sua ampia
fronte appariva coperta di profonde rughe ed i suoi occhi mandavano cupi
baleni. L'assenza del portoghese durò solamente due o tre minuti. «Dunque?» chiese
l'indiano con una certa ansietà.
«Si è addormentata
tranquillamente udendo la mia voce che le comandava di chiudere le palpebre».
«È un catero (demonio) quell'uomo?»
«Non so che cosa dire, ma io
spero che lo sapremo ben presto. Conto su Kammamuri».
«E sarà implacabile, te lo dico
io. Guai a lui se non confesserà. Tutti i maharatti si può dire che nascono
carnefici, e l'hanno saputo gli inglesi quando hanno
conquistato, a furia di tradimenti, più che per valore di armi, quello stato».
«Non ti nascondo
però, Tremal-Naik, che sono assai impressionato di ciò che ho veduto
poco fa».
«Ed io non meno di te, Yanez.
Quel miserabile appena l'ha veduta e trovandola certamente non robusta come
noi, l'ha magnetizzata, imponendole di sciogliergli le catene d'acciaio che lo
tenevano avvinto alla poltrona». «Che Surama scenda anche nelle cantine dove si
trovano i nostri uomini?»
«Saremo pronti ad impedirglielo.
Il caso non è così straordinario come tu credi. Fra gli uomini della nostra
razza si trovano degli ipnotizzatori d'una forza straordinaria, che impongono
facilmente ai loro soggetti la loro volontà. Una volta, e non è molto tempo, un
paria magnetizzò un ragazzo di appena quindici anni, comandandogli di andare a
uccidere un vecchio inglese che abitava solo un piccolo bungalow. Ebbene, il
delitto fu commesso, il bianco fu scannato e l'assassino, arrestato, dichiarò
di non ricordarsi più di nulla. Delle persone però avevano veduto il paria
magnetizzarlo e se il ragazzo scampò alla forca vi cadde dentro l'altro, e morì
maledicendo tutte le divinità del nostro paese».
«Una canaglia di meno» disse
Yanez. «Anche in Malesia ho udito parlare di magnetizzatori straordinari,
specialmente fra i dayaki, però non ho mai creduto alla potenza dello sguardo».
«Lo vedi qui». «Purtroppo». Levò dal taschino l'orologio e guardò l'ora.
«Fra poco spunterà l'alba» disse.
«Sono già le tre e mezza. La notte è perduta e non vale la pena di andarsi a
coricare. Ah!... Gli affari di stato!...» «Ti
disturbano?»
«Prima no, ora sì. Questi
avvelenamenti non mi predicono nulla di buono. Il carro del potere comincia a
camminare di traverso come i gamberi di mare».
«Lo metteremo noi sulla via
diritta e ungeremo per bene le sue tre o quattrocento ruote».
«Troppe, Tremal-Naik! Vuoi che
scendiamo nei sotterranei? Lascia prima che vada a vedere se Surama dorme
tranquilla. Avrò da dire due terribili parole al magnetizzatore».
«Ti aspetto» rispose l'indiano,
accendendo una sigaretta che gli aveva lasciata il portoghese.
Sorseggiò un altro bicchiere di
birra che un valletto gli aveva empito, poi si mise a passeggiare per il
salotto. Anche il famoso "Cacciatore di Serpenti della Jungla Nera",
il nemico terribile dei thugs di Rajmangal, sembrava molto inquieto. Borbottava
e faceva dei gesti di collera. Ad un tratto Yanez ricomparve. «Sì, però sogna e
domanda di quell'uomo». «Ancora?»
«Sono però riuscito a
tranquillizzarla passandole più volte la mia mano sulla fronte, come mi ha
suggerito la nutrice di Soarez, imponendole di dormire». «E si è addormentata?»
«Subito».
«Andiamo a cercare Kammamuri ed
il cacciatore di topi. Sono curioso di sapere che cosa stanno facendo contro
quella canaglia di bramino». «Ma no bramino, Yanez, paria. Io sono un indiano e non posso
ingannarmi». «Lo credo anch'io» rispose il portoghese. «Chiamiamolo così per
ora».
Prese due lanterne che stavano su
un mobile, accese le candele ed uscì seguito dall'indiano, il quale prima aveva
visitate le proprie armi. Fu un rajaputo, che vegliava sul defunto ministro che
li guidò negli immensi sotterranei del palazzo gigantesco. Scesero parecchie
scale e si arrestarono un po' stupiti trovandosi di fronte a sei mostruosi e
schifosi uccellacci, che avevano le gambe legate e gridavano a piena gola: «Kra!... Kra!... Kra!... ».
Erano sei arghilah, chiamati anche,
non si sa il perché, aiutanti, strani volatili alti come un uomo, colla testa
calva, rognosa, traforata da due occhietti rotondi d'un nero intenso coll'orlo
rosso, ed armati d'un becco enorme appuntito ad imbuto, capace d'ingoiare mezzo
agnello o qualche mezza dozzina di corvi e di insaccarli a forza in una tasca
violacea che serve di anticamera ad uno stomaco poderoso non meno di quello
degli struzzi africani.
Sono gli spazzaturai di tutte le
città indiane, e come tali vengono rispettati e
lasciati passeggiare per le vie, con la testa stranamente affondata fra le
spalle d'un corpo bianco, sul quale si ripiegano due ali a fascia nera simili a
braccia incrociate dietro il dorso.
Trovano sul loro passaggio un
gatto e si affrettano a farlo sparire dentro il gigantesco imbuto; trovano un
marabù e lo uccidono con un solo colpo e se lo mangiano tranquillamente. I
corvi poi, che sono così numerosi nelle città indiane, vengono
ingollati vivi malgrado le loro disperate proteste.
«Che cosa fanno qui questi
uccellacci?» si domandò Yanez, mentre i volatili lo assordavano con dei «Kra... Kra... ».
«Lo saprà Kammamuri» rispose
Tremal-Naik. «Quello è un furbo che darà dei punti al paria». «Per Giove!... Che voglia farlo mangiare da questi ventricali
terribili?» «Non saprei dirti nulla. Lo domanderemo a lui».
Scesero la scala respingendo gli
uccellacci che tentavano di lavorare di becco, ed aprirono una pesante porta di
bronzo, attraverso le cui fessure trapelavano dei raggi di luce. Un rajaputi,
armato di lancia, e colla fascia piena di pistoloni, vegliava in fondo
all'ultimo gradino.
«Ohe, Kammamuri, dormi dunque?»
gridò Yanez, aprendo impetuosamente la porta, ed entrando in una specie di
cantina vasta assai e che puzzava di muffa, e che era illuminata da due
lanterne cinesi. Il maharatto fu pronto a correre incontro al maharajah,
seguito dal cacciatore di topi. «Che cosa si fa dunque qui?» chiese il
portoghese. «Guardatelo: eccolo là il malandrino».
Il bramino era stato gettato su
un vecchio materasso ammuffito, colle gambe e le braccia solidamente legate da
catenelle d'acciaio. «Ha parlato?»
«È muto come un pesce» rispose
Kammamuri. «Si direbbe che per non rispondere si è mozzata la lingua». «Non ci
mancherebbe altro» disse Tremal-Naik.
«Il sangue non esce dalla sua
bocca, quindi la lingua deve ancora trovarsi in ottimo stato. È che non vuole
agire, per ora». «Sarà paralizzata dallo spavento».
«Non credo, padrone. Quell'uomo
lì è forse più forte e più astuto del famoso greco, che era primo ministro di
Sindhia».
«E che cosa conti di fare?»
chiese Yanez. «Ho veduto, scendendo la scala sei aiutanti che mi parevano
piuttosto inferociti. Che cosa vuoi farne di quegli uccellacci?»
«Saranno quei brutti orchi che mi
daranno la vittoria sul bramino. Lui crede nei topi, che qui non devono
certamente mancare, io credo invece che non se ne farà nulla. Lo sguardo di
questo malandrino li arresterà, ve lo assicuro».
«Sono sceso appunto per parlarti
degli occhi di quella canaglia. Sai che ha già magnetizzata Surama?»
«Non mi stupirei» rispose
Kammamuri. «Sono uomo, e molto forte, eppure in certi momenti bisogna che
sfugga quegli occhi. Io, al vostro posto, signor Yanez, glieli farei levare».
«Corri troppo, amico» disse il
portoghese, ridendo. «Come sono feroci questi maharatti!...
Sono terribilmente lesti di mano».
«In fondo sono sempre un po'
selvaggi, nonostante la loro antica civiltà» disse Tremal-Naik.
«Forse avete ragione, padrone»
disse Kammamuri, che non era tipo da offendersi facilmente.
«Come ti ho detto», disse Yanez
«mia moglie è stata ipnotizzata, e non mi stupirei che scendesse qui e che
cercasse di liberare il prigioniero».
«Ci saremo noi, signore; e poi vi
è un rajaputo a guardia della porta e non la lascerà entrare».
«Anzi, tu devi lasciarla fare,
poiché un risveglio improvviso può essere talvolta pericoloso, è vero
Tremal-Naik?»
«È proprio così» rispose
l'indiano. «Se libererà il bramino torneremo a legarlo e più stretto di prima».
«Signori» disse Kammamuri.
«Volete lasciarci alle nostre occupazioni? Se vi saranno novità verremo subito
ad avvertirvi». «Càvatela come vuoi» disse Yanez. «Noi torniamo dalla piccola
rhani».
«E sarà meglio, perché i topi non
verranno di certo udendo tante persone parlare». «Ma che cosa vuoi fare tu?»
«Io aspetto i filosofi e non già
i rosicchianti. Credo che il malabaro s'inganni».
Yanez e Tremal-Naik, che dovevano
dare le ultime disposizioni per la sepoltura del disgraziato ministro,
lasciarono il sotterraneo, non senza aver gettato sul paria uno sguardo carico
di minacce.
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