3 - Le astuzie dei
forzati
Le furberie
dei forzati per procurarsi delle malattie artificiali, che li esonerino per
qualche tempo dai durissimi lavori dei cantieri, sono tali da far stupire ed
essi riescono così bene nella finzione da ingannare i più abili medici. Le
frodi tentate dai coscritti per essere dichiarati inabili al servizio militare,
sono puerili in confronto a quelle escogitate dai forzati per avere qualche
giorno di malattia e venire perciò trattati con un certo riguardo.
Nella loro
impazienza di sottrarsi al lavoro che li accascia, i galeotti dei penitenziari
hanno tutte le audacie, tutte le furberie. Davanti a quell'idea fissa di
riposo, - che i guardiani e i medici chiamano poltroneria, forse ingiustamente,
- sparisce perfino la loro sensibilità, e si sono veduti taluni mutilarsi
atrocemente, altri provocare e mantenere pazientemente delle malattie per
lunghi e lunghi mesi, e anche rovinarsi per sempre.
Quei
disgraziati hanno dei segreti che si trasmettono l'uno all'altro e che la
sagacia dei medici difficilmente riesce a scoprire.
Una delle
malattie preferite dai forzati, perché obbliga gli infermieri a trattenerli a
letto parecchie settimane, è appunto l'itterizia. Per simulare o provocare
quella malattia, vi sono due mezzi ai quali i galeotti ricorrono
indifferentemente.
Il primo
consiste nel mettere un po' di tabacco a macerare in un po' d'olio di cocco per
cinque o sei ore, poi seccarlo e fare delle sigarette aggiungendo al preparato
un po' di fosforo preso dai fiammiferi. Basta fumare sette od otto di quelle
sigarette perché apparisca su tutto il corpo la tinta gialla caratteristica
degli itterici. Il medico per di più rileva subito anche un certo imbarazzo
gastrico con vomiti e febbri e si vede obbligato a mandare il volontario
dell'itterizia all'ospedale.
Il secondo
mezzo è altrettanto semplice. Il forzato si mette sotto le ascelle un pacchetto
di cotone imbevuto di aceto e spolverizzato con un po' di zafferano, quindi si
copre molto per provocare un copioso sudore e dopo due ore prova dapprima un
senso di calore nel petto e quindi in tutte le membra; è questo il segno
dell'apparizione della tinta itterica che in pochissimo tempo invade tutti i
tegumenti e le congiuntive. L'uso quotidiano di quel cotone mantiene poi la
pseudo-itterizia, permettendo così all'astuto forzato di prolungare la sua
permanenza nell'ospedale.
Ma le malattie
artificiali non si limitano alla sola itterizia. Ben altre essi sanno provocarne
con dei mezzi sorprendenti che farebbero stupire gli stessi medici se potessero
conoscerli.
Alcuni, per
esempio, preferiscono la congiuntivite. Per procurarsela spargono della cenere
di tabacco nell'interno della palpebra inferiore, oppure fanno molte lavature
con acqua saponata. Si sono veduti anzi taluni forzati diventare completamente
ciechi facendo troppo uso della cenere di tabacco.
Altri
preferiscono la dissenteria e per ottenerla, specialmente i forzati dei
penitenziarii della Guiana francese, inghiottono dei semi d'una pianta chiamata
dagl'indigeni «panacoco» (hura crepitans) che esercitano una grande
azione irritante, maggiore di quella che produce l'olio di croton.
Fu la morte di
uno di quei disgraziati a svelare il segreto di quelle dissenterie che
colpivano troppo di frequente i galeotti della Guiana e delle isole della
Salute, il che diede luogo a provvedimenti proibitivi e severi da parte dei
direttori dei penitenziarii, con grande ira dei galeotti che venivano in tal
modo privati d'uno dei mezzi migliori e più semplici per darsi ammalati.
Di fianco alle
ricette classiche si trovano pure invenzioni straordinarie di certi
intellettuali del bagno che hanno trovato nuovi mezzi da aggiungere a quelli
già conosciuti dai vecchi forzati.
Un galeotto,
per esempio, che era stato studente in medicina, ha utilizzato le sue
conoscenze chimiche per insegnare ai suoi compagni di pena il modo di
procurarsi con poca spesa un rigonfiamento pronunciatissimo dello stomaco. Per
ottenere quella malattia raccoglieva tutte le cannucce delle vecchie pipe che
poteva trovare, specialmente di quelle di gesso, le riduceva in polvere e
faceva trangugiare al «paziente» un po' di quella miscela di terracotta e di
gesso insieme ad un bicchierino d'aceto. Quegli elementi producevano nello
stomaco una grande quantità di acido carbonico che lo dilatava enormemente,
simulando così la classica dilatazione di stomaco.
I forzati
conoscono anche l'arte di produrre e di mantenere le piaghe, e di dare ad esse
un'apparenza orribile. Per giungere a quel risultato sollevano una piega della
pelle e l'attraversano con un filo di lana inzuppato di tartaro dentario,
avendo però cura di non farlo uscire dall'altra parte. Ciò fatto aspettano la
mortificazione del tessuto ed ottengono così una piaga piena di suppurazione.
Perfino il
flemmone sono capaci di procurarsi e l'ottengono introducendo profondamente
sotto la pelle una sfilacciatura di uno straccio qualunque, un pezzetto d'osso,
una mosca o qualche altro insetto. Il forzato sceglie di preferenza la cavità
della parte posteriore del ginocchio, dove si trova un grosso strato di tessuto
epiteliale, anche perché la guarigione è lunga e difficile e gli promette un
riposo di parecchi mesi e anche perché lo esenta talvolta dal lavoro per tutta
la vita, manifestandosi non rare volte una anchilosi completa del ginocchio.
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Will, il
quartiermastro della Britannia, aveva fumato le sigarette da una
mezz'ora, quando il capo sorvegliante rientrò, accompagnato da un uomo vestito
di tela bianca, con un elmo pure di tela in testa e alte uose a doppia
bottoniera.
Era d'aspetto
simpatico, con occhi azzurri, barba e capelli biondi, la pelle assai
abbronzata, dovuta probabilmente al lungo soggiorno in quell'isola, così
esposta alle furiose raffiche dei monsoni indiani ed ai cocentissimi raggi
equatoriali.
«C'è quel
forzato che si lagna di essere ammalato, dottore, - disse il capo. - Io già vi
prevengo che non gli credo e penso che finga di esserlo per andare a riposare
qualche giorno all'infermeria.»
Il
quartiermastro si era alzato da sedere; fingendo uno sforzo supremo e mostrando
le larghe macchie che imbrattavano il suolo e l'orlo del tavolo, prodotte dal
vomito che lo aveva assalito dopo l'ultima sigaretta, disse:
«Ecco le prove
se io sono ammalato o no. Vi ho già detto che temevo mi cogliesse l'itterizia.
Guardatemi il viso, dottore.»
«Sei giallo
come un melone, - rispose il medico. - Non occorre che ti visiti. Passatelo
all'infermeria.»
«Andrà a
tenere compagnia al malabaro,» disse il capo ridendo, mentre il dottore se ne
andava, senza curarsi di dare uno sguardo di più al quartiermastro.
«L'avete
battuto quel disgraziato?» chiese Will a denti stretti.
«Perbacco!
L'abbiamo fatto cantare meglio d'un pappagallo ammaestrato! Tu, che sei stato
marinaio, sai già come accarezza bene le spalle il gatto a nove code e
come sa anche adoperarlo quel caro Fok. Ha il polso solido quell'uomo e nessuno
può resistere ai suoi colpi.»
«E il
Guercio?»
«Non si
puniscono gli innocenti.»
«Cioè le
spie,» corresse ironicamente il quartiermastro.
«È un'idea tua
quella.»
«Tutti sanno
che quel cingalese è la spia del bagno.»
Il capo
sorvegliante alzò le spalle con fare annoiato, poi disse:
«Su, vieni, se
è vero che sei ammalato. Gran buon uomo quel dottore! Io, se fossi al suo
posto, ti avrei mandato invece nella foresta a tagliare alberi.»
Will credette
opportuno non rispondere.
Il capo gli
staccò la catena, poi lo spinse ruvidamente giù dal tavolato, dicendogli:
«Non avrai la
pretesa che io ti porti. Avanti!»
Il
quartiermastro ebbe un lampo di rivolta dinanzi a tanta brutalità. Lo fissò in
faccia, incrociando nello stesso tempo le braccia, poi gli disse con voce
sibilante:
«Mi prendi per
un indiano tu, Foster? Tu sei un bruto che non sa rispettare la sventura.»
«Non prenderti
tanta confidenza, Will, - rispose il capo. - Non ti è permesso darmi del tu.»
«Sono un tuo
compatriota.»
«Per me non
sei altro che un numero. Basta, cammina o ti farò assaggiare il gatto appena
sarai guarito.»
Il
quartiermastro con uno sforzo supremo si frenò e uscì lentamente dalla cella,
seguito dal capo che teneva in mano l'estremità della catena.
Percorsero un
lungo corridoio, dove regnava un calore infernale e salirono una gradinata, sul
cui pianerottolo vegliava un guardiano armato di carabina colla baionetta
inastata.
«È entrato
nessun altro nell'infermeria?» chiese il capo alla sentinella.
«Sì, un
altro,» rispose il guardiano.
«Chi?»
«Jody, il
macchinista.»
«Anche quello
ammalato?»
«È entrato
poco fa colle guance così gonfie che mi parevano due zucche.»
«Mi rincresce,
perché quello è un buon diavolo.»
Fece aprire la
porta e introdusse Will in una vasta stanza, illuminata da una mezza dozzina di
finestre munite di doppie inferriate, ed ingombra di lettucci assai bassi,
disposti su due linee.
Due teste si
alzarono da due letti, guardarono il nuovo arrivato, poi si abbassarono subito
scomparendo sotto le lenzuola.
«Va' a
coricarti, - disse il capo, spingendo innanzi Will. - Il medico ripasserà
appena avrà terminato il pranzo e la partita di whist col governatore.»
Il
quartiermastro si diresse verso un letto, si spogliò e si cacciò sotto le
coperte fingendosi completamente esausto, mentre il capo rinchiudeva la porta, ripetendo:
«Sarà qui dopo
il whist.»
Era appena
uscito che si udì una voce dire con accento un po' beffardo:
«Eccoci
finalmente in compagnia. Cerchiamo ora di guarire presto e tutto andrà a
meraviglia. Il cilindro è finito?»
Da un letto si
era alzata una testa tutta avvolta in pannilini, che mostrava due gote
mostruosamente gonfie, colla pelle assai abbronzata e due occhietti nerissimi,
vivaci, intelligenti.
«Non sono
bello è vero, signor Will!» disse il malato con una risata.
«No, davvero,
mio bravo Jody,» rispose il quartiermastro.
«Ah, signor
Will, - disse in quell'istante un'altra voce. - Come mi hanno conciato quei
cani idrofobi! Mi pare che mi abbiano fracassato perfino le costole.»
Un'altra testa
si era alzata da un letto vicino: quella del malabaro. Il disgraziato indiano
era completamente trasfigurato ed il suo viso aveva perduto la sua tinta
bronzea per assumere un colore grigiastro, il pallore delle razze colorate.
Dovevano
averlo orribilmente conciato e certo il suo dorso doveva essere tutta una piaga,
poiché il gatto a nove code, usato ancora nel secolo scorso sui vascelli da
guerra della marina inglese e nei penitenziari, non è meno terribile dello knut
russo.
Si tratta
d'una vera frusta formata da nove strisce di corde guernite di piccole palle di
piombo, ognuna delle quali traccia, sul dorso del condannato, un vero solco
sanguinoso. Cinquanta colpi bastano per produrre la morte, talvolta anche meno;
perciò a quelle barbare esecuzioni si usava far assistere un medico, onde le
facesse interrompere se la vita del paziente sembrava in pericolo. Ciò però non
graziava il poveretto dai colpi che gli erano stati assegnati: si attendeva che
le ferite si fossero ben rimarginate per somministrargli i rimanenti.
«Come stai, mio
povero Palicur?» chiese il quartiermastro, commosso dalla figura spettrale del
malabaro.
«Non bene di
certo, signor Will, - rispose il pescatore di perle, sforzandosi di sorridere.
- Non mi hanno graziato nemmeno un colpo. Fortunatamente sono robusto e noi
indiani abbiamo la pelle un po' dura.»
«Per quanto ne
avrai?»
«Per otto
giorni almeno, signor Will.»
«Ti hanno
fasciato bene le piaghe?»
«Sì e le hanno
anche disinfettate. Ma come vi trovate voi qui?»
«Ho
l'itterizia.»
«Vera?»
«Si, come le
gote gonfie di Jody,» rispose il quartiermastro.
Il malabaro,
che si era un po' alzato, guardò l'altro ammalato e, nonostante i dolori acuti
che lo tormentavano, scoppiò in una risata.
«Anche il
mulatto ammalato! - esclamò. - Chi farà funzionare ora la macchina del battello
a vapore?»
«Nessuno per
ora, - rispose Jody. - Bisogna che attendano la mia guarigione se vorranno
servirsene, non essendovi alcuno che possa surrogarmi. La mia malattia non
guarirà se non quando voi sarete in piedi.»
«Come hai
fatto, Jody, a gonfiare le gote in quel modo? - chiese Will. - Sei mostruoso.»
«Una cosa da
nulla, signor Will. Mi sono graffiato profondamente, con uno spillo, le mucose
della bocca e da un forzato compiacente mi sono fatto soffiare dentro con una
paglia, finché le gote sono diventate grosse come palloni. Tenete bene in mente
questa ricetta; potrebbe esservi utile un giorno per farvi mandare
all'ospedale.»
«Non ne avremo
più bisogno, spero, - disse il quartiermastro, con voce grave. - Tutto è
pronto, vero?»
«Non mi
trovereste qui, signor Will, se fosse altrimenti. Vi avevo avvertito che mi
sarei dato per ammalato appena terminato il cilindro. L'ho finito ieri sera ed
avendo saputo poco fa che vi si voleva far provare il gatto a nove code,
mi sono prontamente ammalato per essere qui insieme a voi.»
«Ah! Tu
credevi che infliggessero anche a me quell'atroce supplizio?»
«Sì, signor
Will, avendovi veduto chiudere nella cella assieme a Palicur. Sono lieto che vi
abbiano risparmiato.»
«Dunque?»
chiese sotto voce il pescatore di perle, che li aveva ascoltati attentamente,
cogli occhi ardenti.
«Non aspetto
che voi,» disse Jody.
«Sei riuscito
a sottrarre dei viveri?» chiese il quartiermastro.
«Sono tre
settimane che nascondo un paio di gallette al giorno e che accumulo noci di
cocco.»
«Dove?»
«In una cavità
della scogliera.»
«E armi?»
«Ho potuto
sottrarre un paio di pistole e duecento cartucce dall'armeria, senza che i
guardiani se ne siano accorti. D'altronde nessuno avrebbe sospettato di me.»
«Vi è carbone
nella scialuppa?»
«Ne avremo per
un paio di giorni, signor Will. Poca cosa davvero, che c'impedirà di andare
molto lontano, ma ho preparato un albero e nascosto due coperte che ci
serviranno da vela.»
«Armerò io la
scialuppa e la faremo egualmente filare,» disse il quartiermastro.
«E dove
andremo?» chiese Palicur con una certa inquietudine.
«Per me,
purché si vada, non m'importa affatto del luogo, - rispose il mulatto. -
L'India o la Birmania fa lo stesso.»
«Non temere,
Palicur, - disse il quartiermastro, che s'era accorto della profonda angoscia
che torturava il cuore del pescatore. - Noi andremo a Ceylon, prima di tutto,
se non verremo catturati in alto mare.»
«Vi sono delle
isole sul nostro itinerario ed in caso di pericolo ci getteremo alla costa. Io
conosco le Nicobar, signor Will, - rispose il malabaro. - Ciò che deve
preoccuparci è il modo di potercene andare.»
«Da queste
finestre alla spiaggia non vi sono che duecento passi,» disse Jody.
«E quattro
sentinelle, mio caro.»
«La sera che
voi prenderete il largo esse saranno ubriache, signore. Voi sapete che sono
amico di tutti i guardiani e che nella mia qualità di macchinista addetto alla
scialuppa del governatore, godo di favori speciali e di una certa libertà,
oltre che di una paga che voi non avete e che mi permette di acquistare qualche
bottiglia di gin.»
«Sappiamo che
tu sei un uomo fortunato.»
«Sì, a
paragone degli altri, signor Will, - rispose il mulatto. - Non si tratta
quindi, per voi, che di segare un paio di sbarre delle inferriate e di calarvi
sul tetto del magazzino che sta sotto di noi.»
«E chi le
segherà?»
«Voi, signor
Will. Vi ho costruito una macchinetta che taglierà il ferro come se fosse legno
e senza produrre rumore; un giocattolo meraviglioso, ve lo assicuro.»
«Se tu sei
riuscito a fabbricare il cilindro della macchina, non dubito che tu sia stato
capace d'inventare qualche congegno straordinario. Sei un meccanico di prima
forza.»
«Bene, grazie!
Continuo, - disse il mulatto. - Io sarò sulla riva ad attendervi e v'indicherò
il luogo ove dovrete rifugiarvi.»
«E tu?»
chiesero ad una voce Will e Palicur.
«Io non posso
lasciare subito il penitenziario. Come potrei accendere la macchina senza che i
guardiani se ne accorgano? Devo aspettare che il sole sia alzato.»
«È vero, -
disse il quartiermastro, dopo un momento di riflessione. - Continua.»
«Se anche mi
vedono accendere la macchina di giorno, nessuno se ne preoccuperà, non avendo
essa il cilindro che, come sapete, tolgono sempre per paura che io scappi.
Appena ho la pressione, metto il mio, corro a raccogliervi e via in alto mare.
Ci daranno la caccia, lo so, ma noi saremo lontani allora, forse alla piccola
Andamana.»
«Senza di te
noi non riusciremo mai a darcela a gambe,» disse Will.
«Ed io senza
di voi, signore, finirei chissà dove non essendo mai stato marinaio,» rispose
il mulatto.
«Tieni
d'occhio il Guercio.»
«Quel
maledetto cingalese?»
«Egli deve
aver udito qualche cosa di quanto abbiamo detto stamane io e Palicur. Sospetta
la nostra fuga, quel cane d'uno spione, e ci sorveglierà strettamente.»
«Mi guarderò
da lui, signor Will. lo credo che non dubiti di me almeno finora. Se vorrà poi
darmi qualche noia, gli scucirò il ventre con un colpo di coltello.»
«Zitto, -
disse il quartiermastro. - Ecco il medico che viene. Cacciamoci sotto le coltri
e fingiamo di essere più ammalati di quello che siamo realmente.»
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