9 - Le isole
Nicobare
Ventiquattro
ore dopo, i fuggiaschi, che non avevano cessato di consumare carbone,
fermamente decisi a distanziare il più possibile il Nizam prima di esaurire
la loro provvista di combustibile, avvistavano le alte montagne della isola
maggiore Nicobara, presso cui contavano fermarsi alcuni giorni per provvedersi
di viveri, prima d'intraprendere la traversata dell'Oceano Indiano occidentale.
Per non perdere
tempo e un po' anche per paura di venire presi e massacrati dagli isolani, non
avevano preso terra in alcun luogo delle Andamane, le quali godevano,
specialmente in quell'epoca, pessima fama, nonostante la vicinanza della
guarnigione anglo-indiana di Port-Cornwallis.
Arrestarsi in
qualche luogo era però necessario, perché la provvista di carbone stava per
esaurirsi e perché durante quella corsa non avevano mangiato che due biscotti,
i soli che avessero trovato per caso nella cassetta del macchinista, dimenticati
là da chissà quanto tempo, e non avevano ingollato una goccia d'acqua.
«Muoviamo
diritti su Karnicobar, - aveva detto il quartiermastro della Britannia,
che conosceva quasi tutte le isole disseminate nel vastissimo Oceano Indiano, a
ponente ed a levante della penisola indostana. - Colà troveremo acqua e viveri
e aspetteremo il passaggio del Nizam. Vi raccomando soprattutto di
tenervi lontano dagli isolani, onde non informino i nostri inseguitori della
nostra presenza.»
Dopo di ciò
avevano caricato il fornello fino alla bocca e accelerato la corsa, essendo il
sole prossimo al tramonto.
Le Nicobare
formano un arcipelago di dieci isole disseminate a gran distanza le une dalle
altre, di cui la grande Nicobara, che è la più meridionale, ha una lunghezza di
quindici leghe. Le altre più notevoli sono Sambelang, Ketchoul, Komarta,
Nancovery, Priconta, Peressa, Pebraourie, Pabonin e Karnicobar.
Tutte sono
assai montagnose e coperte di alberi, specialmente di cocchi, di betel, di
areka, di tek, di sassofrassi assai aromatici e di karum i quali
producono delle frutta assai migliori di quelle degli alberi del pane di
Otaiti, che pure sono ritenuti i migliori del mondo.
Il clima delle
Nicobare è però assai malsano, a causa delle piogge incessanti che vi cadono, prodotte
dai monsoni; e le febbri terribili che vi regnano hanno reso sempre impossibile
agli europei la colonizzazione di quelle terre, che pure hanno dei comodi porti
dove le navi potrebbero trovare sicuri rifugi.
E infatti tre
tentativi andarono all'aria. I danesi per primi, i quali vantano tutt'ora dei
diritti su quell'arcipelago, fondarono uno stabilimento nel XVII secolo nella
vasta baia dell'isola Komarta, che chiamarono Nuova Zelanda, ma poco tempo dopo
dovettero abbandonarla a causa delle febbri che distruggevano rapidamente i
coloni. Ne tentarono un'altra sull'isola Nancovery, che ebbe ugual sorte. Anche
gli austriaci, che nel 1778 occuparono Komarta abbandonata dai primi, non
ebbero miglior fortuna e si videro costretti a sgombrarla più che in fretta e
salpare le ancore.
Una vera
disdetta, perché quelle isole sono ricche, producono piante ricercate,
abbondano di selvaggina, soprattutto di buoi che, importati dagli europei, si
sono straordinariamente moltiplicati dopo il loro abbandono di quelle terre: e
inoltre gl'indigeni non sono così selvaggi, né così fieri come gli Andamani,
anzi sono timidi e ospitali, purché non si tocchino le loro donne di cui sono
estremamente gelosi.
La scialuppa,
che divorava voracemente gli ultimi pezzi di carbone fossile con grande
rincrescimento di Jody, un'ora dopo il tramonto giunse a poche gomene dalle
coste occidentali di Karnicobar, che erano coperte da foltissime piante.
Passata al largo della baia dei Saoni, dove il quartiermastro sapeva che vi
erano dei villaggi, superò un passaggio aperto nel banco corallifero e andò ad
arenarsi dolcemente in fondo a una minuscola rada, dove sboccava un fiumicello
e che pareva deserta.
I tre uomini
spensero il fuoco per non sprecare inutilmente quel po' di carbone che ancora
bruciava, e dopo aver legato solidamente la scialuppa, scesero a terra portando
con sé la carabina, la pistola e due coperte, le sole che possedevano e colle
quali contavano di farsi più tardi delle vele.
Le due rive
del fiumicello erano ingombre di splendidi alberi, che proiettavano una fitta
ombra sulle acque biancastre; non era quindi improbabile che ve ne fossero
anche di quelli portanti frutta.
«Cerchiamo la
cena innanzi tutto, - disse Will, che pareva lietissimo di trovarsi a terra a
così grande distanza dal penitenziario. - Spero che passeremo una buona notte.»
«Vi sono
abitanti su quest'isola?» chiese Palicur.
«Pochi
villaggi, ma non dobbiamo preoccuparci degli indigeni. Anche se ci scoprissero
non ci darebbero fastidi, avendo imparato a rispettare gli europei.»
«È vero che
hanno la coda, signor Will?» chiese Jody.
«Lo si è
creduto un tempo, - rispose il quartiermastro ridendo. - E infatti, veduti ad
una certa distanza, pare che veramente l'abbiano, usando questi isolani portare
un lembo di pelle che lasciano pendere lungo il dorso.»
«Che il Nizam
venga a cercarci qui?» chiese Palicur.
«È probabile
che faccia una punta nella baia dei Saoni, per interrogare gl'indigeni; per
questo preferirei che non ci scorgessero. Questo luogo però mi pare deserto e
in mezzo alla foresta non ci troveranno facilmente. Va' a cercare ostriche e
granchi sulla spiaggia, Jody, mentre noi cerchiamo le frutta.»
«Signor Will,
- disse il macchinista, arrestandosi. - Vi sono bestie feroci qui? Non vorrei
cadere fra le unghie di qualche tigre.»
«Tigri no,
coccodrilli o meglio gaviali sì, e anche serpenti velenosissimi. Guarda dove
posi i piedi.»
Mentre il
macchinista s'avviava verso la spiaggia, l'inglese e il malabaro si cacciarono
nella foresta, sopra la quale volteggiavano dei giganteschi pipistrelli, e poco
dopo s'arrestavano dinanzi ad un albero i cui rami si piegavano sotto il peso
di certe frutta rugose, grosse quasi quanto la testa d'un bambino.
«Ecco un karum
che ci fornirà quanto pane vorremo,» disse Will, che lo aveva subito riconosciuto.
«Un mellori,
signore,» disse il malabaro.
«Sì, lo
chiamano così i portoghesi.»
«Potremo
caricare la scialuppa.»
«E conservare
la polpa se avremo la precauzione di farla fermentare qualche giorno sotto
terra, - aggiunse il quartiermastro. - Puoi salire, Palicur?»
«Le ferite non
mi danno ormai più alcun fastidio, signor Will.»
Il pescatore
di perle s'aggrappò ad alcune piante parassite di nepentes che portavano
i loro vasi semiricolmi d'acqua più o meno limpida e, raggiunto un ramo, fece cadere
al suolo una dozzina di quelle grosse palle.
Stava per
discendere, quando verso la spiaggia udirono Jody urlare: «Preso, accorrete o
mi scappa!»
Il
quartiermastro fece un salto verso la carabina che aveva appoggiato al tronco
dell'albero, mentre il malabaro si lasciava cadere a terra. -
«Presto,
Palicur, - disse Will, slanciandosi a corsa sfrenata. - Qualcuno può minacciare
Jody.»
Attraversarono
come un lampo il lembo della foresta e si slanciarono verso la spiaggia, dove
il mulatto pareva lottasse contro qualche cosa di enorme e di non ben definito,
che egli tempestava di legnate poderose.
«Che c'è,
Jody?» gridò il quartiermastro, preparandosi a far fuoco.
«Aiutatemi a
rovesciare questa montagna di carne, prima che fugga in mare, - rispose il
macchinista. - Ci vorrebbe una gru!»
Il
quartiermastro ed il malabaro si erano fermati dinanzi ad una testuggine di
dimensioni così enormi che prima di allora non ne avevano visto l'eguale, ma
che riconobbero subito.
«Una tartaruga
elefantina! - esclamò Will. - Hai ragione di dire che è una vera montagna di
carne e che noi tre non la potremo rovesciare. Ci vorrebbero dieci facchini per
muovere questa massa.»
Quel rettile
era infatti straordinariamente grosso. Non era più lungo di un metro e mezzo,
ma il suo guscio nero e robustissimo s'innalzava formando una specie di cupola,
sotto cui dovevano trovarsi per lo meno duecento chilogrammi di carne. Quei
mostri, la cui vista fa pensare agli animalacci dell'epoca antidiluviana, non
sono rari nell'Oceano Indiano, anzi abbondano in certe isole come nelle
Maldive, nelle Nicobare e soprattutto in quelle mascarine, nelle isole di
Francia e della Riunione, dove anzi si allevano entro recinti chiusi per
servire di svago ai ragazzi, potendone esse portare e trascinare parecchi sul
poderoso dorso.
Il rettile
scoperto dal macchinista, sotto la grandine di legnate somministrategli, aveva
ritirato la testa e si era fermato, sicuro che nessuno lo avrebbe scovato entro
la sua fortezza ossea né sarebbe stato capace di rovesciarlo sul dorso. Aveva
però fatto male i conti, perché Will, visto che non voleva offrire la sua testa
al coltello del malabaro, gli sparò dentro un colpo di pistola, fracassandogli
il cranio.
«Eccolo
immobilizzato per sempre,» disse il marinaio.
«Ma non già
allo spiedo, - disse il macchinista. - Chi aprirà questo guscio, mentre non
abbiamo nemmeno una scure? E poi non basterebbe: ci vorrebbero dei picconi.»
«C'è una sola
cosa da fare,» disse il malabaro.
«Quale?»
chiese Jodv.
«Circondare il
rettile di legna secca e cucinarlo sul posto. Quando il guscio si sarà
carbonizzato, cederà facilmente.»
«Ecco un'idea
che non mi sarebbe mai venuta, - disse il mulatto ridendo. - Se io fossi stato
solo sarei morto di fame accanto a questa montagna di carne. Che bestione! È
grosso come una botte di cinque ettolitri. Peccato non poter mangiare tutta
questa polpa squisita.»
«Invita a
pranzo una dozzina di nicobariani, - disse Palicur. - Forse non basterebbero
ancora a vuotare questa massa.»
«E dove hai
sorpreso questo animale?» chiese Will.
«Stava
lottando contro un altro meno grosso, in mezzo a questa duna. Quello, più
lesto, s'è salvato a tempo affondando in mare.»
«Lottavano! -
esclamò il malabaro. - Pesanti come sono?»
«E si
mordevano ferocemente al collo e cercavano soprattutto di rovesciare
l'avversario sul dorso.»
«È questo anzi
il colpo che tentano ordinariamente, perché, se riesce, sbarazza per sempre il
vincitore dal rivale,» disse Will.
«Forse si
ammazzano cadendo sul dorso? - chiese Jody. - A me non pare che abbiano la
spina dorsale così delicata con quella corazza che la protegge.»
«Non è per
quello che muoiono, - rispose Will. - Non potendo più rivoltarsi, a causa della
poca lunghezza delle zampe e del peso troppo enorme, rimangono in quella posa
per sempre, finché la fame li manda all'altro mondo ed il sole le dissecca.»
«Non credevo
che le tartarughe fossero così furbe. E infatti ho veduto che la più piccola
cercava di cacciarsi sotto il ventre della più grossa.»
«Ed io ho
veduto che vi è della carne da mangiare e mi sono accorto che da ventiquattro
ore digiuniamo, - disse il malabaro. - Si potrebbe rimandare la conversazione a
dopo la cena.»
«Hai ragione,
Palicur, - rispose Will. - Andiamo a raccogliere legna.»
Non furono costretti
ad andare molto lontani per averne. Rami secchi ve n'erano in quantità sotto
gli alberi, e anche la riva dell'oceano era cosparsa di fuchi, varietà d'alga
marino.
Coprirono
interamente la colossale testuggine cogli uni e cogli altri e vi diedero fuoco,
senza pensare che quella fiammata poteva venire scorta dagl'indigeni e
fors'anche dal Nizam.
Mentre il
povero rettile crepitava e friggeva il suo grasso spandendo intorno un profumo
squisito, e Palicur raccoglieva l'olio che sfuggiva dalle aperture delle zampe
in gran copia, empiendo parecchie larghe conchiglie che aveva raccolto sulla
spiaggia, il quartiermastro sbucciava le frutta, levandone la polpa interna,
d'un bel color giallo e soffice come la pasta del pane, che tagliava in larghe
fette ponendole ad abbrustolire sulle braci.
Mezz'ora dopo,
lasciato spegnere il fuoco, il malabaro con pochi colpi del suo coltellaccio
sfondava la corazza superiore della tartaruga ormai carbonizzata, e con una
conchiglia dai margini taglienti ritirava parecchi chilogrammi di carne, che
dal profumo che esalava doveva essere squisita.
«A tavola,
signori, - disse, deponendo dinanzi all'inglese ed al mulatto una superba haliotis
gigantea, una fra le più grandi e più belle conchiglie madreperlacee
dell'Oceano Indiano, dai colori iridescenti e che doveva servire da piatto. -
Ve n'è per tutti, e dentro quella botte ne rimane venti volte tanta di questa
squisita carne.»
I tre forzati,
che avevano un appetito feroce, assalirono vigorosamente la cena, vantando, fra
un boccone e l'altro, la delicatezza di quella carne ed il sapore gustosissimo
delle fette di carum sapientemente abbrustolite.
Stavano per
dichiararsi più che sazii, quando udirono verso il vicino bosco un rumore di
rami precipitosamente smossi e dei passi affrettati. Will balzò lestamente in
piedi, armando la carabina e gridando:
«Chi vive?...»
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