12 - La valle dei
pitoni
Sgombrato il
passaggio e non desiderando accamparsi in quel luogo frequentato da quei
pericolosi colossi, il quartiermastro ed il malabaro, raggiunto Jody, si
rimisero animosamente in marcia colla speranza di arrivare prima del tramonto
alla sorgente del fiume.
Fortunatamente
quegli enormi animali nella loro ritirata avevano aperto un largo sentiero che
seguiva parallelamente il fiume, ingombro però dì tronchi atterrati, avendo
quei giganti l'abitudine di rovesciare colle loro formidabili proboscidi tutti
i vegetali che impediscono il passaggio ai loro corpacci; sicché i tre
ex-forzati poterono avanzare con sufficiente rapidità, senza aver bisogno di
mettere mano alla scure.
Quelle
boscaglie d'altronde non erano così folte come avevano dapprima supposto,
essendo formate per lo più da fichi sacri, i quali, pur occupando estensioni
vastissime, crescono coi tronchi ad una considerevole distanza gli uni dagli
altri.
Verso sera
l'inglese ed i suoi compagni si accamparono sulle rive del fiume, in una
piccola radura cosparsa solamente da pochi mazzi di bambù di dimensioni
esagerate. Dovevano essere poco lontani dalle sorgenti, poiché il Kalawa in
quel luogo era poverissimo d'acqua e non più largo d'una diecina di metri.
«È ora di
lasciarlo, - disse il malabaro. - Il lago di Kalawewe è ad oriente e noi
dobbiamo tenere quella direzione per poi piegare verso il mezzodì, se vorremo
raggiungere le montagne di Sengakogulla Manara.»
«Quanto
impiegheremo a compiere la traversata?» chiese Will.
«Fra quattro
giorni, come vi ho detto, noi raggiungeremo il monastero, se i pitoni non ci
arresteranno.»
«I pitoni! Che
cosa c'entrano quei colossali serpenti col nostro viaggio?»
«Saremo
costretti ad attraversare la valle dei pitoni delle rocce, un brutto luogo,
dove ogni anno i pellegrini lasciano non pochi compagni. Quel passo è pieno di
quei pericolosissimi rettili. Pullulano come i funghi nel mio paese. Ho dovuto
ucciderne parecchi nel mio ultimo viaggio,» disse Palicur.
«Non si può
cercare un'altra via?»
«È
impossibile, signor Will. Le montagne in quel luogo sono tagliate così a picco,
da sfidare le zampe delle scimmie.»
«È vero che
sono enormi i pitoni delle rocce?» chiese Jody.
«Ne ho veduto
di quelli che misurano perfino trenta piedi di lunghezza.»
«Dieci metri!»
«Ed erano
grossi come le tue cosce.»
«Sono anche
velenosi?»
«No, Jody;
invece posseggono una tale forza, da stritolare fra le loro spire non dico un
rinoceronte, ma certo un bufalo, e tu sai se questi ruminanti sono robusti,»
rispose Palicur.
«Passeremo di
notte, quando saranno addormentati,» disse il quartiermastro, che non sembrava
molto preoccupato.
Cenarono,
senza essere stati disturbati, batterono per precauzione i dintorni e,
stabiliti i quarti di guardia, s'addormentarono, mentre uno di loro vegliava
sulla sicurezza comune.
Durante la
notte vi fu più d'un allarme, causato dalla presenza di due grossi animali che
erano comparsi sulla riva opposta del fiume, pantere o tigri, le quali però
ebbero il buon senso di non attraversare quel corso d'acqua e di limitarsi a
brontolare.
Alle sei del
mattino i tre amici abbandonarono definitivamente il Kalawa, inoltrandosi sotto
le immense boscaglie che li dividevano dall'imponente catena del Sengakogulla.
Per due lunghi
giorni si dibatterono disperatamente fra quei vegetali, aprendosi faticosamente
il passo fra i fichi baniani, i talipoti, i banani selvatici, i sagoia, le
palme zuccherine ed i sarmenti dei pepe, finché raggiunsero il lago Kalawewe,
un grande bacino ancora poco noto, che non si sa da quale corso d'acqua sia
alimentato: sulle sue rive sostarono ventiquattro ore anche per rinnovare le
loro provviste di viveri ormai esaurite.
Le rive del
lago non scarseggiavano di selvaggina, essendo quello l'unico bacino d'acqua
dolce in un'area vastissima, sicché non riuscì loro difficile fare parecchie
schioppettate, specialmente contro i bufali che si mostravano numerosissimi
nelle paludi prossime al lago.
Il giorno
appresso si posero risolutamente in cammino, attraverso una regione che pareva
completamente deserta ed era di quando in quando interrotta da alture che
diventavano sempre più elevate. Tutto il centro di quella grande isola è
montagnoso. Altissimi picchi si diramano in varie direzioni, sormontati da
quello chiamato picco di Adamo dagli europei, di S. Tomaso dai maomettani e di
Hamelel dai cingalesi, una montagna enorme, di forma conica, visibile alla
distanza di trenta e più leghe, e di cui si ascendono gli scoscesi e selvosi
fianchi per via di scale intagliate nell'ardesia e anche per via di scale a
mano, attaccate a catene di ferro.
Alla sommità
trovasi una pianura lunga centocinquanta piedi, larga centodieci, con un
piccolo stagno d'acqua limpida entro cui i buddisti devotamente si bagnano, e
vicino allo stagno si vede l'impronta d'un piede gigantesco che sarebbe stata
impressa da Adamo prima di lasciare per sempre, dopo il peccato commesso da
Eva, il paradiso terrestre.
Infatti
secondo i buddisti e secondo alcuni scienziati, il famoso paradiso che fu
abitato dai due primi esseri della creazione sarebbe stato in quell'isola
meravigliosa, che è senza contrasti la più fertile di quante se ne trovano al
mondo e che per splendore di vegetazione non ha rivali.
È bensì vero
che, secondo studi ed investigazioni più recenti, si sarebbe invece trovato nella
Lemuria, un vastissimo continente situato fra l'Australia e l'Africa
meridionale, poi quasi interamente scomparso al pari dell'Atlantide e di cui
Madagascar, Ceylon e le isole della Sonda sarebbero gli ultimi avanzi. Ed ecco
forse il motivo perché la paleontologia non ha trovato ancora le reliquie
sicure, positive dei nostri vari antenati, inghiottite dalle acque dell'Oceano
Indiano in seguito a chissà quale spaventevole cataclisma, o nascoste, può
anche darsi, negli strati profondi delle isole, non ancora esplorate a questo
riguardo.
Il minuscolo
drappello, guidato dal malabaro, che non esitava mai sulla direzione da
prendere, anche senza guardare la bussola che il quartiermastro non aveva
dimenticato di portare con sé, dopo aver guadato il Makowilla, che è il fiume
più importante dell'isola e ha le sue sorgenti sul picco d'Adamo, giunse
finalmente dinanzi all'importante catena di Sengakogulla, che spingeva le sue
vette boscose a quattromila e quattrocento piedi.
«Non scorgo
nessun passaggio, - disse Will, che si era fermato ad ammirare quell'enorme
massa di monti. - Dovremo salire quelle cime?»
«Non vi
riuscireste, signore, - rispose Palicur. - I fianchi di quei colossi, come già
vi dissi, sono inaccessibili almeno da questo versante. Non esiste che la valle
dei pitoni delle rocce.»
«Sì, mi
ricordo che ci hai parlato di quel passo. Quando vi giungeremo?»
«Fra un paio
d'ore, signore.»
«Corriamo dei
gravi pericoli?» chiese Jody, che aveva una decisa antipatia per tutti i
rettili.
«Può darsi,
amico, - disse il malabaro. - Certo non ci lasceranno passare senza tentare
qualche attacco contro di noi.»
«E come mai si
trovano radunati in quel luogo in così gran numero?» chiese il quartiermastro.
«Si dice che un
famoso incantatore di serpenti, avesse cercato di fare di quella valle, che è
profondamente incassata, un immenso serraglio di pitoni, a scopo di lucro,
essendo ben pagati quei mostruosi serpenti dai musei europei e dai mercanti di
belve. Si narra che ne avesse radunato parecchie coppie, innalzando poi delle
cinte alle estremità della valle, e che un giorno fosse stato preso da uno dei
suoi prigionieri e stritolato.
«Rimasti soli
ed indisturbati, col tempo si sarebbero moltiplicati in numero straordinario.
Fatto sta che la valle ne è piena e che nell'attraversarla si corrono sempre
dei grandi pericoli.»
«Se ci
assalgono, sapremo difenderci, - disse Will. - Nessun rettile resiste ad una
buona palla conica lanciata da una carabina. Amici, in marcia!»
La salita dei
primi scaglioni della grande catena non fu molto faticosa, anche perché le
foreste che coprivano i fianchi non erano così folte come al piano; verso il
mezzodì però l'ascensione divenne bruscamente così ripida, da mettere a dura
prova i loro garetti.
Le montagne si
accostavano, mostrando le loro cime tagliate quasi a picco, i cui lati
strapiombavano entro burroni e abissi spaventevoli che pareva non avessero
fondo.
Un rombo
assordante, prodotto da un gran numero di cascate precipitanti lungo le balze,
si propagava attraverso quelle gigantesche piramidi rocciose, che si
rimandavano senza posa l'eco.
I tre
ex-forzati si cacciarono dentro uno stretto vallone, cosparso solo di magri
cespugli, che saliva serpeggiando fra le montagne, e rallentarono la marcia per
sorvegliare le cime, non essendo improbabile che lassù si trovassero dei
Vadassi e che qualche masso venisse precipitato sulle loro teste.
Era prossimo
il tramonto, quando si trovarono improvvisamente dinanzi ad un vasto burrone,
chiuso da rocce tagliate a picco e tutto irto di macigni enormi, che pareva
fossero precipitati dall'alto in seguito a qualche spaventevole terremoto.
Non si
scorgevano che radi alberi, invece abbondavano le alte graminacee, ormai
disseccate dai torridi raggi del sole.
«Là sotto sta
il pericolo,» disse Palicur, che si era arrestato guardando con una certa
ansietà quelle erbe.
«È questa
forse la valle dei pitoni?» chiese Will.
«Sì, signore.»
«Non ne vedo
nemmeno uno, però.»
«Si riposano
sotto le graminacee.»
«Aspettiamo la
notte?»
«Sì, signor
Will; sarebbe una grande imprudenza se attraversassimo la valle di giorno. Vi
raccomando il più profondo silenzio.»
«Ed io
raccomando che le armi siano ben caricate,» disse Jody.
«Prepariamoci
la cena,» concluse il quartiermastro.
Per non venire
sorpresi da quei colossali rettili, scalarono una rupe che sorgeva quasi
isolata all'entrata della valle e divorarono un po' di carne arrostita al
mattino, non osando accendere il fuoco.
Avevano già
fatto una pipata e si disponevano a ripartire, quando un colpo di fucile
rimbombò ad un tratto verso l'opposta estremità della valle.
Tutti si
alzarono precipitosamente, interrogando ansiosamente cogli sguardi le tenebre
che ormai erano calate e che avvolgevano la grande catena.
«Chi può aver
fatto fuoco? - si chiese Will, un po' inquieto. - Che si trovi qui qualche
europeo?»
«O qualche
Candiano?» disse invece Palicur.
«Ascoltiamo.»
Tesero gli
orecchi, sperando d'udire qualche altro sparo o qualche grido umano, ma nessun
rumore ruppe il silenzio che regnava nella valle. Solamente in lontananza una
cascata d'acqua rumoreggiava monotona.
«Sarà stato
qualche cacciatore, - disse finalmente Palicur. - La selvaggina non manca fra
queste montagne.»
«Che questa
detonazione abbia svegliato i pitoni?»
«Può darsi, signor
Will, e vi consiglierei di attendere qualche po' ancora prima di metterci in
marcia.»
«Non abbiamo
fretta, quindi possiamo consumare un'altra carica di tabacco.»
Lasciarono
trascorrere una mezz'ora, senza che lo sparo si ripetesse, poi scesero silenziosamente
nel burrone colle carabine armate, procedendo cautamente onde non svegliare
quei formidabili rettili. Che dormissero tutti, non era da crederlo, perché di
passo in passo i tre amici udivano di quando in quando scrosciare le graminacee
e ronzare qualche sibilo.
Palicur
s'arrestava di frequente, credendo di veder rizzarsi improvvisamente dinanzi a
loro uno di quei serpentacci, e non si riponeva in cammino se prima non si era
ben assicurato d'essersi ingannato. Anche il quartiermastro ed il mulatto si
sentivano male in gamba e si fermavano ad ascoltare, pronti a fuggire.
Avevano
raggiunto felicemente quasi la metà del vallone, il quale si prolungava per una
mezza dozzina di chilometri, quando Palicur per la decima volta sostò,
imbracciando la carabina.
«Stiamo per
venire assaliti?» chiese Will sottovoce, raggiungendolo rapidamente.
«Scende da
quella rupe.»
«Un pitone?»
«Sì, signor
Will. Cerca di tagliarci la via.»
A quindici
passi da loro s'alzava una rupe che formava una specie di sperone assai aguzzo.
Quantunque mancasse la luna, alla luce delle stelle il quartiermastro e Jody
scorsero, non senza sentirsi bagnare di sudore la fronte e percorrere da un
brivido di spavento, un enorme cilindro il quale si allungava verso le
graminacee che coprivano il fondo del burrone.
«Spara, Palicur,» disse Will.
«No, signore,
- rispose il malabaro. - Gli altri si sveglierebbero e siamo appena a metà via.
Forse non ci ha ancora veduti. Accovacciatevi e non fiatate più.»
Le erbe in
quel luogo erano abbastanza alte per nasconderli. I tre amici si appiattarono
l'uno accanto all'altro, colle dita sui grilletti delle carabine, decisi a
vendere cara la pelle.
Il pitone
continuava a scendere, svolgendo mollemente le sue anella e tenendo la testa
nascosta fra le erbe. Era uno dei più colossali che Palicur avesse veduto fino
allora, perché misurava una lunghezza di almeno dieci metri ed era grosso
quanto il tronco d'una palma già sviluppata.
«Muove verso
di noi, malabaro, - sussurrò Jody. - Non vedi agitarsi le erbe dinanzi a noi?»
«Aspetto che
mostri la testa,» rispose il pescatore di perle.
«Ed io gli
fracasserò la spina dorsale,» disse Will.
«Risparmiate i
vostri colpi, signore.»
Stava per
puntare l'arma, quando il rettile si mostrò, rizzandosi tutto d'un colpo sulla
coda e lasciandosi cadere di peso sui tre disgraziati.
«Fuoco!» gridò
Will.
Due spari
rimbombarono quasi simultaneamente: il marinaio ed il malabaro avevano fatto
fuoco nel medesimo tempo.
Il mostruoso
rettile si rialzò nuovamente, sibilando rabbiosamente e sferzando le graminacee
colla poderosa coda.
«Colpito!»
gridò Jody.
«Fuggiamo! -
comandò Palicur. - Ve...»
Non poté
finire la frase. Il pitone, quantunque avesse una mascella fracassata, l'aveva
afferrato a tradimento colla coda, avvolgendogli le gambe così strettamente, da
atterrarlo di colpo.
«Aiuto, signor
Will! - urlò il disgraziato, che si sentiva spezzare le tibie dalla stretta
irresistibile del mostruoso serpente. - Mi uccide!»
Il
quartiermastro si strappò la scure che portava alla cintola e fece atto di slanciarsi,
quando si sentì a sua volta afferrare e spingere in alto. Un altro pitone li
aveva sorpresi alle spalle senza far rumore e accorreva in aiuto del compagno.
Il marinaio
mandò un urlo terribile.
«Sono morto!»
Jody fortunatamente
era libero, essendo rimasto un po' in disparte. Il bravo mulatto aveva una
carabina a doppia canna e non aveva perduto la testa. Udendo il grido del
quartiermastro si voltò rapidamente, risoluto a non lasciarlo stritolare
dall'enorme rettile.
«Prendi,
canaglia! - urlò. - Ecco la morte dei traditori!»
Un lampo
squarciò le tenebre, seguito da una rumorosa detonazione. Il serpente, che la
palla aveva colpito nel cranio sfracellandoglielo orribilmente, svolse
rapidamente le spire, lasciando cadere l'inglese, il quale fu lesto a sottrarsi
ad una nuova stretta.
«Ed ora
all'altro!» gridò il macchinista, che conservava un ammirabile, anzi
invidiabile sangue freddo.
Girò su se
stesso e lasciò partire il secondo colpo.
Il pitone
delle rocce che stringeva il malabaro, nuovamente ferito un po' sotto alla
gola, mandò un sibilo spaventevole, poi si abbandonò senza vita, cadendo al
suolo come un ammasso di stracci, e allentando subito le formidabili spire.
«Signor Will!
Palicur!» chiamò il mulatto, che ricaricava precipitosamente la carabina.
I suoi due
amici erano già in piedi e coi calci dei fucili martellavano furiosamente i due
rettili, per paura di venire ripresi fra quelle anella che per poco non avevano
fracassato loro le costole.
«Fuggiamo! -
gridò il macchinista. - Odo altri rettili avanzarsi. Raccomandatevi alle vostre
gambe.»
«Sì, via! -
disse il malabaro. - I pitoni ci piombano addosso da tutte le parti!»
Si erano
appena slanciati a corsa disperata, quando un grido sfuggì al quartiermastro:
«La valle è in
fiamme! Siamo perduti!»
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