14 - La tragica
fine del Guercio
Annarodgburro,
prima dell'arrivo dei portoghesi, quegli audaci conquistatori che per primi
portarono le armi europee nell'Oceano Indiano, gareggiando in coraggio e anche
in crudeltà coi conquistadores spagnuoli che rovesciarono gl'imperi
americani, era la città santa dei cingalesi o meglio dei buddisti, ed ogni anno
vi accorrevano pellegrini in masse enormi.
Aveva pagode
superbe, ornate di pietre preziose, monasteri grandiosi, palazzi immensi,
statue colossali rappresentanti il dio venerato, ma quando nel XVI secolo
Albuquerque, il grande capitano portoghese, rovesciò i suoi avventurieri nelle
regioni centrali dell'isola, la città scomparve. Tutto cadde sotto la rabbia di
quegli avidi predoni, pagode, palazzi, monasteri e statue, sicché ora non vi
restano che delle rovine, grandiose sì, ma sempre rovine.
Solamente il bogaha,
non si sa per quale miracolo, sfuggì alla rabbia ed allo zelo furibondo di quei
cristiani ladroni.
Come abbiamo detto,
quell'albero, secondo le antiche tradizioni, sarebbe stato portato dal vento da
lontane regioni e si sarebbe piantato da sé in quel luogo, onde proteggere
colla sua ombra Buddha che si era fermato per qualche tempo nelle regioni
centrali dell'isola.
Nel monastero,
innalzato a breve distanza da quella famosa pianta, si trovano sepolti alcuni
dei re di Candy, che hanno meritato di essere ammessi nel soggiorno della
felicità per aver eretto dei templi e per aver fabbricato delle immagini in
onore del dio, e che i credenti hanno trasformato in buoni geni incaricati
della custodia di quel luogo sacro.
Non fu senza
una profonda emozione che il pescatore di perle salutò dall'alto di una collina
l'albero sotto la cui ombra viveva la fanciulla che tanto aveva pianto, la
figlia del vecchio Chital.
«Ti batte
forte il cuore, è vero, mio povero amico?» gli disse il quartiermastro che lo
osservava.
«È vero,
signor Will, - rispose il malabaro con voce alterata. - Mi sembra un sogno
ritrovarmi qui, dopo una così lunga assenza e tante sofferenze. No, mi pare che
la felicità sia troppa e che qualche disgrazia debba colpirmi prima di rivedere
quell'adorata fanciulla.»
«Cosa dobbiamo
ormai temere? La perla è sempre in mano nostra.»
«È vero,
eppure ho paura, signor Will.»
«È la felicità
che ti fa veder tutto nero, - disse Jody. - Animo, Palicur, scendiamo nella
valle e poi avanti verso quelle rovine. Prima di sera noi saremo ad
Annarodgburro.»
Stavano per
lasciare la collina, quando un fracasso assordante, che pareva prodotto da un
gran numero di trombe, di flauti e di gongs poderosamente percossi,
rimbombò nella valle sottostante.
«Passa il
reggimento?» disse Will, scherzando.
«Qualche
pellegrinaggio importante, - rispose il malabaro che ascoltava attentamente. -
Questa è l'epoca in cui i dissova, ossia i grandi del regno, si recano a
visitare l'albero sacro.»
Il fracasso
s'avvicinava, raddoppiando di foga. Oltre gl'istrumenti sovraccennati, si
udivano rulli di tamburi e suoni strani che parevano prodotti da triangoli di
ferro.
«Quello che
s'avanza deve essere qualche cosa di più che un dissova, - disse
finalmente Palicur. - Che sia il re di Candy?»
«Si reca anche
lui qualche volta al monastero?» chiese Will.
«Ha alcuni dei
suoi antenati sepolti lassù.»
«Aprite gli
occhi! - gridò in quel momento il mulatto, che si era issato su una roccia per
meglio dominare la valle. - È un magnifico corteo quello che sta per giungere.»
Un drappello
di Candiani, splendidamente vestiti e adorni d'un numero prodigioso di
campanelle, s'avanzava sventolando delle banderuole bianche e reggendo dei
grandi stendardi, sui quali si vedevano dipinte in rosso alcune figure
rappresentanti il sole, l'elefante, la tigre e molti altri animali spaventosi;
il drappello era seguito da un altro composto di soldati armati solamente di
sferze senza manico, formate d'una corda di canape, che facevano sibilare in
aria senza posa in atto di minaccia.
Apparvero in
seguito due o tre dozzine di musicanti muniti di lunghe trombe, di tam-tam
e di gong, di tamburoni e di triangoli di ferro che percuotevano con
gran lena, facendo rintronare tutta la valle.
«È un corteo
reale, - disse Palicur. - Fra poco vedrete il sovrano di Candy.»
«Lo
saluteremo, - disse Will. - Non spiace ai potenti indostani l'omaggio d'un uomo
bianco. Scendiamo, amici, onde poterlo scorgere più da vicino.»
Mentre si
calavano nella valle, il corteo continuava ad avanzarsi in mezzo a un fracasso
assordante.
Sfilavano
drappelli di superbi cavalieri dalle divise variopinte coi turbanti
impennacchiati, poi colossali elefanti con gran drappi rossi e pendenti
d'argento agli orecchi, montati dai due adigaf del regno, ossia dai due
primi ministri, da dissova o governatori dei distretti e da dissova
udda ossia da comandanti di truppe, poi nuovi porta bandiera e suonatori e
drappelli di malabari e di africani, incaricati della sorveglianza personale
del re.
Il
quartiermastro ed i suoi due compagni erano già scesi nella valle, fermandosi
sulla cima d'una rupe che dominava la strada percorsa dal corteo, quando
comparve l'elefante reale.
Era un animale
di dimensioni gigantesche, sfarzosamente adorno, con gualdrappe di velluto
cremisi e frange d'oro, placche d'egual metallo alla fronte, grossi turchesi,
pendenti e pendagli intorno alla massiccia fronte, e anelli d'argento alle
zampe.
Sotto una
cupoletta sorretta da quattro colonnine con tende di seta, stava seduto il
monarca. Era un bel vecchio sulla sessantina, di colorito un po' abbronzato,
con una lunga barba bianca che gli dava un aspetto maestoso, e con indosso il
gran costume di gala.
Portava sul
capo uno strano berretto a quattro corna con un mazzo di piume sul davanti, una
casacca alquanto arlecchinesca avendo le maniche d'una tinta diversa dal resto,
i calzoni larghi, di seta bianca, e cingeva una spada di forma antica, copiata
probabilmente da quelle che usavano i portoghesi al tempo della conquista delle
coste cingalesi.
Vedendo che il
quartiermastro si era levato il cappello per salutarlo, il monarca, molto
sensibile all'omaggio resogli da un uomo bianco, chinò la testa sorridendo e lo
guardò a lungo con una certa curiosità.
I tre amici
lasciarono sfilare due drappelli di cavalieri ed una compagnia di negri che
scortavano l'elefante reale e si misero dietro al corteo, onde raggiungere
insieme ad esso l'altipiano di Annarodgburro.
«Ti recherai
subito al monastero?» chiese Will a Palicur mentre stavano per toccare la cima
della montagna.
«Sì, signore,
- rispose il malabaro. - Andrò ad avvertire il gran tiruvamska che io sono
riuscito a ripescare la famosa perla e che sono pronto a restituirla, a
condizione che mi venga consegnata la figlia del vecchio Chital. Non sarei
capace di dormire se prima non potessi avere qualche notizia su quella
fanciulla.»
«Comprendo la
tua impazienza, amico. Farai bene però a lasciare la perla in nostra mano. Non
si sa mai quello che può succedere.»
«Ammiro la
vostra prudenza, signor Will.»
Solo verso
sera poterono raggiungere l'altipiano. Tutti i dintorni della rovinata città e
del monastero brulicavano già di pellegrini, essendo quella la stagione delle
grandi cerimonie religiose.
Vi erano
uomini e donne appartenenti a tutte le razze e giunti dai più lontani paesi,
contando la religione buddista più seguaci che quella di Brahma, Sivah e Visnù.
Senza tenere conto dei cingalesi che erano numerosissimi, vi erano centinaia e
centinaia di birmani, di siamesi, di cocincinesi, di giavanesi, di sumatrini,
di arracanesi e d'indiani, i quali tutti sfoggiavano i loro pittoreschi e
stravaganti costumi. Perfino i cinesi non mancavano, essendovi anche nel
Celeste Impero non pochi milioni di buddisti.
Ai tre amici
non fu cosa facile trovarsi un ricovero o meglio un canile, sotto una capanna
di frasche e di foglie che era zeppa di pellegrini. Mediante stuoie si
formarono un piccolo scomparto che rinforzarono alla meglio con dei bastoni e
con dei sassi, onde evitare il pericolo di venire derubati durante il sonno,
non mancando anche in quel luogo santo i ladri.
Cenarono alla
meglio, con un po' di riso condito con pesce, poi Palicur si alzò, dicendo:
«Ho appena il
tempo di recarmi al monastero. Dopo il tramonto il santuario si chiude e non si
riapre prima dell'alba.»
Consegnò a
Will la famosa perla, che era sempre rinchiusa nella borsetta a maglie
d'acciaio, si nascose, per precauzione, il suo coltello sotto la larga fascia
che gli cingeva i fianchi, e uscì promettendo di tornare molto presto.
Intorno
all'albero sacro, che si rizzava nel centro di quel piccolo altipiano,
stendendo i suoi immensi e frondosi rami su uno spazio notevole, vi erano
ancora alcuni gruppi di pellegrini, ma la maggior parte degli altri si era
ritirata nelle capanne, nelle baracche o fra le rovine dell'antica città, per
prepararsi la cena e riposarsi delle lunghissime marce compiute.
Il malabaro,
che, come dicemmo, era stato già altre volte in quel luogo, attraversò la
piazza e andò a fermarsi dinanzi al monastero, sulla cui soglia stavano
pregando alcuni sacerdoti coperti di ampie casacche gialle, colla testa tosata,
le braccia ed i piedi nudi, che si tenevano inginocchiati su un pezzo di panno
bianco, con accanto l'inseparabile ventaglio formato di foglie di palma, che
serve loro come ombrello quando viaggiano.
Quell'edifizio,
quantunque occupasse uno spazio considerevole, alloggiando parecchie centinaia
di tiruvamska, non aveva nulla di straordinario, sia per architettura
che per lusso. Era piuttosto basso, col tetto piatto come i templi buddisti
cinesi, con colonne di legno dipinto in rosso all'intorno e senza alcuna
doratura. L'unica cosa che poteva attrarre gli sguardi era una statua enorme,
rappresentante Buddha coricato su una specie di letto, che si sosteneva la
testa colla mano sinistra.
I sacerdoti
avevano la capigliatura simile a quella dei negri ed il viso dipinto tutto in
rosso, improntato a un'espressione di grande dolcezza e serenità. Vedendo
avanzarsi il malabaro con passo quasi precipitoso, uno dei sacerdoti si alzò,
squadrandolo con uno sguardo corrucciato.
«Chi sei tu
che vieni a disturbare le preghiere dei tiruvamska?» gli chiese con tono
di rimprovero.
«Un uomo che
farà felice il gran sacerdote di Annarodgburro, - rispose risolutamente il
pescatore di perle. - Devo parlargli all'istante.»
«Sei qualche
messo del re?»
«Sono un
indiano prima di tutto e quindi non sono un suddito, né un servo del monarca di
Candy.»
«Allora
tornerai domani.»
«Ciò che debbo
comunicare al gran sacerdote è troppo urgente perché io possa aspettare tanto.»
rispose Palicur con fermezza.
«Non importa:
torna domani.»
«Allora va' a
dire al gran sacerdote che un pescatore di Manaar ha ritrovato in fondo al mare
la famosa perla che fu rubata da questo monastero, ed è venuto a portargliela.»
Udendo quelle
parole, tutti i monaci balzarono in piedi, guardando con stupore il malabaro.
«Tu hai
trovato la perla!» esclamarono tutti ad una voce.
«Sì, io,»
rispose Palicur.
Vi fu fra i
monaci un breve silenzio. Tutti guardavano il malabaro, come per chiedersi se
quell'uomo era pazzo o voleva scherzare, ma vedendolo così calmo e sicuro di
sé, si persuasero che qualche cosa di vero ci doveva essere nelle sue parole.
«Seguimi
subito, - disse finalmente colui che per primo lo aveva interrogato. - Bada
però che se ti sei burlato di noi, ti consegneremo ai giudici del re.»
«Io non sono
venuto per ingannarvi: vi ripeto che la perla è in mia mano.»
«Vieni.»
Varcarono la
porta e si trovarono in un vasto corridoio illuminato da piccole lampade, le
cui pareti lucentissime erano coperte d'iscrizioni in lingua sanscrita.
Il monaco gli fece
salire una gradinata e lo introdusse in una vasta sala in mezzo alla quale
giganteggiava un'altra statua del dio, pure coricato.
Dinanzi, su un
magnifico tappeto, stava inginocchiato un vecchio sacerdote, che portava
intorno al capo un nastro dorato e che si faceva lentamente vento con un talapava,
ossia un ventaglio somigliante a quello che portano i sacerdoti buddisti del
Pegù.
«Che cosa
vuoi? - chiese il vecchio, interrompendo le sue preghiere. - Conduci qualche
messo del re?»
«No, gran
sacerdote, - rispose il monaco. - Ti presento un uomo il quale afferma di aver
trovato la grossa perla che ornava la fronte del nostro dio e che, come tu sai,
fu rubata da quel sacrilego straniero.»
Il vecchio,
nonostante la sua età molto avanzata, fece un soprassalto.
«Non è
possibile! - esclamò. - Non deve essere quella.»
«Tu, gran
sacerdote, verificherai il peso e vedrai che sarà esatto. Solo la tinta è
cambiata, essendo divenuta, da rosea che era, perfettamente rossa, e dandole
così un pregio maggiore, - rispose Palicur. - Ora è una vera perla sanguinosa.»
«Come può aver
cambiato colore?»
«Perché si è
imbevuta del sangue dell'uomo che la rubò. Tu sai meglio di me, gran sacerdote,
che fu chiusa entro una ferita aperta appositamente per meglio trafugarla.»
«È vero! Dove
l'hai, quella perla?»
«Si trova
nelle mani di due miei amici, dei quali uno è un uomo bianco.»
«Se
approfittassero della tua assenza per fuggire?» chiese il gran sacerdote, con
accento di timore.
«Sono troppo
fedeli per derubarmi.»
«Dove l'hai
trovata?»
«All'estremità
del banco di Manaar. Io potei sapere il punto dove il ladro si era annegato, da
un vecchio pescatore di perle che era stato incaricato d'inseguirlo.»
«E che cosa
chiederai tu per ricompensa?»
«La
liberazione della figlia del vecchio Chital che si trova fra le baiadere di
questo monastero e null'altro, - rispose il malabaro. - Essa è stata rapita
durante una festa religiosa.»
«Lo so.»
«Se tu,
sacerdote, acconsenti, la perla ornerà nuovamente la fronte di Buddha. Se
rifiuti, i miei amici la infrangeranno, così nessuno più mai l'avrà.»
«No! - gridò
il vecchio. - La figlia di Chital sarà tua ed il re, che è generoso, non ti
rifiuterà una larga ricompensa. Giurami che domani tu porterai qui la perla.»
«Lo giuro su
Brahma, Sivah e Visnù, il trimurti indiano a cui io credo.»
«Pregherò il
re di essere presente alla consegna, onde possa ricompensarti come meriti.»
«Ed io non
mancherò. La figlia di Chital è sempre qui?» chiese Palicur con voce
profondamente commossa.
«Sempre.»
«Posso
vederla, un istante solo?»
«Quando avrai
mostrato la perla. Noi rammentiamo un tentativo fatto per rapirla e dobbiamo
prendere le nostre precauzioni.»
Il malabaro
mandò un lungo sospiro, tuttavia, premendogli di non tradirsi, non insistette
nella domanda.
«A domani,»
disse.
«A mezzodì,»
rispose il gran sacerdote, congedandolo con un gesto. Il monaco, che l'aveva
introdotto nel monastero, lo riaccompagnò fino alla porta, sulla cui soglia
vegliavano in quel momento alcuni soldati dei re.
Il malabaro,
un po' triste per non aver potuto vedere la fanciulla amata, si allontanò
subito in preda a profondi pensieri.
Il piccolo
altipiano era in quel momento deserto, essendo il sole tramontato già da
qualche ora. Anche sotto l'albero sacro non vi erano più i pellegrini che aveva
scorto nel momento in cui attraversava la piazza. Per di più la notte era
oscurissima, essendo le stelle coperte da larghe strisce di vapori piuttosto
densi.
Aveva appena
percorso tre o quattrocento passi, quando gli parve di udire dietro di sé un
passo leggero, ma che tuttavia non sfuggì al suo orecchio finissimo, abituato a
percepire i più lievi rumori.
Si arrestò
girando intorno uno sguardo sospettoso, poi, non avendo scorto nulla che
potesse allarmarlo, prese un viale fiancheggiato da alte palme che doveva condurlo
nei pressi della città rovinata, dove s'ergeva la catapecchia abitata da Will e
dal macchinista. Cominciava già a distinguerla, nonostante l'oscurità, quando
si sentì afferrare improvvisamente alle spalle da due mani vigorose e atterrare
di colpo.
«La perla o
t'uccido!» gli sibilò agli orecchi una voce minacciosa. Palicur, come si sa,
oltre ad essere dotato d'una forza straordinaria, anzi veramente erculea, era
anche agile quanto una pantera. Sentendo l'avversario premergli il dorso e
puntargli fra le spalle la punta di qualche coltello o d'un pugnale, con una
mossa fulminea si riversò, abbrancando così fortemente l'avversario da
strappargli un grido di dolore. Nel medesimo istante gli afferrava la mano
destra come dentro una morsa, arrestando l'arma che doveva inchiodarlo al
suolo.
Una bestemmia,
che parve un ruggito, gli sfuggì.
«Il Guercio!
Ah! Brutto sciacallo!»
«Sì, il
Guercio che ti prenderà la perla e che ti ricondurrà a Port-Cornwallis!» disse
il cingalese, digrignando i denti e tentando di liberarsi il polso da quella
stretta poderosa.
«Ora mi
pagherai tutti i tradimenti, miserabile!»
Palicur sapeva
di essere più robusto del cingalese. Quantunque la sorpresa di trovarsi
improvvisamente dinanzi a quell'odiato nemico, che credeva ancora nella Città
delle perle, fosse stata forte, comprendendo che se fosse stato vinto non
avrebbe avuto quartiere, morse ferocemente un orecchio del cingalese, poi,
approfittando di quell'acuto dolore, l'afferrò con maggior rabbia, facendogli
crocchiare le costole.
I due
terribili nemici impegnarono allora una lotta spaventosa. Si rotolavano al
suolo tentando di strangolarsi, avendo l'uno perduto il coltello e non potendo
l'altro cavare il suo che teneva nascosto sotto la fascia.
Si mordevano,
tentavano di porsi l'uno sotto l'altro, si percuotevano con pugni poderosi,
ruggivano come due belve feroci, come due tigri lottanti fra di loro per
disputarsi una preda. Palicur, a cui il furore raddoppiava le forze, cacciava
le sue unghie nei fianchi dell'avversario e quando gli si presentava il destro
lo tempestava sul viso, schiacciandogli il naso e gli occhi.
A un tratto il
Guercio mandò un urlo di trionfo. Nel dibattersi era riuscito a ritrovare il
coltello che gli era sfuggito di mano.
«Sei morto!»
urlò.
La lama si
piantò profondamente nel petto sotto la spalla destra del malabaro, un po'
sopra il cuore, facendo scaturire un getto di sangue. Fu il primo e anche
l'ultimo colpo. Il ferito in quel momento aveva afferrato il cingalese al
collo. Le sue dita poderose si sprofondarono come uncini nelle carni,
stringendolo alla strozza con forza suprema.
«Grazia...
gra...» balbettò il miserabile.
«Muori...
infame! - ruggì il malabaro, raccogliendo le sue ultime forze. - Muori!»
Il Guercio
rantolava sotto quella stretta irresistibile. Gli occhi gli uscivano dalle
orbite, mentre la lingua gli si allungava fuori dalla bocca.
Ebbe un ultimo
spasimo, i suoi lineamenti si contrassero orribilmente, mandò un ultimo rantolo
o meglio un urlo strozzato, poi s'abbandonò.
Palicur con
una scossa lo gettò da parte, si alzò a gran fatica comprimendosi con ambo le
mani la ferita, onde arrestare il sangue che gli sfuggiva rapido bagnandogli la
casacca, e si diresse, barcollando penosamente, verso la casupola abitata dai
suoi amici.
Per sua buona
ventura Jody, inquieto per la sua prolungata assenza e temendo che gli fosse
accaduto qualche disgrazia, era uscito, anche per consiglio del quartiermastro,
portando con sé una carabina.
Vedendo
avanzarsi quella forma umana che minacciava ad ogni istante di cadere, spianò
l'arma gridando:
«Chi vive?»
«Io...
Palicur...» rispose il malabaro. Il mulatto in pochi salti lo raggiunse.
«Palicur! che
cos'hai?» gli chiese, ricevendolo fra le sue braccia, nel momento in cui il
malabaro incespicava in una radice.
«Taci... non gridare...
m'hanno ferito... il signor Will?»
«Chi?»
«Alla...
capanna... non sarà nulla... perdo molto sangue.»
«Appoggiati al
mio braccio.»
Il
quartiermastro, che aveva udito il grido del mulatto, era già sulla soglia del
bugigattolo, tenendo in mano una lampada.
«L'hanno
ferito, signor Will! - disse Jody con voce commossa. - È tutto insanguinato.»
«Morte e
dannazione! - esclamò il marinaio, impallidendo. - Avevo il presentimento d'una
disgrazia!»
Aiutarono il
pescatore di perle a entrare e lo coricarono su un fitto strato di foglie che
serviva loro da letto.
«Non facciamo
rumore, onde gli altri non s'accorgano di quello che è accaduto, - disse il
quartiermastro. - Lascia che esamini prima la ferita; se potrai ci dirai chi ti
ha ridotto in questo stato. Per ora ti proibisco di aprire la bocca.»
Aprì la
casacca dell'indiano, squarciò con un rapido colpo di coltello la camicia che
era inzuppata di sangue e mise allo scoperto la ferita.
«Ecco una
magnifica pugnalata, - disse. - Un centimetro e forse meno più in basso e ti
spaccava il cuore, mio povero amico. La ferita è più dolorosa che pericolosa;
io me ne intendo di queste cose, essendo stato anche infermiere a bordo della Britannia.»
«Jody, va' a
prendermi dell'acqua e dammi dei fazzoletti. Ve ne sono alcuni puliti nella mia
bisaccia.»
Mentre il
macchinista portava una brocca piena d'acqua e le pezze di tela, il
quartiermastro riunì abilmente i due margini della ferita, lavò accuratamente
il sangue, poi fece una fasciatura senza che il malabaro, il quale conservava
un sangue freddo meraviglioso, mandasse un solo gemito.
«Puoi
parlare?» chiese il quartiermastro, quand'ebbe finito.
«Finché
vorrete, signor Will, - rispose il malabaro. - Noi, pescatori di perle, abbiamo
la pelle dura. Non soffro gran che, quantunque la lama sia entrata assai nella
spalla.»
«Chi ti ha
assalito dunque?»
«Il Guercio.»
«Lui!»
esclamarono ad una voce Jody ed il marinaio.
«Sì, ero
appena uscito dal monastero, quando mi piombò alle spalle e mi atterrò
intimandomi di consegnargli la perla sanguinosa.»
«È fuggito?»
«Io credo di
averlo strangolato.»
«Credi? Noi
vogliamo accertarcene. Dov'è caduto?»
«A quaranta
passi da qui.»
«Jody, prendi
una delle mie pistole e va' a finire quel miserabile, se respira ancora, -
disse il quartiermastro. - Quel rettile deve sparire per sempre dalla
superficie della terra.»
«Gli farò
scoppiare il cranio, - rispose il mulatto, uscendo rapidamente. - Quel furfante
ci ha dato troppi fastidi.»
«Come ti hanno
ricevuto al monastero?» chiese Will al ferito.
«Domani a mezzodì
aspettano la perla. Il gran sacerdote ha acconsentito a restituirmi la
fanciulla e mi ha promesso, per di più, un regalo da parte del re. Signor Will,
mi sento finalmente felice e forse è per questo che non provo alcun dolore.»
«Ma tu non
potrai recarti colà, ferito come sei.»
«Ci andrò,
signor Will, - disse il malabaro con suprema energia. - Voi mi sorreggerete.»
In quel
momento udirono al di fuori uno sparo e poco dopo videro entrare Jody colla
pistola ancora fumante in mano.
«Forse era morto,
- disse il mulatto con un feroce sorriso, - nondimeno io, per maggior
precauzione, gli ho cacciato una palla nel cranio. Se non è un demonio, quello
sciacallo non ci importunerà più.»
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