V L'ISOLA
RATMANOFF
Il capitano Weimar sentendo la nave ferma e comprendendo che forse una
grave avaria le era toccata, gettò un vero ruggito.
Con un vigoroso colpo di timone tentò dapprima di trarla da quegli
scogli che potevano, da un istante all'altro, sventrargliela, ma non
riuscendovi si precipitò verso prua dove si affollavano i marinai gettando
grida di terrore. Hostrup, che anche in quel terribile frangente, che pur
poteva diventare per tutti fatale, non aveva perduto un millesimo della sua
tranquillità, vi era già.
- Perduti? - gli chiese il capitano col denti stretti.
- Forse no! - rispose con voce calma il tenente.
Il capitano respinse alcuni marinai e salì sul bompresso.
Il «Danebrog» posava la prua su di un banco di sabbia, riparato a destra e a
sinistra da una doppia fila di scoglietti. La poppa però galleggiava e se da
una parte era un bene, dall'altra era anche un male poichè le onde,
sollevandola violentemente minacciavano di disarticolare il vascello.
- Che ci sia una falla? - chiese il tenente,
- Lo temo! - rispose Weimar - Mi pare di
vedere un'apertura un po' sotto la linea di galleggiamento. Ira di Dio! Anche questa disgrazia doveva toccarci! Non bastava dunque la
speronata dell'americano? Povero il mio «Danebrog»!
- Ma forse
la cosa non è grave, capitano.
- Ma chi turerà la falla? Qui siamo come in
mezzo ad un deserto.
- Abbiamo un abile carpentiere a bordo.
- Scendiamo nella stiva, signor Hostrup.
I due comandanti fecero aprire il boccaporto
maestro e scesero nel ventre del vascello preceduti da Koninson e da mastro
Widdeak che avevano accese due lanterne. Rimosse le botti che occupavano la
stiva, si diressero verso prua dove si arrestarono, ascoltando con profonda
attenzione.
Udirono distintamente un sordo gorgoglio,
dovuto senza dubbia all'acqua che entrava nella falla apertasi.
- Sarà grande l'apertura? - si chiese con
ansietà il capitano.
- Non lo credo, - disse mastro Widdeak. - Il
gorgoglio non è molto forte.
- Dobbiamo levare le botti? - chiese
Koninson.
- Per ora è inutile, - disse il tenente. -
Finchè la burrasca non sarà cessata, nulla potremo fare.
- Non c'è pericolo di colare a picco?
- No, - disse il capitano. - Il «Danebrog» è fortemente
incagliato e la poppa è molto alta. Saliamo in coperta.
Abbandonarono la stiva e tornarono sulla
tolda ove i marinai, ancora pallidi, li attendevano con grande ansietà. Il
capitano con poche parole li rassicurò.
Pel
momento nulla eravi da fare, poichè l'uragano continuava a infuriare in
siffatta maniera da rendere impossibile la calata delle baleniere.
Il capitano fece gettare un'àncora a poppa
per assicurare maggiormente il vascello, e altre due ne fece gettare fra gli
scoglietti, a babordo l'una e a tribordo l'altra. Ciò fatto attese, in preda ad
una certa agitazione che non riusciva a vincere, che il mare si calmasse.
La sua pazienza e quella dell'equipaggio
furono messe a dura prova, poichè l'uragano infuriò tutto il giorno, scuotendo
fortemente la nave che gemeva sinistramente sul suo letto di sabbia.
Verso però le 11 pomeridiane quei formidabili
soffi a poco a poco scemarono di violenza e attraverso gli squarciati vapori
tornò a mostrarsi il sole che allora radeva l'orizzonte occidentale.
Alla mezzanotte una calma assoluta regnava
negli strati superiori, e l'aria, poco prima così agitata e fredda, era
diventata così tiepida da far quasi credere di essere nel Messico anzichè nello
stretto di Behring. Il mare però mantenevasi ancora agitatissimo e continuava a
infrangersi con grande violenza contro le isole, inoltrandosi nei «fiords» con muggiti
prolungati.
L'indomani, 2 settembre, a bassa marea il
capitano, il tenente, Widdeak e il carpentiere scesero in una baleniera e
approdarono sul banco dove la prua del vascello era rimasta quasi interamente
allo scoperto.
L'avaria causata dal violentissimo urto era
gravissima ma non irreparabile. A pochi piedi dall'asta di prua, subito sotto
la linea di galleggiamento, la punta aguzza di uno scoglietto aveva aperto un
buco così grande che vi poteva passare comodamente un barile. La chiglia
fortunatamente non aveva riportato alcun guasto, avendo incontrato un banco di
sabbia, in cui vi si era quasi interamente seppellita,
- Che ne dici, carpentiere?- chiese il
capitano con inquietudine.
- Il colpo è stato fierissimo, - rispose
l'interrogato, - e la falla è ragguardevole. Però....
- Però?... - disse il capitano, nei cui
sguardi brillò un lampo di gioia.
- La si turerà.
- Quanto tempo chiedi? Bisogna che sia breve
affinchè possiamo approfittare della gran marea del 12 settembre.
- Per quel giorno il Danebrog sarà pronto a
prendere il mare.
- E quando avremo lasciato il banco, dove
andremo? - chiese il tenente che caricava flemmaticamente e con profonda
attenzione la sua pipa.
- Vi spiacerebbe seguirmi verso il nord? -
disse il capitano, guardandolo fisso fisso.
- Ne sarei lietissimo, signore.
Il capitano gli prese la destra e gliela
strinse fortemente.
- Siete un brav'uomo, signor Hostrup.
- Mi sta sul cuore la scommessa, signor
Weimar, - rispose Hostrup. - E da parte mia rischierò senza esitare la mia
vita, pur di tenere sempre alta la fama dei balenieri danesi.
- Grazie, tenente. Ed ora, carpentiere, al
lavoro.
Dovendosi approfittare della sola bassa
marea, il carpentiere si mise alacremente all'opera, aiutato da una squadra di
marinai che su un'altra baleniera gli avevano recato gli attrezzi necessari,
una considerevole quantità di legname e parecchie grosse lastre di rame, mentre
alcuni altri sgombravano la prua delle botti che l'occupavano e mettevano in
opera le pompe per estrarre l'acqua entrata dalla falla.
Il tenente Hostrup, che di simili lavori si
intendeva poco, tornò a bordo a prendere il suo fucile.
- Faremo una passeggiata sull'isola, - disse
a Koninson. - Vedo dei grossi uccelli e forse nei «fiords» si nasconde
qualche foca o qualche tricheco. Prendi un fucile e seguimi....
- Maneggio meglio il rampone che le armi da
fuoco, tenente, - rispose il fiociniere. - Voi penserete ai volatili e io alle foche.
- Come vuoi, amico.
S'imbarcarono sul piccolo canotto e presero
il largo girando attorno agli scoglietti sui quali venivano a rompersi le
ultime onde sollevate dall'uragano.
Arrancando con lena, in brevi istanti
raggiunsero l'isola, ma da quella parte la costa non offriva approdi, essendo
tagliata quasi a picco e molto alta. Attorno vi volteggiavano numerosi uccelli
marini, i quali fra i crepacci avevano piantato i loro nidi.
Proseguendo, i due cacciatori scoprirono ben
presto un piccolo «fiord», il quale
terminava in una sponda bassa coperta in parte d'una sabbia finissima e in
parte di ciottoloni neri e arrotondati dal continuo lavorio delle onde.
Legarono il piccolo canotto ad una rupe e
balzarono a terra
portando le loro armi.
L'isola offriva un brutto aspetto. Qua e là
si rizzavano delle alture aridissime, più oltre delle grandi rocce nere nei cui
crepacci scorgevansi alcuni magri licheni, qualche rosa canina selvatica, o
qualche pianticella di ribes o di uva spina.
- Che desolazione! - esclamò Koninson. -
Troveremo almeno delle foche?
-
Lo spero, fiociniere, - rispose il tenente. - Una volta qui erano talmente
numerose, che alcuni balenieri vi facevano i loro carichi d'olio; oggi però, in
causa delle cacce accanite, non se ne incontrano che pochissime.
- Dovevano, distruggerne un numero enorme
quei balenieri per fare un carico intero.
- Delle migliaia, Koninson.
- Allora non tarderanno a sparire
dappertutto.
- Ciò avverrà sicuramente e forse fra non
molto. Già le sponde dell'America settentrionale cominciano a essere spopolate.
- Che disgrazia! E dire che sono animali così
inoffensivi! Se la prendessero almeno cogli orsi bianchi, quei balenieri
paurosi.
Dato uno sguardo alle rive, i due cacciatori
si addentrarono nell'isola, ove gli uccelli si mostravano talmente numerosi da
oscurare talvolta la luce del sole.
Ora passavano immense bande di urie, uccelli
dalle penne nere e bianche, il becco lungo e dritto e le gambe collocate così
indietro da costringere quei volatili a sedersi anzichè coricarsi; ora stormi
di strolaghe, bellissimi uccelli col petto e il dorso neri, le ali macchiate e
le parti inferiori di un bianco niveo, e ora lunghe file di oche bernine,
grosse come un'oca comune e che facevano un baccano indiavolato.
- Per bacco! - esclamò il tenente. - Se si
volesse fare un carico di uccelli la fatica non sarebbe molta.
- Accontentiamoci di empire la dispensa del
cuoco, - disse Koninson. – All'opera, signore.
II tenente si arrampicò su di una rupe, si
accomodò sulla cima e di là cominciò a sparare contro le bande di volatili che
gli passavano sopra, a destra, a sinistra e dinanzi senza mostrarsi spaventate.
In breve parecchi gabbiani, oche, urie e
strolaghe si trovarono a terra colpite dal piombo del valente cacciatore.
Koninson ammazzava gli uccelli feriti a colpi di rampone.
Quelle continue detonazioni finirono però
collo spaventare i volatili, i quali si allontanarono dalla rupe volando verso
le coste dell'isola.
- Siete un tiratore da far paura, - disse
Koninson al tenente, che raccoglieva le vittime. – C'è qui tanta carne da
nutrire per un'intera settimana l'equipaggio del «Danebrog».
- E non ho ancora finito, fiociniere. Ho
visto laggiù due grossi uccelli e conto di abbatterli.
Ammucchiarono le vittime sotto la sporgenza
di una rupe e si rimisero in cammino riaccostandosi al mare, e precisamente
verso un piccolo «fiord», sopra il quale volteggiavano due grandissimi
uccelli dalle penne bianche e nere.
-
Cosa sono? - chiese Koninson. - Aquile forse?
- Aquile qui? A me sembrano due albatros.
- Ma gli albatros sono uccelli dei mari australi, signore.
- Non ti dico, di no, ma non pochi di quei voraci giganti
vanno a piantare i loro nidi, sulle isole dei mari della Cina e del Giappone e
in giugno si spingono, sin qui.
- La loro carne è eccellente?
- Se devo dirti la verità, è coriacea; però tenuta qualche
tempo nel sale e condita con una salsa piccante, non è sgradevole.
I due cacciatori giunsero ben presto al «fiord», ma i due
albatros, un po' magri si ma veramente giganteschi, le cui ali spiegate
misuravano non meno di cinque metri, si allontanarono e così rapidamente, che
in pochi istanti, furono fuori di vista.
- Vigliacchi! esclamò il fiociniere.
- E lo sono davvero, malgrado la loro mole e, il loro
formidabile rostro - disse il tenente.
- Ma... oh!...
- Che hai?
- Guardate alla vostra sinistra, presso il mare! - disse
Koninson a bassa voce.
Il tenente guardò nella direzione indicata e sopra una roccia
che cadeva a picco sul mare, ma poco alta, scorse una massa rossiccia, di
dimensioni ragguardevoli.
- È una foca! - disse Koninson.
- No, deve essere un tricheco - disse il tenente, che caricò
subito il fucile a palla.
- Bisogna ammazzarlo.
- Lo ammazzeremo, fiociniere. Cerchiamo però di non farci
vedere, altrimenti si lascerà cadere in mare.
Si gettarono in mezzo alle rocce e tenendosi sempre nascosti
giunsero a soli duecento passi dalla preda che si scaldava ai raggi del sole
mezza coricata su un fianco.
Il tenente non si era ingannato. Era proprio un tricheco, che
taluni chiamano anche morsa, lungo quasi quattro metri e con una circonferenza
di tre, coperto di un pelo corto, scarso e rossiccio. Si vedevano distintamente
i suoi lunghi denti di avorio che scendono verticalmente dalla mascella
superiore.
Tali animali, che un tempo erano numerosissimi su tutte le
coste settentrionali dell'Asia e dell'America, sono inoffensivi a terra, ove si
muovono con molto stento, ma aggrediti in mare, ove nuotano con grande
sveltezza, si difendono disperatamente e più di una volta i loro solidi denti
spezzarono le scialuppe dei cacciatori.
Il
tenente mandò Koninson dietro una rupe che era a breve distanza da quella
occupata dal tricheco, poi puntò lentamente il fucile, mirò con somma
attenzione e sparò.
Il tricheco, colpito alla testa, fece un brusco salto mandando
una specie di ruggito e si mise a dibattersi, cercando tuttavia di guadagnare
l'orlo della roccia per precipitarsi in mare. Ma Koninson era vicino; in dieci
salti lo raggiunse e gli vibrò una tale ramponata da finirlo quasi sul colpo.
- Bella fucilata - esclamò il fiociniere volgendosi al tenente
che si avvicinava colla solita calma. - Questi sì che sono animali che valgono
una palla!
- Lo credo, Koninson. È tanto grasso questo tricheco che ci
fornirà più di due barili d'olio.
- E olio migliore di quello della balena, signor Hostrup.
- Che ce ne siano degli altri?
- Ne dubito, Koninson. I balenieri hanno distrutto anche i
trichechi.
- E ve n'eran molti in quest'isola?
- Delle migliaia, fiociniere. Mi fu narrato da un capitano olandese,
quindici anni, or sono, che un baleniere norvegese in quattro sole ore ne
ammazzò più di cinquecento.
- Che strage!
- E so pure, ma non mi ricordo più ora in quale località, che
l'equipaggio di un bastimento inglese nel 1705 ne uccise ben ottocento nello
spazio di sei ore e che tre anni più tardi un altro equipaggio ne uccise
novecento in sette ore.
- In una giornata, in quei tempi si caricava un bastimento di
olio.
- Ed erano carichi quelli che valevano molto di più dei nostri,
poichè anche le pelli dei trichechi hanno valore e i denti, che danno un avorio
più compatto e più bianco di quello degli elefanti, si pagavano molto cari.
- E come faremo a trasportare a bordo questo bestione?
- Lasciamolo qui. Manderemo i marinai a raccoglierlo.
Continuiamo l'escursione Koninson.
- I due cacciatori si misero a costeggiare l'isola facendo
un'ampia raccolta di uova di uccelli marini, per lo più depositati sulle sabbie
o nei crepacci delle rocce e sparando di quando in quando sui gabbiani.
Alle
6, carichi come muli, s'imbarcavano nel piccolo canotto e tornavano a bordo
dove il carpentiere, il capitano, mastro Widdeak e i marinai lavoravano
febbrilmente attorno alla falla.
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