VI IL DISINCAGLIAMENTO
La mattina del 12 settembre, giorno della grande marea, il
«Danebrog» era pronto a riprendere il mare. La falla era stata accuratamente
chiusa dal carpentiere, e tanto bene da non lasciare penetrare la più piccola
goccia d'acqua e da poter sopportare gli urti dei ghiacci. Non restava da farsi
che il disincagliamento, operazione difficile ma sul cui esito nessun uomo
dell'equipaggio dubitava.
Mancando quattro sole ore alla massima altezza del flusso, i
preparativi furono alacremente spinti innanzi. Per il mezzodì tutto doveva
essere pronto e ogni uomo al suo posto, onde non correre il pericolo di far
riuscire vani gli sforzi e dover attendere parecchi altri giorni.
Il capitano innanzi tutto fece trasportare tutto il carico
della stiva a poppa per rendere più leggera la prua e quindi più facile il
disincagliamento. Dopo di che fece imbarcare due delle maggiori ancore che
furono gettate a sessanta braccia dalla poppa, su di un fondo resistente, e
fermare le gomene ai due molinelli di bordo, mentre il tenente faceva preparare
le vele, per allontanarsi subito, disincagliata la nave, dal pericoloso bacino
che gli scogli chiudevano quasi interamente.
Alle 10 tutto era pronto a bordo del «Danebrog» e tutti gli
uomini ai loro posti.
La
marea cresceva con qualche rapidità, coprendo le nere degli scoglietti e
producendo sopra questi un forte gorgoglio. Ben presto quasi tutte le rocce
scomparvero e a prua della nave si udì un leggero fremito seguito tosto da
alcuni scricchiolii.
- Pronti! - gridò il capitano.
I marinai si curvarono sulle aspe dei molinelli e attesero con
trepidazione. Più di un viso era diventato pallido per l'emozione.
I fremiti e gli scricchiolii continuavano, anzi diventavano
più forti man mano che il flusso montava.
Alle 12,25 il capitano, che aveva in mano un cronometro, gridò
con voce tonante:
- Forza, ragazzi! Forza!
I marinai diedero un colpo violento alle aspe che si
curvarono. Le due gomene di poppa si tesero senza che le ancore si movessero,
ma la nave, quantunque continuasse a scricchiolare, non si mosse. Il capitano
impallidì e si sentì bagnare la fronte di un freddo sudore.
- Forza, forza! - ripetè.
Il tenente si precipitò in aiuto dei marinai che facevano
sforzi disperati. Passarono alcuni secondi che parvero lunghi come tanti minuti
poi il «Danebrog» scivolò bruscamente sulla sabbia retrocedendo con notevole
velocità. Il capitano, che era subito balzato a prua, lasciò andare a picco un
ancorotto, mentre il tenente correva alla ribolla del timone.
Il «Danebrog» percorse cinquanta braccia, poi si arrestò di
colpo a meno di una gomena dagli scogli.
Un urrah fragoroso irruppe da tutti i petti. La nave baleniera
era ormai salva.
Il tenente si fece incontro al capitano che era diventato
raggiante di gioia e gli strinse vigorosamente la destra.
- Dio ci protegge - gli disse.
- Bisogna crederlo, signor Hostrup, - rispose Weimar. - Ho
tremato assai per il mio «Danebrog», che amo come se fosse un pezzo della mia
carne. Se l'avessi perduto non mi sarei più consolato.
- Ed ora andiamo?….
- Sulle coste della Giorgia, tenente. Faremo una rapida
campagna, poi torneremo a sud.
- Con un carico completo, speriamo.
- Sì, tenente. Il cuore mi dice che vinceremo la scommessa.
- Dio lo voglia, capitano.
Non essendo prudente fermarsi fra quegli scogli, Weimar fece
calare in mare le baleniere e rimorchiare il «Danebrog» al largo.
Alle 2 del pomeriggio, dopo aver visitata la riparazione che
fu trovata perfettamente asciutta, i marinai spiegavano le vele e la nave si
rimetteva in cammino dirigendosi verso il capo di Galles, che forma l'estrema
punta, verso occidente, della costa americana.
Il mare era quasi tranquillo, di un verde superbo e affatto deserto.
Solamente delle procellarie e dei gabbiani volteggiavano sopra le larghe
ondate, mandando di quando in quando delle rauche strida.
Un vento fresco, ma che soffiava irregolarmente, ora da sud ed
ora da sud-sud-est, gonfiava le vele della nave, la quale scivolava con
celerità discreta lasciandosi a poppa un solco spumeggiante.
- Signor Hostrup, - disse Koninson avvicinandosi al flemmatico
comandante che guardava attentamente le onde, appoggiato alla murata di
tribordo - impiegheremo molto a raggiungere la costa americana?
- Prima di mezzanotte gireremo il capo di Galles, fiociniere.
- Ditemi, tenente, è vero che questo stretto ha una profondità
spaventevole?
- Sì e tanto che se una fregata affondasse, i suoi alberetti
rimarrebbero fuori dall'acqua. Se vuoi saperlo, la sua spaventevole profondità
non supera i diciannove metri.
- Soli?
- Soli, Koninson, nè uno più nè uno di meno.
- E sono molti anni che fu scoperto questo stretto?
- Non troppi, Koninson. Prima del 1741 lo si ignorava, anzi
molti credevano che l'America fosse unita all'Asia.
- E chi lo scoperse?
- Vito Behring
- Un russo?
- Per i russi sì, ma per gli altri no, poichè Bhering è nato
in Danimarca come ci sono nato io e come ci sei nato tu.
- Ah! Un nostro compatriota! Deve essere stato un grande
marinaio.
- Se non lo fosse stato, non si sarebbe spinto fin qui, a quel
tempi in cui si ignorava dove erano le coste, le isole, gli scogli, i banchi e
quali le correnti.
- Aveva intrapreso la spedizione per suo conto?
- No, per incarico dell'imperatrice delle Russie, Caterina. E
ciò accadeva nel 1728, ma Behring volle prima esplorare le coste siberiane e accertarsi
se il Giappone era unito o staccato dalla penisola di Kamtsciatka. Dapprima
navigò verso sud-est, ma non trovando alcuna terra mise la prua verso nord-est
e dopo 44 giorni, a 58° 50' di latitudine, scopriva le montagne della costa
americana.
- E vi sbarcò?
- No, poichè allora scoppiò una tempesta così orribile che lo
costrinse a ritornare, e quale ritorno! Il 3 novembre la spedizione naufragava
su di un'isola lontana 160 chilometri dalla penisola di Kamtsciatka e colà
pativa tali sofferenze che molti marinai perirono e fra questi anche Behring.
E qui viene un punto molto oscuro.
Si narrò da taluni che quando lo sfortunato navigatore fu
gettato nella fossa onde seppellirlo, respirava ancora anzi che respingeva colle
mani la sabbia che gli veniva gettata sopra.
- Che sia stato commesso un delitto?
- Chi può dirlo?
- Povero Behring! E cosa successe dei suoi compagni?
- Rimasero colà tutto l'inverno, poi fabbricarono una
navicella coi rottami della nave naufragata e ripresero coraggiosamente il
mare; dopo altri patimenti riuscirono a raggiungere le coste della penisola di
Kamtsciatka.
In quell'istante si udì un marinaio, che era salito sulla gran
gabbia segnalare la costa americana, che una nebbiola aveva fino allora tenuta
celata. Era il capo di Galles, punta scoscesa, aridissima, dietro la
quale, ad una certa distanza però, si elevano delle montagne che per la maggior
parte dell'anno si vedono coperte di neve.
Il «Danebrog», che correva assai, si avvicinò alla costa, poi
virò di bordo dirigendosi verso il golfo di Krotzebue che si apre fra il capo
Krusenstern a nord e il capo Espemberg a sud e che rinchiude ad est la baia di
Escholtz, davanti la quale si trova l'isola Chamisso, a sud quella di Spasariet
e ad ovest quella di Buona Speranza.
A due chilometri dal capo di Galles la costa americana, che
fino allora si era mostrata dirupatissima, cominciò ad abbassarsi e apparvero
immense paludi sulle quali si vedevano volteggiare migliaia di oche, di
gabbiani, di gazze marine, di strolaghe e di urie. Le loro grida, portate dal
vento, giungevano fino a bordo del «Danebrog».
Alcuni di quegli uccelli vennero fin presso la nave, e il
tenente si divertì a sparare alcune fucilate.
Durante la notte del 12-13 - notte per modo di dire, poichè il
sole splendeva sempre - il vento crebbe considerevolmente, accelerando la corsa
del «Danebrog», e la temperatura, fino allora dolcissima si abbassò
improvvisamente a 0°. L'indomani il legno girava il capo Espemberg e passava
dinanzi al golfo di Kotzebue che s'insinua entro terra per ben venti leghe su
una larghezza di ventitrè. Le sue coste erano alte, spalleggiate da gruppi di
montagne e apparivano affatto deserte. Nessun canotto solcava le acque
tranquille del golfo, dove in certe epoche si recano a pescare gli indiani
Kitgoni che abitano le sponde settentrionali, e gli indiani Kiumisi che abitano
le meridionali.
Di balene nessuna traccia. Invece furono segnalati alcuni
delfini gladiatori, nemici accaniti delle prime, dotati di una forza prodigiosa
e di una voracità straordinaria. Qualcuno era lungo più di otto metri.
Il 14, presso il capo Krusenstern, Koninson che guardava
sempre attentamente il mare sperando di trovare quelle materie oleose che si
lasciano addietro le balene, segnalò un banco di «boete», il quale aveva fatto
cangiare tinta all'acqua, che appariva bruna anzichè verdastra. Questi banchi,
che le balene cercano avidamente, sono formati da piccoli crostacei in forma di
gamberi ma il cui diametro non supera i due millimetri e si producono in
primavera e in estate. Talvolta hanno una lunghezza di quindici e persino venti
leghe, una larghezza di una o due e uno spessore di quattro o cinque metri.
- Una volta, quando s'incontravano questi banchi, si trovava
sempre una balena o anche due - disse malinconicamente Koninson, volgendosi
verso il tenente che gli stava presso.
- Mio caro fiociniere, oggi le balene sono assai scemate
rispose Hostrup. - Non sono molti secoli che si vedevano a frotte nel mare di
Biscaglia, ed ora se si vuol trovarne una bisogna risalire in questi mari.
- Sono forse diminuite a causa di qualche malattia?
- No, a causa della caccia accanita dei balenieri. Ogni anno
se ne distruggono un numero grandissimo, anzi non si esita ad affermare che
nessuna balena può raggiungere il suo completo sviluppo, perchè prima di questo
cade sotto il rampone dei fiocinieri.
- E siamo solamente noi a distruggerle?
- Purtroppo no. Le balene hanno altri nemici e forse più
accaniti di noi.
- E quali mai? Chi osa sfidare simili giganti che hanno una
coda così possente?
- Il più feroce è un crostaceo detto «pidocchio di balena», il
quale aderisce talmente alla pelle dei cetacei che per staccarlo bisogna farlo
a brani.
- Ma come può, un crostaceo, uccidere una balena?
- Nel modo più facile, Koninson. Questo pidocchio le si
aggrappa nei punti più delicati, o sulle labbra, o sugli organi generativi e
comincia a rodere cacciandosi entro le carni, causandole dolori sì atroci che
dopo un certo tempo la disgraziata è costretta a morire.
- Che mostro!
- Ma ci sono altri nemici e non meno feroci. I capodolii, come
ben sai, assalgono le balene tutte le volte che le incontrano e le mordono,
così orribilmente da ucciderle.
- Ho assistito una volta a una simile lotta.
- Ve ne sono degli altri: i pescispada e i narvali, che si
divertono a cacciare il loro acuto corno nel ventre dello sfortunato cetaceo; e
i delfini, specie quelli detti gladiatori, che gli si cacciano, in bocca e ne
divorano la lingua.
- Che canaglie! E di tutti questi nemici quale è il più
terribile?
- L'uomo, il quale ogni anno ne distrugge centinaia e
centinaia.
- Allora verrà un giorno che non se ne troverà più una.
- Sì, se le balene non si affrettano a rifugiarsi al di là dei
ghiacci eterni, sotto il polo.
- E nell'oceano australe sono pure così accanitamente cacciate
dai balenieri?
- Tanto come su questi mari.
- E le balene di quell'oceano sono eguali a quelle di questo?
- No, Koninson; ve ne sono tre specie e tutte differenti dalla
balena franca che noi cacciamo. Vi si trova il «rightwhale», un cetaceo molto
grande e che è privo della pinna natatoia; l'«hump-back» con due pinne
biancastre e che è grosso come una balenottera, infine il «finback», d'una
tinta bronzina, di una irrequietezza straordinaria e assai rumoroso.
- E tutti danno olio?
- Tutti, Koninson.,
- Ah! Vorrei provare il mio rampone anche contro quei giganti.
- Lo proverai fiociniere. Se usciamo salvi da questa
spedizione, l'anno venturo andremo a pescare nel mari del sud. Il capitano me
l'ha promesso.
- Quel giorno che metteremo la prua a sud sarà il più bello
della mia vita, signor Hostrup.
- Lo credo, fiociniere.
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