XVI LA CAPANNA DI GHIACCIO
La
terribile convulsione dei ghiacci, che ha sfondato i fianchi della valorosa
nave baleniera, è cessata; una calma assoluta regna su quella regione perduta
al di là del circolo polare, dove ha trovato la morte il disgraziato equipaggio
danese.
Un silenzio profondo, triste, che impressiona per la sua
grandiosità, impera sull'immenso campo di ghiaccio; non una voce umana
attraversa gli strati gelidi dell'aria, non un grido d'uccello echeggia, non un
mormorio di ruscello, non un frangersi d'onda, non uno scricchiolìo, non un
gemito. È un silenzio d'orrore; il silenzio della regione disabitata e
inabitabile.
Il cielo nondimeno è sgombro da quei fitti nebbioni che
formano il terrore degli audaci naviganti che sfidano quelle regioni maledette.
Una splendida luna, contornata da miriadi di scintillanti stelle, versa sul
grande campo una luce azzurrina, illuminandolo come in pieno giorno. Gli
«icebergs», gli «hummocks», le cupole, le piramidi, i picchi aguzzi, le
colonne, tramandano per ogni dove mille sprazzi di luce come se una generosa
fata avesse sparso su di loro diamanti a piene mani, d'una enorme grossezza.
Ad oriente una pallida luce si stende, indicando il luogo
ove è scomparso il sole; luce che le lontane montagne di ghiaccio raccolgono e
che tramandano in cielo formando un «ice-blink» così limpido da gareggiare con
lo splendore dell'astro notturno.
Due uomini si trovavano sul gran campo, seduti su in un
piccolo «hummock». L'uno ha la testa fra le mani e pare che mediti; l'altro
guarda mestamente i ghiacci che gli si stendono dinanzi. Sono il tenente Hostrup
e il fiociniere Koninson, i due superstiti del naufragio della nave baleniera.
Per due interi giorni, pazzi di dolore per
quell'inaspettata catastrofe che li aveva privati d'un sol colpo della nave e
dei loro compagni avevano percorso in tutti i sensi il banco sfidando ogni
specie di pericoli, rovistando le nevi, spaccando ghiacci quando udivano un
rumore insolito e scendendo nei crepacci nella speranza di ritrovare qualche
loro camerata vivo o morto, ma tutto era stato vano.
Il mare non aveva più restituito la preda. Nave ed
equipaggio erano scomparsi sotto quel gelido lenzuolo, scendendo negli
inesplorati abissi dell'oceano polare.
Sfiniti, semigelati, abbattuti, si erano fermati ai piedi
dell'«hummock». Ormai avevano perduta ogni speranza.
- Orsù, tutto è finito! – esclamò il tenente, lasciandosi
cadere sul ghiaccio – I miseri sono tutti periti, tutti, tutti! Povero
capitano, Poveri compagni che non rivedrete mai più le sponde della patria
vostra!
Un rauco suono che sembrava un singhiozzo soffocato si
spense in fondo alla gola di quell'uomo che forse non aveva mai pianto, mentre
due grosse lacrime gli si gelavano sulle brune gote.
- Soli, soli in quest'immenso deserto di ghiaccio! –
riprese egli dopo qualche istante, come se parlasse a sè stesso. – Chissà se
anche noi torneremo a rivedere la nostra Danimarca!
- Signor Hostrup! – disse il fiociniere con voce
commossa.
- Ti comprendo, Koninson! – rispose il tenente alzandosi
– Non bisogna scoraggiarsi, hai ragione, amico mio.
- Siamo in due, signor tenente, e, ringraziando Iddio,
siamo e tutti e due solidi.
- È vero, Koninson.
- Contate di rimanere ancora su questo dannato banco?
- È necessario.
- Non vorrei che ci toccasse la sorte del povero capitano
e dei suoi uomini.
- Penso che se la Provvidenza ci ha risparmiati, non
l'avrà fatto per farci morire domani o fra qualche mese.
- Infatti, lo credo anch'io, tenente. Ma se si potesse
lasciare questo banco sotto cui dormono i nostri disgraziati compagni sarei ben
lieto.
- E dove vorresti recarti? Chi oserebbe sfidare i
terribili freddi della regione polare sotto una tenda? No, Koninson, se
vogliamo salvarci bisogna svernare qui. Ci costruiremo una capanna di ghiaccio
e attenderemo la buona stagione.
- E poi, dove andremo?
- Cercheremo di guadagnare la costa e di là qualche
stabilimento della compagnia della Baia di Hudson. Orsù, all'opera, Koninson,
non perdiamo tempo o il freddo ben presto ci ucciderà.
- Cosa si deve fare? Io sono pronto a tutto.
- Costruirci il ricovero.
- E dove?
- A fianco dei magazzini onde essere sempre vicini alle
scialuppe.
- Disponete di me; mi sento assai forte in questo
momento,
- Tu preparerai i materiali e io costruirò. Vieni, amico
mio, che forse abbiamo tardato anche troppo.
Si diressero verso i magazzini che erano poco lontani e
che occupavano la cima di una collinetta da cui si dominava un gran tratto di
paese e si fermarono dinanzi ad un «iceberg» che pareva solido quanto una rupe.
- Ci proteggerà dai venti del nord - disse il tenente,
dopo averlo osservato attentamente per assicurarsi della sua stabilità.
Si levò dalla cinta il coltello e tracciò nel ghiaccio,
fra i magazzini e l'«iceberg», un circolo del diametro di cinque metri che poi
approfondì a colpi di scure formando un canale destinato, in seguito, a
raccogliere l'umidità scendente dalle pareti della capanna.
- Ora, - disse rivolgendosi a Koninson - tagliami dei
blocchi di ghiaccio.
Il fiociniere non se lo fece dire due volte e manovrando
abilmente la scure in breve tempo preparò un grande numero di grossi pezzi di ghiaccio,
che il tenente dispose in bell'ordine intorno al canaletto, cementandoli con
neve.
Sopra quel primo strato il tenente ne sovrappose un
secondo, lasciando verso sud un'apertura piuttosto stretta, indi un terzo, un
quarto e via via, sempre restringendoli in maniera da formare una specie di
cupola la cui elevazione non superava i tre metri.
Una famiglia d'eschimesi non avrebbe domandato di più e
si sarebbe fermata lì, ma il tenente era più esigente e non voleva correre i
pericoli ai quali si espongono spesso gli abitanti di quelle gelide regioni,
cioè all'acciecamento prodotto dal fumo ed al congelamento per mancanza di
circolazione d'aria.
Aiutato dal fiociniere, che si mostrava entusiasta per
quella costruzione la cui forma rammentava un mezzo uovo, ma di dimensioni
colossali, si arrampicò sulla cupola e apertovi un buco, costruì, servendosi
sempre di blocchi di ghiaccio, un tubo alto un buon metro, per dare sfogo al
fumo; poi aprì verso est, verso ovest e verso nord tre altre aperture, per
combattere efficacemente il congelamento ed anche l'umidità, due nemici
pericolosissimi in quei climi. Da ultimo tappezzò il suolo della capanna con
pelliccie e con tela da vele, lasciando però in mezzo, proprio sotto il tubo
che doveva servire da camino, uno spazio libero.
- Che te ne pare, mio bravo fiociniere? - disse il
tenente quando ebbe finito.
- Io dico che staremo benone in questo nido - rispose
Koninson - Bisognerà però chiudere le finestre.
- Basterà un pezzo di pelle.
- Spero che non geleremo.
- Se non gelano gli eschimesi che vivono otto mesi
dell'anno nelle loro capanne di ghiaccio, non so perchè dovremo gelar noi.
- Ma quando accenderemo il fuoco, le pareti non si
scioglieranno?
- Non avere questo timore, Koninson. La fiamma è lontana
e i blocchi di ghiaccio che ci hanno servito per la costruzione sono grossi. E
poi credi tu che non s'ingrosseranno di più? Alla prima nevicata raddoppieranno
e alla seconda triplicheranno il loro volume.
- Purchè la cupola non ceda.
- La sbarazzeremo del soverchio peso.
- E siete persuaso che si starà bene qui dentro?
- Ne sono convinto, Koninson, e aggiungo che prenderemo
amore alla nostra casa e che ci dispiacerà l'abbandonarla quando ci metteremo
in cammino per il sud.
- Permettetemi di dubitarne, tenente! - disse Koninson. -
Non so chi potrà essere quell'uomo che prenderà affezione ad una casa di
ghiaccio.
- Gli eschimesi, per esempio, preferiscono le loro
capanne gelate ai nostri palazzi d'Europa.
- Voi scherzate, tenente.
- Parlo seriamente, Koninson, e ti so dire che un
eschimese condotto a Londra pochi anni fa, dove era trattato come un principe,
dopo qualche tempo chiese di tornarsene in mezzo ai suoi ghiacci, dicendo che a
tutti i palazzi della capitale inglese preferiva la sua capanna di ghiaccio, e
a tutte le barche del Tamigi il suo piccolo canotto di pelle.
- Si direbbe una frottola se non uscisse dalle vostre
labbra. Come mai si può desiderare questo deserto di ghiaccio dove tutto manca
e dove si corre ad ogni momento il pericolo di venire inghiottiti dal mare?
- Questione di abitudine e d'amore al natio paese,
Koninson. Forse che tu lasceresti la nebbiosa Danimarca per i bei paesi dal
dolce clima?
- Chissà? Forse, signor Hostrup; ma potrei un bel giorno
desiderare di rivedere le sponde del mio paese.
- Sono convinto che presto o tardi questo desiderio
verrebbe. Ma facciamo punto ed occupiamoci delle nostre provvigioni.
- Spero che ci basteranno per finire questo dannato
inverno.
- Ne avremo anche troppe, Koninson.
Lasciarono la capanna e si diressero verso i magazzini
che erano a pochi passi di distanza. La galleria che avevano scavata per
entrare, era in parte diroccata a causa delle ultime pressioni, ma i due
balenieri non esitarono a cacciarsi in mezzo alla neve e ai massi di ghiaccio
che in parte la ostruivano.
Quando furono entro i magazzini, a colpi di scure
aprirono un vano affinchè entrasse un pò di luce, poi si misero a fare
l'inventario di ciò che possedevano.
Il defunto capitano Weimar aveva accumulate tante provvigioni
da bastare per parecchie settimane all'intero equipaggio del «Danebrog» e
specialmente alcuni attrezzi che diventavano di un valore inestimabile.
Il tenente, aiutato dal suo bravo compagno, che rimuoveva
ogni cosa con grande ardore, contò sei casse contenenti non meno di duecento
chilogrammi di biscotto, due barili di carne secca ridotta in pemmican col
sistema indiano, un barile di farina, due di lardo, una non piccola quantità di
cioccolata, parecchie scatole di tè, un centinaio di chilogrammi di pesce secco
e un barilotto di acquavite, nonchè alcune bottiglie di succo di limone per
combattere i disastrosi effetti dello scorbuto. Scoprì altresì una piccola
provvista di patate, due pentole di ferro della massima importanza per loro,
una cassa con vesti di pelle di foca e alcune grosse coperte di lana e una
provvista abbondante di polvere e di palle con tre fucili, una. vecchia pistola
e alcuni coltelli.
Mancava assolutamente il legname e il carbone, cose
necessarie per resistere ai grandi freddi dell'inverno polare, ma c'erano
dodici barili di spermaceto di balena e alcuni d'olio e parecchio canape. Per
di più possedevano due baleniere e un canotto, che dovevano fornire una
provvista di legna non piccola.
- Abbiamo più di quanto ci occorre! - disse il tenente
quand'ebbe finito l'inventario. - Passeremo l'inverno senza incomodi e senza
sofferenze.
- Una cosa ci manca, signor Hostrup.
- Quale, mio bravo fiociniere?
- Una stufa da porre nella nostra capanna.
- Non occorre.
Koninson lo guardò con sorpresa.
- Forse che nella nostra capanna farà caldo quando
all'esterno avremo 40° sotto lo zero?
- Non dico questo ma surrogheremo la stufa con qualche
cosa di meglio. Hai visto delle stufe nelle capanne degli eschimesi?
- No, tenente, e mi sono sempre meravigliato.
- Ma avrai veduto ardere giorno e notte una gran lampada.
- Sì, me ne ricordo.
- Ebbene, anche noi accenderemo una gran lampada in mezzo
alla nostra capanna e vedrai che ci darà sufficiente calore.
- Se dite ciò, deve essere vero. Ed ora cosa facciamo?
- Porteremo alcune provviste nella nostra casupola per
non essere obbligati ad aprire ogni giorno i nostri magazzini.
- Li chiuderemo dunque?
- E per bene, Koninson. Non dimenticare che al polo nord
vi sono degli orsi bianchi sempre in lotta colla fame. Se si spingono fin qui e
scoprono le nostre provviste, faranno un gran vuoto in sole poche ore. Orsù, al
lavoro, fiociniere.
Si caricarono entrambi di diverse provvigioni, delle
armi, delle pentole e di alcune coperte ed uscirono per recarsi alla capanna.
Erano appena usciti dalla galleria, quando il tenente si
arrestò bruscamente guardando verso nord.
- Cosa vedete? - chiese Koninson, che si era affrettato a
sbarazzarsi del carico per afferrare il fucile. - Degli orsi forse?
- No, guarda laggiù.
Koninson volse lo sguardo nella direzione indicata e
scorse una nube nerissima che si staccava vivamente sul fondo stellato del
cielo e il cui lembo superiore descriveva una specie di arco.
- Una tempesta che si approssima, forse? - chiese.
- No, è l'aurora boreale che sta per sorgere! - rispose
il tenente. - Guarda, ecco che la nube si allarga e con grande rapidità.
Infatti la nube prendeva grandi proporzioni come se fosse
stata spinta da un formidabile vento, e al centro a poco a poco diventava più
chiara, quasi trasparente, attraversata di quando in quando da rossastri
bagliori.
D'improvviso successe un cambiamento magnifico,
sorprendente. Parve che la nube volasse in mille scheggie, come se nel suo seno
fosse saltato un magazzino di polveri e qua e là guizzarono per l'orizzonte
colonne di fuoco d'una tinta superba, cangiando i ghiacci in altrettanti massi
infuocati.
- Stupendo! - esclamò Koninson, che pure aveva osservato
moltissime volte quel meraviglioso fenomeno.
- Aspetta un pò, fiociniere! - disse il tenente, che non
staccava gli occhi dall'orizzonte settentrionale.
Le colonne di fuoco continuavano ad innalzarsi ed
abbassarsi con le contrazioni dei serpenti, cambiando di frequente tinta che
variava dal bianco trasparente al giallo e al rosso ardente e formando delle
nebulosità abbaglianti. Poi, a poco a poco, s'innalzò un arco immenso,
brillante, il quale sollevando tutti quegli sprazzi di luce variopinta balzò da
est ad ovest per poi ritornare, con altro brusco e più rapido salto, ad est.
Il fenomeno era allora nel suo pieno splendore. I raggi
che si alzavano sul grand'arco, gli uni sottilissimi e gli altri grossi, rossi
alla base, verdastri nel mezzo e biancastri all'estremità, si spingevano sino
alla testa dell'Orsa Maggiore, formando una specie di cupola di una bellezza
incomparabile.
I campi di ghiaccio, gli «icebergs», gli «hummocks», le
piramidi, i coni, le colonne parevano tutti in fiamme e riflettendo quei
vigorosi bagliori illuminavano la regione polare fino agli estremi confini.
Ben presto però l'immenso arco fu visto ondeggiare come
se fosse stato scosso da un impetuosissimo colpo di vento, formando immense
pieghe in senso orizzontale e ben presto sull'orizzonte più non si vide che un
ammasso di luce la cui intensità era tale che i due naufraghi furono costretti
a difendersi gli occhi colle mani.
- Si direbbe che tutto il polo è in fiamme! - disse
Koninson, che non parlava più di rientrare nella capanna. - È uno spettacolo
che non si è mai stanchi di vedere, e che non si è mai osservato abbastanza
bene.
- È vero, fiociniere! - rispose il tenente. - Pare di
assistere sempre ad un fenomeno nuovo.
- Sapreste dirmi, signor Hostrup, da cosa deriva?
- Hum, è un po' difficile saperlo, mio caro fiociniere,
poichè gli scienziati non sono ancora d'accordo, su ciò. Pare che sia causato
da un accumulamento di elettricità e per mio conto credo che sia l'ipotesi
migliore e più giusta, considerati i pochi uragani e l'estrema siccità
dell'aria che s'oppone alla sua dispersione.
- È vero, signor Hostrup, che l'aurora altera le bussole?
- Verissimo, Koninson, e non solo quando esse sono in
vista della luce, ma anche quando si trovano lontane dal cerchio luminoso, il
che fa supporre che le aurore boreali siano in relazione col magnetismo.
- E sono sempre uguali queste aurore?
- Se ne sono osservate di quelle strane. Mairan ne vide
una nel 1726 trovandosi a Breville-Ponte, che era formata da un gigantesco
segmento nero traforato regolarmente da punti luminosi.
- Questi fenomeni sono però molto frequenti.
- Secondo gli anni. Lotten, che fece parte della
spedizione d'Islanda per studiare i fenomeni della regione polare,
nell'osservatorio da lui stabilito a Bossekop ove rimase otto mesi negli anni
1838-39, ne vide ben 143 in 206 giorni e le più frequenti fra il 17 novembre e
il 25 gennaio.
- Speriamo di vederne molte anche noi.
- Ne vedremo, Koninson.
Intanto l'aurora continuava le sue oscillazioni e i suoi
bruschi salti, ora scemando di proporzioni ed ora ingigantendo. Tre ore durò, poi
nuovi raggi apparvero, fra cui uno biancastro altissimo, indi ricominciò ad
ondeggiare, a indebolirsi e finì con lo sfasciarsi e scomparire.
Le tenebre, ripreso il loro impero, tornarono a
distendersi sui campi di ghiaccio e sull'orizzonte, poco prima infuocato, non
rimasero a brillare che gli astri.
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