XVIII IL RITORNO ALLA COSTA
Il lungo inverno
polare passava lentamente con tutto il suo orrido corteo di furiosi uragani, di
freddi intensi, di nevicate spaventevoli e di folti nebbioni.
I due balenieri, quasi sempre chiusi nella loro meschina,
stretta, umida e fredda capanna di ghiaccio che la lampada non bastava a
riscaldare, passavano dei tristi giorni sospirando la primavera che pareva non
volesse decidersi a venire innanzi. La noia e lo scoraggiamento, prodotti
dall'immobilità quasi assoluta, dall'isolamento e dai grandi freddi che si
succedevano scendendo talvolta perfino a 56° sotto lo zero, ben spesso li invadevano
e penavano assai a combatterli.
Quando il campo di ghiaccio non sussultava e il tempo si
manteneva in calma, ne approfittavano per fare delle lunghe escursioni, ma ciò
accadeva ben di rado, poichè venti furiosi soffiavano quasi sempre da nord,
spingendo innanzi nembi di ghiacciuoli che ferivano dolorosamente e nembi di
neve che assideravano.
Qualche altra volta sfidavano le intemperie per ammirare
gli strani fenomeni che accadevano, o le splendide aurore boreali che
lanciavano per il firmamento fasci di luce gialla, turchina, azzurrognola,
scherzanti in mezzo a linee di fuoco, o la luna che spuntava sull'orizzonte
contornata da quattro od otto satelliti o palle di fuoco che apparivano
improvvisamente, aventi un rapido moto orizzontale alquanto oscillante e che,
dopo aver scherzato fra i ghiacci, scoppiavano senza lasciare alcuna traccia, o
i miraggi sorprendenti che tramutavano i ghiacci in campagne ridenti coperte di
betulle e di verdi erbe, o le colonne di fumo che s'alzavano alte alte e che
erano prodotte da tronchi d'alberi fossilizzati, trascinati dalle correnti,
chissà mai da quali lontane regioni, e che s'incendiavano pel continuo
confricamento degli «icebergs», degli «streams», dei «polks» e degli «hummocks»
che s'accumulavano combattendo furiosamente fra loro attorno al grande banco.
Ma per lo più se ne stavano chiusi nel loro tugurio per
non esporsi ai pericoli causati dalle pressioni che di quando in quando
mettevano sottosopra il banco con ululati da far fremere, o dal freddo feroce
che li minacciava ad ogni momento di congelamento, pericolo assai grave, poichè
produce la perdita assoluta del membro che ne viene colpito e qualche volta
cagiona anche la morte.
Fortunatamente l'inverno, quantunque sembrasse eterno a
quei due disgraziati balenieri, passava. Passò gennaio, poi febbraio, poi
marzo, indi venne aprile, il quale portò un gran cambiamento.
Il freddo a poco a poco divenne meno intenso e si fermò
sui 15° sotto lo zero; gli uragani che sconvolgevano i campi di neve e che
minacciavano ogni giorno di seppellire la capanna di ghiaccio, divennero più
radi e meno violenti; le dense nebbie che ostinatamente coprivano l'orizzonte
settentrionale e che talvolta diventavano così nere da non lasciar vedere al di
là della punta del naso, s'alzarono e si dileguarono e in loro vece apparve
dapprima una luce biancastra che ogni giorno più si elevava, e finalmente
s'alzò il sole, il quale lanciò i suoi raggi dorati attraverso l'immensa
distesa di ghiacci che scintillarono superbamente.
Gli uccelli, che si erano rifugiati nei climi più dolci,
ritornarono ben presto in grandi stormi: i borgomastri («larus glaucus») prima,
indi le urie nere («dovekies»), poi i piccoli «plectrophanes nivales», le oche,
i kittivakes, i rotgees, i loomeries, i boats-waires, i mollys, gli
snowbuttings e dietro a questi tutte le altre specie d'uccelli che al
principiare della primavera lasciano le terre della Baia d'Hudson per emigrare
nelle terre artiche spingendosi forse fin là dove l'uomo, malgrado tanti secoli
d'eroici sforzi e tante preziose esistenze sacrificate, non ha peranco posto
piede, cioè al polo.
Ma anche gli animali cominciavano a comparire con grande
contentezza dei due balenieri che sentivano il bisogno di nutrirsi di carne
fresca per tener lontano lo scorbuto che li minacciava. Numerose volpi, giunte
da sud, saltellavano in mezzo ai ghiacci; qualche orso bianco, ma ancora assai
diffidente, si era mostrato in distanza, dondolando meccanicamente e senza posa
il capo, e più lontano anche delle foche e dei trichechi avevano fatto la loro
comparsa ed erano stati veduti riscaldarsi ai primi raggi del sole primaverile.
Il momento della partenza si avvicinava. La più
elementare prudenza consigliava ai due balenieri di andarsene verso sud, di
abbandonare quel campo di ghiaccio che non avrebbe resistito per molto tempo al
calore solare.
Fu il 16 aprile che il tenente, che da qualche giorno
visitava attentamente le baleniere riparate nel magazzino e colle quali contava
di fabbricare una buona slitta, decise di por mano ai lavori.
- Non bisogna perdere tempo, mio caro Koninson - disse
egli. - La costa americana non è molto distante e solamente là noi possiamo
trovare la nostra salvezza.
- Non domando che di andarmene, signor Hostrup! - rispose
il fiociniere. - Se rimango un'altra settimana in questa dannata capanna, mi si
arrugginiranno le gambe al punto da non poter più servirmene. E sarà lunga la
via che dovremo percorrere?
- Un centocinquanta o duecento miglia.
- Ci impiegheremo del tempo.
- Non tanto quanto sembrerebbe, mio bravo fiociniere.
- Per caso, avete trovato dei cani da attaccare alla
slitta?
- No, ma qualche cosa di meglio e di più rapido. Il
fiociniere lo guardò con stupore, chiedendosi se il freddo e i patimenti gli
avessero sconvolto il cervello.
- Non meravigliarti! - disse il tenente sorridendo, e
forse comprendendo il pensiero che attraversava la mente del fiociniere. -
Guarda verso il sud: cosa vedi?
- Una superficie brillante che pare non finisca mai.
- Sì, ma una superficie che le grandi nevicate e i grandi
freddi hanno sufficientemente levigata. Ebbene, amico mio, noi alzeremo una
vela sulla nostra slitta e appena il vento del nord soffierà, partiremo colla
velocità di un battello a vapore, anzi d'un treno.
- Stupenda idea, signor Hostrup. E dire che non mi era
mai passata per la mente! Al lavoro! Al lavoro! Mi sento ora capace di
costruire dieci slitte.
Si recarono ai magazzini e colla scure fecero a pezzi la
grande baleniera del cui legname, abbastanza curvo, contavano di servirsi.
L'impresa non fu tanto facile, essendo sprovvisti degli
utensili necessari, ma finalmente riuscirono a costruire un solido apparecchio
che, se non era precisamente una slitta, di poco le si scostava. Il difficile
fu l'adattamento dei pattini di ferro, non possedendo che poche lamine di
metallo strappate alle imbarcazioni, poco larghe e per di più un pò avariate.
Ma colla pazienza, riscaldandole sulla gran lampada e
battendole e ribattendole col rovescio delle scuri, anche i pattini furono
ottenuti e collocati a posto.
- Speriamo che resistano! - disse Koninson, piantando
l'ultimo chiodo.
- E perchè si dovrebbero rompere?
- Il metallo era molto vecchio e molto arrugginito,
signor Hostrup.
- E se tu non lo sai, fiociniere, ti dirò che il ferro
arrugginito naturalmente, e così pure l'acciaio, è sempre migliore di quello
appena fuso. Un celebre coltellinaio di Londra ha fatto degli esperimenti in
proposito, che diedero dei risultati sorprendenti.
- Io non l'ho mai saputo.
- Così è, Koninson. Questo coltellinaio, che si chiamava
Weiss, seppellì dei vecchi rasoi e delle vecchie lame di ferro, dopo tre anni
le ritirò coperte d'un spesso strato di ruggine che pareva trasudato
dall'interno e, lavoratele, ottenne delle lame d'una qualità superiore, e tali
da vincere quelle famose di Toledo.
- Allora non temo più per i nostri pattini.
L'indomani i due balenieri riprendevano il lavoro per
ultimare la slitta. Costruirono, servendosi sempre del legname fornito dalle
imbarcazioni, delle casse per i viveri e per le munizioni, issarono sul dinanzi
del veicolo un pennone che assicurarono saldamente e che fornirono d'una vela
quadra, e finalmente fabbricarono una specie di timone munito all'estremità
d'un grosso gancio di ferro che doveva servire per la direzione e, in caso di
bisogno, per le fermate improvvise.
Il 18 l'occuparono nel fabbricarsi degli occhiali,
oggetti indispensabili in quelle regioni, quando il sole si riflette sui campi
di ghiaccio. Infatti quella luce acciecante è pericolosa e cagiona spesso delle
oftalmie che conducono alla cecità e delle quali non vanno esenti neanche gli
eschimesi che pure nascono e vivono in quei climi.
Quegli occhiali richiesero parecchio tempo e molta
pazienza, ma finalmente i due balenieri ne vennero a capo. S'intende che non
erano formati con lenti, impossibili ad ottenersi, per quanto desiderio
avessero il tenente e il suo compagno, ma poco dissimili da quelli usati dagli
indiani delle terre della Baia di Hudson.
Sarebbero stati necessari dei rami di cedro rosso che
essendo assai pieghevoli vengono adoperati dagli indiani nella fabbricazione di
questi oggetti, ma non avendone a loro disposizione, i balenieri si servirono
di un grosso filo di ferro rinvenuto in un canotto. Curvatolo in maniera da
formare un ovale assai allungato, lo coprirono con una sottile pelle di foca,
praticandovi, al posto degli occhi, due sottili tagli orizzontali. Ciò era
bastante per vedere senza incorrere nel pericolo di rimanere acciecati o di
buscarsi qualche seria malattia.
La mattina del 20, tutto era pronto per la partenza. La
slitta colla sua vela semi-tesa, col suo albero ben assicurato, il suo timone a
posto, i viveri sufficienti per tre settimane e le munizioni rinchiuse nelle
casse, non aspettava che di essere manovrata per slanciarsi attraverso il campo
di ghiaccio.
Uno splendido sole brillava sull'orizzonte inondando
quella deserta regione d'una luce abbagliante, e un fresco vento soffiava da
nord.
I due balenieri, chiusi per bene i magazzini nei quali
lasciavano ancora una discreta quantità di provvigioni e dato un addio alla
capanna che li aveva ricoverati durante il lungo inverno polare, si
affrettarono a dirigersi verso la slitta, ansiosi di toccare la costa
americana. Stavano per porvi il piede, quando entrambi si fermarono come se a
tutti e due fosse istantaneamente venuto lo stesso pensiero.
I loro occhi si portarono sul gran banco di ghiaccio
risplendente di luce e si fermarono là dove circa quattro mesi prima, in una
notte d'orrore, per effetto delle pressioni, il valoroso «Danebrog» sventrato,
stritolato, era colato a fondo; là dove i loro sfortunati camerati erano stati
inghiottiti in quella tremenda notte.
- Riposate in pace! - disse il tenente con voce solenne e
triste, scoprendosi il capo. - Riposate in pace voi infelici che non rivedrete
giammai le lontane sponde della vostra patria, nè avrete sulle vostre tombe il
conforto di un fiore sparso da mano amica, nè una lagrima versata dai vostri
cari. Addio, capitano Weimar, addio, miei poveri camerati: noi non vi
dimenticheremo.
- Riposate in pace! - ripetè Koninson che era
profondamente commosso. - I ghiacci del polo vi siano leggeri.
- Ed ora partiamo! - disse il tenente.
Balzarono nella slitta che pareva impaziente di
allontanarsi da quei funebri luoghi e issarono la vela, che subito si gonfiò
sotto i soffi del vento settentrionale.
Il veicolo per un istante rimase immobile come fosse
inchiodato al banco, poi cominciò a scivolare un pò indecisamente, indi si
slanciò attraverso la liscia superficie colla velocità di un treno diretto,
sollevando attorno a sè una nube di nevischio e di ghiacciuoli e lasciandosi
dietro due striscie fiammeggianti che in pochi istanti si prolungarono
indefinitamente.
Il tenente e Koninson, quasi soffocati dalla rapida e gelida
corrente d'aria, flagellati da una vera grandine di ghiacciuoli sottili come
aghi, solidamente aggrappati alle traverse del celere veicolo, si sforzavano di
guardare innanzi per tema di trovarsi improvvisamente sull'orlo di qualche
spaccatura o di urtare contro qualche sporgenza.
- Apri bene gli occhi, - ripeteva Hostrup al fiociniere -
e sii pronto a lasciar cadere la vela.
- Non temete, - rispondeva con voce soffocata il bravo
giovanotto, che non abbandonava la prua del veicolo dove maggiore era la
pioggia dei ghiacciuoli, taluno dei quali gli lacerava il viso - guardo sempre.
E la slitta scivolava, scivolava sempre più senza scosse,
senza sbandamenti, senza deviare d'un solo centimetro sotto la robusta mano del
tenente che non abbandonava il timone, lasciandosi a destra e a sinistra
«icebergs» e «hummocks» e mettendo in fuga volpi, lupi e uccelli.
Ben presto la sua velocità divenne tale che il tenente
cominciò ad avere delle inquietudini. Oramai filava come un vero uccello,
percorrendo non meno di cinquanta chilometri all'ora.
Guai se si fosse trovata dinanzi ad un ostacolo o dinanzi
ad una spaccatura del ghiaccio; l'urto l'avrebbe mandata in mille pezzi e i due
uomini che la montavano non se la sarebbero cavata senza ossa rotte.
A mezzogiorno il tenente stimò la distanza percorsa a
centosessanta miglia, ma la costa americana non era ancora in vista, quantunque
non dovesse essere molto lontana.
- Fermiamoci! - disse al fiociniere. - Ammaina la vela.
Koninson obbedì. La slitta, trasportata dallo slancio,
percorse un buon miglio ancora, poi si fermò di fianco ad un alto masso di
ghiaccio.
Accesero la lampada che avevano portato seco loro, si
prepararono un modesto desinare che in un baleno divorarono, indi rimontarono
nel veicolo che riprese la corsa ma con minor velocità, essendo il vento un po'
scemato.
Alle 4 pomeridiane, dopo essersi più volte fermati per
girare dei crepacci che erano stati scorti a tempo e per trascinare la slitta
attraverso a ghiacci sollevati dalle pressioni, Koninson segnalava un'alta
costa che, quantunque fosse tutta coperta di neve, non pareva una catena di
«icebergs», e un pò più tardi, ad una grande distanza, mezze avvolte fra un
fitto nebbione, scopriva delle vette che sembravano montagne.
- Signor Hostrup! - esclamò con voce commossa.
- È la costa americana! - disse il tenente, non meno
commosso.
- Così presto?
- Abbiamo percorso oltre duecento e cinquanta miglia da
stamane. Presto, fiociniere, cala la vela o ci sfracelleremo.
Koninson si affrettò ad ubbidire. Dieci minuti dopo la
slitta si arrestava a solo mezzo chilometro dalle sponde dell'America
settentrionale.
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