XXII IL PORCUPINE
Passarono alcuni
minuti, poi in mezzo alla neve e ai frammenti di ghiaccio che si erano
accumulati in grande quantità attorno al lastrone infranto, apparve una testa,
quella di Koninson.
Il buon fiociniere girò all'intorno due occhi spaventati
cercando ansiosamente il suo compagno che non si vedeva ormai più, indi
radunando le forze si fece un pò di largo respingendo a destra e a sinistra i
ghiacciuoli che lo rinserravano e gridò replicatamente, con un tono che faceva
supporre come nulla di guasto ci fosse nei polmoni:
- Signor Hostrup!
- Sei vivo? - chiese una voce soffocata, che usciva di
sotto una massa di neve.
- Dove siete, mio tenente?
- Qui sotto ma sto per liberarmi.
- Salvo?
- Pare che nulla vi sia di rotto. Aiutami se puoi.
Il fiociniere, lavorando vigorosamente colle braccia e
colle gambe, ingrandì il buco in cui si trovava e, continuando il faticoso
esercizio, pervenne a raggiungere il cumulo di neve che si agitava dall'alto in
basso sotto i violenti sforzi del tenente.
- Un pò di pazienza, signor Hostrup, - disse. - Per
bacco! Mi par di essere un uccello preso col vischio. Largo! Largo!
Si mise a spazzare la neve colle mani e dopo qualche
minuto scorse un braccio che cercava di uscire. L'afferrò e tirò bruscamente a
sè, facendo crollare l'intero cumulo e mettendo allo scoperto il tenente.
- Grazie, Koninson, - disse il liberato, dopo aver
respirato una gran boccata d'aria. - Che capitombolo!
- E che viaggio, signor Hostrup! Posso dire di aver
viaggiato colla rapidità d'un treno diretto anche in un luogo dove forse non si
aprirà mai una linea ferroviaria.
- Bella consolazione, Koninson. Per poco, questo
viaggetto ci costava la pelle. Ma dov'è andata a finire la nostra slitta?
- Non sarà lontana.
- Cerchiamola, ragazzo mio, poichè la perdita di essa
sarebbe per noi una morte certa.
Unendo le parole ai fatti, si cacciò in mezzo ai
ghiacciuoli e alla neve, mentre il fiociniere faceva altrettanto, ma prendendo
una direzione opposta.
La fortuna, che li aveva protetti durante la
pericolosissima discesa, anche questa volta si mostrò loro benigna, poichè
rinvennero ben presto il veicolo che il colpo aveva lanciato fra due
grossissimi pezzi di ghiaccio. Nella caduta non pareva avesse sofferto;
solamente le casse e i barili avevano spezzato i legami ed erano caduti
all'ingiro. Presso la slitta rinvennero pure le loro armi e un pò più lontano
la tenda, ancora in ottimo stato.
- Non speravo tanto! - disse il tenente. - Bisogna
proprio dire che la Provvidenza non ci abbandona.
- Speriamo che ci conduca a salvamento, signor Hostrup.
- Ne sono certo.
- Ed ora cosa facciamo?
- Usciremo di qui e prenderemo la via del sud. Vedo che
la pianura è perfettamente liscia e sento un buon vento venire dalle montagne.
Spiegheremo la vela.
Rimisero sulla slitta tutte le casse e i barili; indi,
dato mano alle scuri, si scavarono una via attraverso i rottami del ghiaccione,
girando attorno alla gran rupe che aveva causato l'urto.
Dopo un'ora uscivano finalmente nella pianura che pareva
si prestasse assai ad un rapido viaggio, essendo coperta di un solido strato di
neve, liscio come la superficie d'un lago tranquillo.
La vela fu subito issata, il timone messo a posto e i due
balenieri «s'imbarcarono», come diceva Koninson, dirigendosi verso sud con una
rapidità superiore ai quindici nodi all'ora.
A mezzogiorno, dopo un viaggio che non poteva essere nè
migliore nè più tranquillo, e dopo aver percorso un tratto di circa centoventi
chilometri, fecero una fermata presso un gruppo di alti pioppi, le cui cime
s'incurvavano graziosamente.
Koninson, felice di aver trovato finalmente della legna,
a colpi di scure fece cadere il più piccolo ed accese un fuoco capace di
arrostire un bue intero.
- Ah, se ci fosse un bel pezzo di carne fresca, quale
festa! - esclamò egli levando un pò di «pemmican» ed alcuni biscotti da una
cassa.
- Ne avremo, Koninson.
- Quando?
- Appena saremo giunti al Porcupine. Là i pesci abbondano
e le trote vi sono grossissime.
- Allora.... ah!
- Cos'hai?
- Non avete udito un gemito, voi?
- Un gemito? Diventi pazzo, ragazzo mio?
- Con questo freddo? Udite! Udite!
Il tenente, con sua grande meraviglia, questa volta udì
un gemito che pareva emesso da gola umana, ed a brevissima distanza.
- Che vi sia qualche eschimese ferito? - chiese Koninson.
- Ma dove?
- In mezzo agli alberi.
- No, io credo invece che stia per venire l'arrosto che
tu desideri. Guarda lassù, su quel grande pioppo.
Koninson guardò nella direzione indicata e vide
svolazzare un grande uccello le cui ali superavano, prese insieme, un metro e
mezzo di estensione.
- Un'aquila? - esclamò.
- Ma che aquila! È una stupenda «nyceta nivea».
- E credete che sia stato quell'uccello a mandare quei
gemiti umani?
- Proprio lui.
- Si mangia?
- È carne non disprezzabile.
Koninson balzò sul fucile e lo puntò, ma il tenente gli
abbassò l'arma.
- Non aver fretta! - gli disse. - Vedrai che si
avvicinerà a noi.
- Ma come mai quell'uccello, che somiglia ad un gufo, si
trova qui, in questa regione così fredda?
- Le «nycete» frequentano i luoghi caldi e i freddi.
S'incontrano presso le rive dell'oceano artico e anche sulle rive del golfo del
Messico.
- E di che cosa vivono, in questi deserti di neve?
- Di uccelli finchè ce ne sono e, quando questi sono
emigrati, danno la caccia ai piccoli animali. Si nascondono sovente nelle
vicinanze delle tane delle lepri, degli ermellini e persino delle volpi e,
quando le vittime escono, piombano loro addosso con rapidità fulminea,
dilaniandole a colpi di becco e d'artiglio.
- Sono uccelli coraggiosi.
- Sì, e tanto da affrontare i cani e qualche volta da
avventarsi contro i cacciatori.
- Signor tenente, vedo che l'uccello non viene da noi;
andiamo noi da lui.
- Andiamo, Koninson.
Raccolsero i fucili e si diressero verso il pioppo sulla
cui cima la «nyceta» continuava a svolazzare gettando di quando in quando un
forte «rik-rik» che poteva, fino ad un certo punto, sembrare un gemito umano.
Quando giunsero a breve distanza, l'uccello si abbassò,
poi partì con grande rapidità producendo, colle larghe ali, un forte rumore e
si precipitò al suolo come se fosse stato ucciso o ferito.
- Olà! - esclamò Koninson. - Cosa vuol dire ciò?
Si precipitò verso la «nyceta» che sembrava morta, ma
quando le fu vicino, essa si alzò nuovamente, spiccò un'altra volata e ricadde
trecento metri più innanzi.
- Che sia ferita? - chiese il fiociniere, la cui sorpresa
cresceva.
- No! - disse il tenente - Noi abbiamo da fare con una
femmina, la quale ricorre a questa astuzia per allontanarci dal suo nido,
- Allora mangeremo anche delle uova. Che pasto, signor
Hostrup
Questa volta non si lasciò più ingannare dal povero
uccello. Appena fu per riprendere il volo, il fiociniere puntò il fucile e, con
una palla ben aggiustata, lo fece cadere, ma per sempre.
- Il bell'arrosto! - esclamò.
Ed infatti era un bell'arrosto. Quell'uccello, dalle
penne bianche solcate da un certo numero di macchie brune trasversali e
longitudinali, dal becco robusto e ricurvo, era lungo quasi due piedi e non
pesava meno di dieci chilogrammi. Era il vitto assicurato per un paio di
giorni, per i poveri naufraghi; ma Koninson chiedeva qualche cosa di più.
Impadronitosi dell'uccello, si affrettò a raggiungere la
macchia di pioppi e, dopo aver cercato qua e là, scoprì il nido, una specie di
cavo tappezzato di pochi fili d'erba acquatica e di penne candide e lunghe che
la femmina si era coraggiosamente strappate dal petto, e contenente otto grosse
uova.
- Che giornata fortunata! - esclamò allegramente il bravo
fiociniere. - Presto, signor Hostrup, ritorniamo presso il fuoco e mettiamoci
al lavoro. Le mie mandibole sono impazienti.
Due ore dopo, seduti dinanzi al fuoco, divoravano
ferocemente più di mezzo uccello, dopo aver trangugiato le uova a mò
d'antipasto. Il tenente, per compiere l'opera, diede la stura ad una bottiglia di
«gin», l'ultima che ancora possedevano e che avevano religiosamente conservata
per le grandi occasioni.
Verso le 4 pomeridiane, approfittando d'un fresco vento
che veniva da nord-nord-ovest, spiegavano la vela e riprendevano la corsa verso
sud, ma non rapidamente come il mattino a causa della neve che, essendosi in
parte sciolta sotto i raggi solari, opponeva una certa resistenza ai pattini
della slitta.
Parecchie volte dovettero discendere e trascinare il
veicolo per qualche tratto onde sorpassare certi strati di neve eccessivamente
molle, anzi quasi disciolta. Nondimeno verso le 9 della sera avevano percorso
altri quaranta o cinquanta chilometri.
Il tenente stava per ammainare la vela volendo
accamparsi, quando Koninson gli additò una costruzione piantata sulle rive di
un laghetto ancora gelato.
- Forse ci sono degli abitanti là sotto! - disse il
fiociniere. - Non mi rincrescerebbe di vedere un volto umano per quanto possa
essere brutto.
- Ho poca speranza - rispose il tenente, - Tuttavia
dirigiamoci laggiù.
La slitta riprese la corsa e dopo venti minuti si
arrestava presso l'abitazione segnalata.
I due balenieri balzarono a terra, si armarono dei fucili
per precauzione, e si diressero a quella volta.
Era una capanna semplicissima, formata da sette od otto
pali sostenenti un tetto di ramoscelli e di pezzi di corteccia, assicurata con
strisce di pelle. La neve, accumulandosi sopra, l'aveva in parte sfondata, ma
poteva ancora servire di ricovero.
- È un'abitazione estiva dei Co-yuconi.
- Abbandonata da molto tempo senza dubbio - osservò
Koninson.
- Dall'anno scorso, molto probabilmente.
- Tò! Cosa sono quegli oggetti ammonticchiati in
quell'angolo?
- Ossa di animali.
- Forse che i Co-yuconi le raccolgono per venderle?
- No, Koninson, - disse il tenente ridendo. - Li
ammucchiano nelle loro capanne perchè credono che, gettandoli via, debbano
succedere delle disgrazie; che le caccie diventino infruttifere; che le
trappole lascino scappare la selvaggina; che il freddo distrugga gli animali;
ecc. Anche quando si tagliano le unghie, i capelli e la barba, raccolgono il
tutto entro sacchetti di pelle che sospendono agli alberi del loro territorio,
e ciò per lo stesso motivo.
- Strane superstizioni, signor Hostrup. Ma guardate laggiù,
presso la riva del laghetto, non vedete qualche cosa?
- Sì, dei pali piantati sul ghiaccio o meglio nell'acqua
- disse il tenente.
- Che cosa saranno?
- Mio caro Koninson, credo che faremo bene a recarci
laggiù.
- Che sperate di trovare?
- So che gli abitanti di queste regioni prima che
l'inverno cominci, piantano nei fiumi e nei laghi dei pali a cui sospendono
delle trappole per i pesci.
- Che ci sia sotto qualche rete?
- Se non sarà una rete, troveremo qualche cosa di simile.
Andiamo, Koninson.
Lasciarono la piccola capanna e si diressero verso il
laghetto. Il tenente non si era ingannato, poichè attraverso il ghiaccio
distinsero una forma nerastra stretta fra due pali e che pareva un gran
paniere.
Con pochi colpi di scure spezzarono il ghiaccio e sotto
vi scorsero una specie di imbuto di vimini terminante in un recipiente pure di
vimini, dentro il quale nuotavano parecchi grossi pesci.
Koninson cacciò dentro le mani, e in pochi minuti ritirò
due trote, tre lucci, due bei pesci che il tenente riconobbe per «gadus lota»,
ed infine un pesce molto grosso, tutto nero, che gli indigeni chiamano
«nalina», ma, la cui carne di qualità mediocre serve per lo più a nutrire i
cani delle slitte.
- Abbiamo dei viveri per quattro o cinque giorni! - disse
il fiociniere tutto contento. - Ringrazio di cuore quel co-yucone che ha avuto
la buona idea di collocare qui l'imbuto. Se lo troverò, gli regalerò uno dei
nostri coltelli.
Fecero ritorno alla capanna sotto cui allegramente
pranzarono colle due trote; indi, dopo poche chiacchiere, si avvolsero nelle
loro coperte, sicuri di non venire disturbati da nessuno.
Alle 4 del mattino, approfittando del freddo della notte
che aveva indurito lo strato di neve, tornarono a spiegare la vela e ripresero
la corsa con una celerità di dieci o dodici chilometri all'ora.
Verso le 7 del mattino Koninson segnalò verso sud un
bosco che pareva prolungarsi indefinitamente verso est e verso ovest, formato
da pioppi e da abeti neri.
- Dobbiamo essere vicini al Porcupine! - disse il
tenente. - Apri bene gli occhi, fiociniere.
Manovrò in modo da entrare sotto il bosco senza urtare
contro gli alberi, e lasciò che la slitta continuasse a scivolare verso il sud.
Mezz'ora dopo Koninson con un rapido movimento faceva
cadere la vela. Era tempo; duecento passi più innanzi, fra due rive coperte di
salici, si estendeva un largo fiume che doveva essere il Porcupine.
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