XXVIII FRA I TANANA E I LUPI
La nebbia a poco
a poco si alzava.
Il sole, che appena sceso sotto l'orizzonte subito
riappariva, cominciava già a lanciare fasci di luce attraverso le masse di
vapore, facendo scintillare vivamente i ghiacci che il fiume trascinava nel suo
corso. Ancora pochi minuti e la riva sulla quale dovevano trovarsi i Co-yuconi
sarebbe stata interamente visibile.
Le voci si continuavano a udire. Pareva che gli indiani
si divertissero, poichè gli scrosci di risa non cessavano, anzi diventavano più
sonori e più allegri. Però, nel momento in cui un gran fascio di luce,
attraversando uno strappo manifestatesi nel nebbione, scendeva sull'isolotto,
le voci improvvisamente cessarono, poi si riudirono a qualche distanza per
quindi spegnersi completamente.
- Se ne sono andati - disse Koninson, facendo un gesto di
dispetto.
- Ma forse il loro accampamento non è lontano - rispose
il tenente.
- E contate di recarvi colà?
- Senza dubbio, fiociniere, poichè ci saranno di non poca
utilità. Ecco che il nebbione si alza rapidamente; possiamo imbarcarci, ora che
i ghiacci sono visibili.
- Sono pronto a seguirvi, signor Hostrup.
Rimisero in acqua i canotti, s'imbarcarono e in pochi
minuti si trovarono sulla sponda opposta riparati dentro un piccolo seno
formato da due alte rocce.
- Vedi nessuno? - disse il tenente, armando per
precauzione il fucile.
- Nessuno, nè odo alcuna voce - rispose il fiociniere,
- Allora possiamo sbarcare.
- Una parola prima, signor Hostrup. Se gli indiani ci
fanno un'accoglienza ostile, bisognerà venire alle mani e non so come la
finirà. Noi siamo due, e loro sono in molti, forse.
- Hanno troppo paura dei bianchi per alzare le mani
contro di noi. Eppoi il forte Speranza è vicino e non ardiranno farci qualche
brutto tiro.
- Ma perchè volete avvicinarli?
- Non l'hai ancora compreso? È per farci condurre al
forte dietro qualche compenso.
- Vi prevengo che la mia borsa è rimasta sul «Danebrog».
- Abbiamo i nostri fucili, armi molto preziose in questa
regione.
- Allora andiamo, signor Hostrup.
In fondo al piccolo seno, fra due rupi, s'apriva a uno
stretto sentieruzzo per il quale senza dubbio gli indiani erano discesi. I due
balenieri, abbandonati i canotti dopo di averli ben assicurati ad uno scoglio,
s'arrampicarono su per quello scabroso passaggio e raggiunsero la cima di una
rupe dalla quale si poteva dominare un vasto tratto di paese.
Dinanzi a loro si estendeva una vastissima pianura,
chiusa verso sud, ma a molte leghe di distanza, da una grande catena di
montagne che probabilmente si staccava dalla grande catena delle Montagne
Rocciose che forma l'ossatura principale dell'America del Nord. Qua e là,
specialmente lungo il corso del fiume, apparivano boschi di pini, di abeti, di
betulle e di altissimi pioppi.
Il luogotenente, che guardava attentamente verso est, non
tardò a scorgere un gruppo di tende che si appoggiava ad un bosco e dalle cui
cime coniche uscivano delle nuvolette di fumo
- Ecco l'accampamento - disse il fiociniere.
- Ma mi sembra molto grande, signor Hostrup. Quali indiani
saranno?
- Forse dei Denè o dei Loschi, oppure dei Chippewyans.
- E il forte, lo vedete in nessun luogo?
- È molto lontano, fiociniere, forse qualche centinaio e
anche più di chilometri. Forza alle gambe e avanti.
Si gettarono in spalla i fucili e partirono di buon
passo, fiancheggiando un bosco che seguiva il corso del fiume ed entro il quale
si udivano numerosi ululati di lupi. La neve che ancora copriva la pianura,
essendosi gelata durante la notte, rendeva la marcia facile. In meno di un'ora
giunsero a poche centinaia di passi dall'accampamento composto di una
quindicina di tende.
L'abbaiare di numerosissimi cani, che avevano fiutato le
vicinanza di stranieri, fecero uscire dieci o dodici uomini, i quali avanzarono
senza diffidenza verso i due naufraghi.
Erano tutti di statura piuttosto inferiore alla media,
dalla pelle olivastra e lucente, forse perchè unta di recente con grasso, cogli
occhi un pò obliqui e i capelli neri, grossi e lunghi. Portavano vesti di pelle
di foca e di orso, munite di cappucci orlati di pelle di volpe, ed avevano
lunghi stivali cuciti con nervi di animali. Le loro armi consistevano in certe
fiocine di denti di narvalo munite d'una punta di rame, e in archi.
- Sono eschimesi - disse il tenente che li aveva subito
riconosciuti.
- Possiamo fidarci? - chiese Koninson.
- Godono fama di essere molto ospitali, ma assai
vendicativi. Credo che non avremo da temere.
Un eschimese, che doveva essere certamente un capo, a
giudicarlo dalle vesti che erano più ricche di quelle degli altri, s'avvicinò
ai naufraghi e, dopo averli salutati in inglese, strofinò energicamente il
proprio naso contro il loro in segno di amicizia.
- I bianchi nulla hanno da temere dalle tribù degli
Innoit! - disse poscia. - Siano i benvenuti nella mia tenda.
- Siamo pronti a seguirti, - rispose il tenente - e non
avrai a pentirti di averci ospitati.
- I bianchi si recano al forte Speranza?
- Sì, ma noi non conosciamo la via venendo dalle lontane
regioni dell'ovest.
- Kumiath la insegnerà! - rispose il capo. - Seguitemi
nella mia tenda.
Il capo li condusse nell'accampamento dove vennero
circondati da una trentina di eschimesi fra uomini e donne accorsi da tutte le
parti ai furiosi abbaiamenti dei cani. Il tenente e il fiociniere notarono che
fra i curiosi si trovavano anche alcuni individui che per la loro statura più
elevata, per le loro vesti e per i loro lineamenti parevano appartenere ad
un'altra razza. Non vi fecero però molto caso e seguirono il capo il quale,
dopo averli fatti passare attraverso un vero labirinto di bastoni sostenenti
gran numero di pezzi di carne messi a seccare, li condusse in una piccola tenda
dove, in mezzo a mucchi di pelli, marcivano, fra odori pestilenziali, ma che
sembravano invece apprezzati dagli eschimesi che si cibano volentieri di carni
corrotte, salmoni, lucci, trote, gadus, coreganus ed altri pesci del Makenzie.
Benchè non si trovassero troppo bene fra quei miasmi, si
accomodarono su una gran pelle d'orso distesa per terra e fecero come meglio
poterono onore al cavallo marino conservato in olio di balena e ad una grossa
trota, un pò troppo passata, offerta loro dal capo. Per tema di fare un
affronto all'eschimese, furono anche costretti a sorbire una certa quantità di
olio di morsa che fu loro gentilmente offerto, con quante smorfie ognuno lo può
immaginare.
Terminato quel diabolico pasto, sontuoso per un eschimese
gran bevitore d'olio e mangiatore di carne cruda, corrotta o malamente
affumicata sulla fiamma di una lampada, ma quanto mai disgustoso per un
europeo, il capo intavolò una conversazione narrando che da soli pochi giorni
aveva lasciato il forte Speranza, dove aveva fatto moltissimi scambi di pelli
contro tabacco, conterie, armi, ecc., e che ora stava per raggiungere le sponde
dell'oceano a cacciarvi la balena.
- Dista molto il forte? - chiese il tenente, quando il
capo ebbe finito.
- Tre giorni di marcia e niente di più! - rispose
l'eschimese. - Basta seguire questo bosco che si stende lungo le rive del
Makenzie per non smarrire la via.
- Ci sono altre tribù che si dirigono al forte?
- Sì, una che è venuta dalle lontane regioni dell'ovest,
come voi e che si è accampata nel bosco.
- Appartiene alla vostra razza?
- No.
- È molto numerosa?
- Lo è diventata in questi giorni. Conta almeno quattrocento
uomini.
- Il suo nome?
- Il suo nome è... Tò, ecco alcuni dei suoi uomini, senza
dubbio qui giunti per vedere gli uomini bianchi e che...
Non aveva ancora finito che il fiociniere, alzatesi di
colpo, si precipitava fuori urtando furiosamente contro un grosso attruppamento
di persone radunatesi dinanzi alla tenda. Il suo robusto pugno piombò con secco
rumore su di un uomo il quale stramazzò a terra mandando un urlo di dolore.
Gli eschimesi si divisero precipitosamente, lasciando
alle prese i due avversari che lottavano con pari accanimento.
Il tenente, che non sapeva ancora di che si trattasse,
accorse in aiuto di Koninson, il quale ad ogni pugno che lasciava cadere
gridava:
- Questo per la polvere! Questo per le palle! E questo per
la carne che ci hai rubato!
Solo allora si accorse che l'avversario era un indiano,
anzi il capo Tanana che li aveva indegnamente traditi e derubati sulle rive del
Porcupine.
Stava per piombare anche lui sul traditore, quando questi
sgusciando con una agilità sorprendente fra le mani del fiociniere, riuscì a
rimettersi in piedi.
- Ti ucciderò! - gridò minaccioso.
Poi fuggì a rompicollo verso la foresta dove si trovava
il suo accampamento. Il tenente, che aveva perduta la sua flemma abituale,
stava già per armare il fucile e inviargli una palla nel dorso, ma il capo
eschimese gli abbassò l'arma dicendogli:
- Sii prudente! Essi sono molti e molto vendicativi.
- Ma quell'uomo ci ha derubati, dopo aver chiesto il
nostro aiuto per rifornirsi di viveri - disse il tenente.
- Meriterebbe la morte, ma tu qui sei straniero e non hai
che un compagno, mentre i Tanana sono numerosi. Vieni nella mia tenda e
cercheremo di accomodare ogni cosa.
- È troppo tardi! - disse il fiociniere. - Si tratta ora
di far parlare i fucili.
E non s'ingannava. Dalla foresta uscivano allora due o
trecento guerrieri, mandando grida assordanti. I più erano armati di fiocine e
di coltelli, ma taluni portavano dei fucili, assai vecchi, ma non del tutto in
cattivo stato.
- Che uragano sta per scoppiare? - si chiese Koninson che
si preparava però a vendere cara la vita. - Non so come la finirà, se quei
pagani si gettano tutti uniti contro di noi.
- Fuggite! - disse l'eschimese che aggrottava la fronte e
che era diventato pensieroso. - I Tanana sono valorosi e non si arresteranno
dinanzi ai vostri fucili.
- Ma dove fuggire? - chiese il tenente. - I nostri
canotti sono lontani e saremo raggiunti prima di trovarli.
- Dietro la mia tenda ho una slitta tirata da una muta di
robusti cani. Montatela e fuggite verso il forte.
- Ma si vendicheranno contro di te, mio buon eschimese.
- I Tanana non ardiranno alzare le mani contro di me -
rispose con fierezza l'eschimese. - Questa è la terra degli Eschimantik
(mangiatori di pesce crudo), come loro ci chiamano, e sanno che una offesa
fatta alla mia tribù la pagherebbero cara, poichè i miei compatrioti non la
lascerebbero impunita. Presto fuggite, o sarà troppo tardi.
Il tenente si levò l'orologio e lo diede al bravo
eschimese dicendogli:
- Conservalo in memoria della tua buona azione. Ed ora
alziamo i tacchi.
Si slanciò dietro la tenda seguito da Koninson, ma si
arrestò subito mandando una sonora imprecazione. Sette od otto Tanana, che si
erano avvicinati tenendosi nascosti dietro le tende degli eschimesi, sbarravano
la via. Alla loro testa, armato d'un vecchio fucile, si trovava il capo, il cui
naso schiacciato dal potente pugno del fiociniere, mandava ancora sangue.
- Ah, brigante! - gridò il tenente.
- Non si passa di qui - disse il capo con tono
minaccioso.
- E cosa pretenderesti tu?
- Che tu mi consegni il tuo compagno perchè io vendichi
l'affronto fattomi.
- Bene, prendi questo, giacchè lo vuoi.
Il tenente puntò rapidamente il fucile e fece fuoco. Il
Tanana, colpito alla fronte, stramazzò al suolo fulminato, mentre i suoi
guerrieri fuggivano disordinatamente gettando urla di rabbia e di vendetta.
- Presto, Koninson, salviamoci! - disse il tenente.
- Andiamo, signore, e filiamo dritti al forte.
La slitta era pronta. Dodici robusti cani, somiglianti ai
lupi, dalle gambe nervose, erano attaccati due a due, pronti a partire al primo
segnale.
I due naufraghi balzarono nel veicolo e si slanciarono
attraverso la pianura trascinati in una rapidissima corsa.
Dalla parte dell'accampamento scoppiarono alcune fucilate,
le cui palle attraversarono gli strati d'aria sibilando; poi si videro i Tanana
dirigersi correndo verso il bosco mandando clamori assordanti.
- Tò! Fuggono forse? - chiese Koninson al tenente che
animava i cani colla voce e colla correggia.
- Ne dubito, fiociniere.
- Che ci diano la caccia?
- Lo temo, ma i nostri cani corrono come il vento e
abbiamo già un notevole vantaggio.
- Terranno duro questi corridori?
- Per parecchie ore e senza rallentare. Basta che la neve
non ceda sotto il peso della slitta.
- Vedo che la pianura è tutta bianca. Ma oh! La matassa
s'imbroglia!
- Che cosa vedi?
- Delle slitte che escono dal bosco.
- Sono i Tanana che ci danno la caccia. Quante sono?
- Ne ho contate sette e, se non corrono più di noi, certo
non rimangono indietro.
II tenente volse un rapido sguardo verso il bosco e vide
infatti sette slitte correre con fantastica rapidità sulla nevosa pianura,
trascinate da lunghe file di cani. Quattordici uomini le montavano e i più
erano armati di fucili.
- Diamine! Sono proprio decisi a vendicare il loro capo,
- disse. - Bah! Avranno pane per i loro denti, se riescono a raggiungerci. Tu
sorveglia i loro movimenti, mentre io cerco di far correre i nostri cani.
- E gli eschimesi? Mi spiacerebbe che quei buoni diavoli
la pagassero per noi.
- Il capo mi sembrò quieto; è segno che non avrà nulla da
temere. S'avvicinano?
- Vorrei ingannarmi, signor Hostrup, ma mi pare che
guadagnino su di noi.
- Avanti, miei piccini! - gridò il tenente, sferzando i
piccoli trottatori. - Se vi comportate bene, avrete doppia razione di carne
stasera.
- Non ne abbiamo un pezzettino grande come un soldo.
- Ne troveremo al forte. Se continuiamo a correre così,
vi giungeremo in poche ore. Guadagnano i Tanana?
- Sì, signor Hostrup. Non sono che a un chilometro da
noi.
- Quante cariche ci restano?
- Una cinquantina.
- Ci bastano per abbatterli tutti quattordici! - disse il
tenente con voce tranquilla. - Avanti, miei piccini, lesto il passo e tu,
bianco, fatti più sotto. Là, così va bene.
Un colpo di fucile echeggiò al largo, ma la palla non
giunse fino ai fuggiaschi.
- Troppo lontano, mio caro! - disse Koninson ridendo. -
Quando sarete a tiro lo darò io il segnale e vi garantisco, brutti pagani, che
lo assaggierete, il mio piombo.
Altri due colpi di fucile rimbombarono, ma non con
miglior effetto. I Tanana compresero che non era ancor giunto il momento di far
parlare la polvere e raddoppiarono le grida e le scudisciate per far correre di
più i loro cani, i quali parevano più robusti e più veloci di quelli regalati
dall'eschimese.
Ben presto non furono che a seicento metri di distanza.
Koninson, che non li perdeva di vista un sol momento,
stava per puntare il fucile quando vide le sette slitte fare un rapido
voltafaccia e fuggire precipitosamente verso l'accampamento, di cui si
scorgevano appena appena le tende.
- Tò! - esclamò il fiociniere al colmo della sorpresa. -
Battono in ritirata!
- Come? I Tanana fuggono?
- Sì signor Hostrup. Che abbiano avuto paura dei nostri
fucili?
- Io non lo credo.
- E allora? Che siamo vicini al forte?
- Dinanzi a noi non vedo che un bosco e anche molto
lontano.
- Che ci minacci qualche pericolo?
- Lo temo, Koninson, anzi ne sono certo.
- E da che io arguite?
- I nostri cani da qualche minuto corrono più rapidi e mi
sembrano inquieti.
Infatti il tenente non si ingannava. Le povere bestie non
parevano più tranquille e divoravano la via con crescente rapidità, senz'essere
eccitate. Avevano cessato i loro allegri abbaiamenti, il loro pelo era
diventato irto e volgevano frequentemente la testa verso i padroni, come se
invocassero la loro protezione.
- Hum! - mormorò Koninson. – C'è qualche cosa di grave in
aria.
- O meglio in terra. Guarda laggiù, guarda!
Koninson guardò nella direzione indicata e vide una linea
oscura estendersi dinanzi ad un bosco e poi slanciarsi attraverso la pianura
con fantastica rapidità. Quantunque dotato di una buona dose di coraggio,
impallidì.
- I lupi! - esclamò.
- Che giungono a centinaia - aggiunse il tenente.
- Ecco perchè i Tanana sono fuggiti. Sfuggire al palo di
tortura degli Indiani per cadere sotto i denti dei lupi, mi sembra che sia un
pò dura. Vi confesso, signor Hostrup, che comincio ad aver paura.
- Calma e sangue freddo, fiociniere. Se possiamo giungere
a quel bosco che chiude l'orizzonte, siamo salvi.
- Contate di trovare colà dei difensori?
- No, ma troveremo degli alberi sui quali potremo trovare
un comodo rifugio. Prepara le armi e lascia a me la cura di guidare i cani.
I lupi arrivavano di gran corsa mandando delle urla
brevi, come strozzate e mostrando le loro potenti mascelle armate di acuti e
bianchissimi denti. Erano almeno duecento e parevano molto affamati e perciò
decisi a tutto.
Giunti presso la slitta, che continuava a filare colla
velocità di una freccia, formarono un ampio semicerchio. Non assalivano ancora,
forse tenuti in rispetto dalla presenza dei due uomini, ma le loro urla
parevano volessero dire: Vi mangeremo! Vi mangeremo!
- Devo aprire il fuoco? - chiese Koninson con un leggero
tremito.
- No, finchè si accontentano di seguirci - rispose il
tenente che era tutto intento a far correre i cani, nella cui rapidità stava la
salvezza di tutti. - Aspetta che ci assalgano.
Per un paio di miglia i lupi, quantunque la fame
attanagliasse il loro stomaco, continuarono a seguire e a fiancheggiare la
slitta, ma poi il loro semicerchio si restrinse e uno di loro, più ardito o più
affamato degli altri, si precipitò addosso ai cani che si gettarono
violentemente da una parte. Pronto come il lampo Koninson fece fuoco e l'aggressore
cadde stecchito nella neve. Alcuni carnivori, spaventati dalla detonazione, si
sbandarono, ma gli altri raggiunsero la slitta.
Pochi minuti dopo un altro lupo tentò l'assalto, ma ebbe egual
sorte del primo. La slitta si trovava allora a due soli chilometri dal bosco e
filava con una velocità vertiginosa. Tre o quattro altri l'assalirono per di
dietro tentando di balzarvi dentro.
- Aiuto, signor Hostrup! - gridò Koninson. - Io non basto
più.
Il tenente abbandonò la correggia affidandosi all'istinto
dei cani e afferrò il fucile. Era tempo, poichè i feroci carnivori avanzavano
sempre più, pronti ad un assalto generale.
Due detonazioni rimbombarono, poi altre due, poi due
altre ancora abbattendo altrettanti lupi. I due balenieri continuarono così,
mentre i cani li trascinavano verso il bosco.
I lupi, che ormai avevano assaggiato il sangue, non
retrocedevano più. Urlando furiosamente assalivano la slitta per di dietro e ai
lati tentando di strangolare i cani e di saltare alla gola degli nomini i quali
si difendevano disperatamente.
Ad un tratto Koninson gettò un grido di disperazione.
- Non ho più polvere!
- Maledizione! - urlò il tenente. - E questo è il mio
ultimo colpo!
I lupi, come se avessero compreso che la vittoria era
ormai sicura, si precipitarono confusamente all'assalto della slitta,
circondandola da ogni parte. I cani sparvero sotto il numero degli assalitori e
dopo breve lotta furono fatti a brani, ma i due balenieri non erano ancora
vinti. Ritti sul sedile, si difendevano con sovrumana energia respingendo
l'orda incalzante coi calci dei fucili, spaccando teste, fracassando dorsi,
scavezzando gambe, schiacciando musi.
Ma quella lotta di due contro centocinquanta e più non
poteva durare a lungo. Già il fiociniere e il tenente si sentivano impotenti di
più oltre resistere, già le loro forze venivano meno, i più feroci balzavano
contro le loro gambe, quando una scarica violenta rintronò sotto il bosco che
era lontano soli trecento passi.
Quindici o venti uomini, apparsi improvvisamente,
balzarono in mezzo all'orda urlante disperdendola a colpi di scure e di fucile
e accolsero nelle loro braccia i due balenieri, così miracolosamente salvati.
- Signore, - disse un di loro volgendosi verso il tenente
che non si reggeva più - non abbiate più timore: siete fra i cacciatori del
forte Speranza.
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