Per il disgraziato tre-alberi era suonata
l'ultima ora. Incastrato fra due rocce, che sporgevano appena appena le loro
punte nere, dentellate in mille guise dall'eterno movimento delle acque, con le
coste rotte e la chiglia frantumata, non era più che un rottame impossibile a
ripararsi, che presto o tardi il mare avrebbe indubbiamente ridotto in frantumi
e disperso.
Lo spettacolo era grandioso e insieme spaventevole.
All'intorno il mare spumeggiava furiosamente con mille boati,
frangendosi e rifrangendosi sulle scogliere, trascinando seco frammenti di
murate, di madieri, di corbetti e di imbarcazioni che si urtavano con mille
scricchiolii.
Sul tre-alberi i superstiti, quasi tutti
pazzi di terrore, correvano da prua a poppa mandando mille urla, mille
bestemmie, mille invocazioni. Uno s'arrampicava sulle griselle, un altro si
spingeva fino alle coffe, un terzo più su, fino alle crocette. Un quarto invece
saltellava come se fosse sui carboni ardenti chiamando Dio e la Madonna chi
s'affannava a passarsi attraverso al corpo un salva-gente,
e chi a preparare un galleggiante per montarvici su, appena la nave si fosse
sfasciata.
Il capitano Mac Clintock e mastro Bill, che ne avevano viste
di peggio, erano i soli che conservassero un po' di calma.
Visto che il tre-alberi rimaneva immobile,
come se fosse stato inchiodato sulle scogliere, si affrettarono a scendere
nella stiva.
Videro subito che non v'era più speranza di rimetterlo a
galla, poiché era già zeppo d'acqua.
- Orsù - disse mastro Bill con voce commossa, - la poveretta
ha esalato l'ultimo respiro!
- Hai ragione, Bill - rispose il capitano ancor più commosso.
Questa è la tomba della valorosa Young-India.
- E che cosa faremo?
- Bisogna aspettare l'alba.
- Resisterà ai colpi di mare?
- Lo spero. Le scogliere sono penetrate nel ventre come un cuneo
nel tronco di un albero. Mi sembra irremovibile.
- Andiamo a incoraggiare quelli che sono sul ponte. Sono mezzi
morti di paura.
I due lupi di mare risalirono sul ponte. I marinai ed i
passeggeri, coi visi sconvolti dal terrore, si precipitarono loro incontro
interrogandoli con viva ansietà.
- Siamo perduti? - chiedevano gli uni.
- Andiamo a picco? - chiedevano gli altri.
- C'è speranza di salvarsi?
- Dove siamo?
- Calma, ragazzi - disse il capitano. - Non corriamo per ora
pericolo alcuno.
L'indiano Kammamuri, che aveva mostrato di aver tanta fretta
d'arrivare a Sarawak, si avvicinò al comandante.
- Capitano - chiese con voce tranquilla, - andremo a Sarawak?
Vedi bene che non è possibile, Kammamuri.
- Ma io devo andarci.
- Non so cosa dirti. Il vascello è immobile come uno scoglio.
- Ho il padrone laggiù, capitano.
- Aspetterà.
Lo sguardo vivo e scintillante dell'indiano si fece cupo e la
sua faccia, che aveva un non so che di feroce, divenne tetra.
- Kalì li protegge - mormorò.
- Tutto non è ancora perduto, Kammamuri - disse il capitano.
- Non affonderemo dunque?
- Ho detto di no. Orsù, calma, ragazzi. Domani sapremo su
quale isola o scogliera abbiamo naufragato e vedremo che cosa si potrà fare. Io
garantisco le vostre vite.
Le parole del capitano fecero buon effetto sugli animi dei
marinai, i quali cominciarono a sperare di potersi salvare. Coloro che
lavoravano alle zattere abbandonarono il lavoro; quelli inerpicati sugli alberi
dopo un po' d'esitazione si lasciarono scivolare giù. La calma non tardò a regnare
sul ponte del vascello naufragato.
Del resto la burrasca, dopo d'aver raggiunta la massima
intensità, cominciava a scemare. I nuvoloni, qua e là squarciati, lasciavano
intravvedere di quando in quando il tremulo luccichìo degli astri. Il vento,
dopo d'aver fischiato, urlato, ruggito, si calmava a poco a poco.
Tuttavia il mare continuava a mantenersi assai agitato.
Gigantesche ondate correvano in tutte le direzioni investendo con furia estrema
le scogliere e sfasciandovisi sopra con spaventevole fracasso. Il vascello
scosso, sbattuto a prua e a poppa, gemeva come un moribondo, lasciandosi portar
via pezzi di murate e frammenti della chiglia infranta. Talvolta, anzi,
oscillava da prua a poppa così fortemente, da temere che venisse strappato dal
banco madreporico e travolto in mezzo ai marosi. Per fortuna stette saldo, ed i
marinai, malgrado l'imminente pericolo e le ondate che si rovesciavano in
coperta, poterono gustare anche qualche ora di sonno.
Alle quattro del mattino, verso oriente, il cielo cominciò a
schiarirsi. Il sole sorgeva con la rapidità che è propria delle regioni
tropicali, annunciato da una tinta rossa magnifica. Il capitano, ritto sulla
coffa dell'albero di maestra, con mastro Bill vicino, teneva gli occhi fissi al
nord, dove sorgeva, a meno di due miglia, una massa oscura, che doveva essere
una terra.
- Ebbene, capitano - chiese il nostromo che masticava
rabbiosamente un pezzo di tabacco, - la conoscete quella terra?
- Credo di sì. Fa scuro ancora, ma le scogliere che la cingono
da tutte le parti mi fanno sospettare che quell'isola sia Mompracem.
- By God! - mormorò l'americano facendo una smorfia. -
Ci siamo rotte le gambe in un brutto luogo.
- Lo temo purtroppo, Bill. L'isola non gode buon nome.
- Dite che è un nido di pirati. È tornata la Tigre della
Malesia, capitano.
- Che? - esclamò Mac Clintock, mentre si sentiva correre per
le ossa un brivido. - La Tigre della Malesia tornata a Mompracem?
- Sì.
- È impossibile, Bill! Sono parecchi anni che quel terribile
individuo è scomparso.
- Ma vi dico che è tornato. Quattro mesi or sono egli assalì
l'Arghilah di Calcutta, il quale non gli sfuggì che con gran fatica. Un
marinaio che aveva conosciuto il sanguinario pirata mi narrò di averlo scorto a
prua di un praho.
- Allora siamo perduti. Non tarderà ad assalirci.
- By God! - urlò il mastro, divenendo di colpo
pallidissimo.
- Che cos'hai?
- Guardate capitano! Guardate laggiù!...
- Dei prahos, dei prahos! - gridò una voce dal
ponte.
Il capitano, non meno pallido del mastro, guardò verso l'isola
e scorse quattro legni che doppiavano un capo, lontano appena tre miglia.
Erano quattro grandi prahos malesi, bassi di scafo,
leggerissimi, snelli, con vele di forme allungate sostenute da alberi
triangolari.
Questi legni, che filano con una sorprendente rapidità e che,
grazie al bilanciere che hanno sottovento e al sostegno che portano sopravento,
sfidano i più tremendi uragani, sono generalmente usati dai pirati malesi, i
quali non temono di assalire con essi i più grossi vascelli che s'avventurano
nei mari della Malesia.
Il capitano non lo ignorava, sicché appena li ebbe scorti,
s'affrettò a discendere sul ponte. In poche parole informò l'equipaggio del
pericolo che li minacciava. Solo un'accanita resistenza poteva salvarli.
L'armeria di bordo, per disgrazia, non era troppo ben fornita.
I cannoni mancavano totalmente, i fucili erano appena sufficienti per armare
l'equipaggio e in gran parte assai malandati. V'erano però delle sciabole
d'arrembaggio, arrugginite sì, ma ancora in buono stato, qualche pistolone,
qualche rivoltella e un buon numero di scuri.
I marinai e i passeggeri, armatisi alla meglio, si
precipitarono verso poppa, la quale trovandosi immersa, poteva offrire una
buona scalata. La bandiera degli Stati Uniti salì maestosamente sul picco della
randa e mastro Bill la inchiodò.
Era tempo. I quattro prahos malesi che filavano come
uccelli non erano più che a sette od ottocento passi e si preparavano ad
assalire vigorosamente il povero tre-alberi.
Il sole si alzava allora sull'orizzonte e permetteva di vedere
chiaramente coloro che li montavano.
Erano ottanta o novanta uomini, semi-nudi,
armati di stupende carabine incrostate di madreperla e di laminette d'argento,
di grandi parangs di acciaio finissimo, di scimitarre, di kriss
serpeggianti con la punta senza dubbio avvelenata nel succo d'upas, e di
clave smisurate, dette kampilang, che essi maneggiavano come fossero
semplici bastoncini.
Alcuni erano malesi dalla tinta olivastra, membruti e di
lineamenti feroci; altri erano bellissimi dayaki di alta statura, con le gambe
e le braccia coperte di anelli di rame. C'erano pure alcuni cinesi,
riconoscibili per i loro crani pelati e lucenti come avorio, alcuni bughisi,
macassaresi e giavanesi. Tutti quegli uomini tenevano gli occhi fissi sul
vascello e agitavano furiosamente le armi, emettendo urla feroci che facevano
fremere. Pareva che volessero spaventare i naufraghi prima di venire alle mani.
A quattrocento passi di distanza un colpo di cannone rimbombò
sul primo praho. La palla, di calibro considerevole, andò a fracassare
l'albero di bompresso, il quale si piegò, tuffando la punta in mare.
- Animo, ragazzi! - urlò il capitano Mac Clintock. - Se il
cannone parla, è segno che la danza è cominciata. Fuoco di bordata!
Alcuni colpi di fucile seguirono il comando. Urla atroci
scoppiarono a bordo dei prahos, segno che non tutto il piombo era andato
perduto.
- Così va bene, ragazzi! - urlò mastro Bill.
- Quei brutti musi là non avranno tanto coraggio da spingersi
fino a noi. Ohé! Fuoco!
La sua voce fu coperta da una serie di formidabili detonazioni
che venivano dal largo. Erano i pirati che cominciavano l'attacco.
I quattro prahos parevano crateri infiammati,
eruttavano tremende grandinate di ferro. Tiravano i cannoni, tiravano le
spingarde, tiravano le carabine, schiantando, atterrando, distruggendo tutto
con una precisione matematica.
In men che non si dica quattro naufraghi giacevano sulla tolda
senza vita. L'albero di trinchetto, schiantato sotto la coffa, precipitò sul
ponte ingombrando di pennoni, di vele, di cavi. Alle urla di trionfo erano
succedute urla di spavento e di dolore, gemiti e rantoli d'agonia.
Era impossibile resistere a quell'uragano di ferro che
arrivava con rapidità spaventosa facendo saltare alberi, murate, madieri.
I naufraghi, vistisi perduti, dopo aver scaricato sette od
otto volte i loro moschettoni, malgrado i sagrati del capitano e di mastro Bill,
abbandonarono il posto fuggendo a tribordo, riparandosi dietro i rottami
dell'attrezzatura e delle imbarcazioni.
Alcuni di loro perdevano sangue e gettavano grida strazianti.
I pirati, protetti dai loro cannoni, in capo a un quarto d'ora
giunsero sotto la poppa del vascello tentando di issarsi a bordo.
Il capitano Mac Clintock si gettò da quella parte per
ribattere l'abbordaggio, ma una scarica di mitraglia lo freddò assieme con tre
uomini.
Un urlo terribile echeggiò per l'aria:
- Viva la Tigre della Malesia!
I pirati gettano le carabine, impugnano le scimitarre, le
scuri, le mazze, i kriss e danno intrepidamente l'abbordaggio
aggrappandosi alle murate, ai paterazzi e alle griselle. Alcuni si slanciano
sulla cima degli alberi dei prahos, corrono come scimmie lungo i pennoni
e piombano sull'attrezzatura del tre-alberi lasciandosi
scivolare in coperta. In un attimo i pochi difensori, sopraffatti dal numero,
cadono a prua, a poppa, sul cassero e sul castello.
Presso l'albero di maestra un solo uomo, armato di una pesante
e larga sciabola d'abbordaggio, rimaneva ancora...
Quest'uomo, l'ultimo della Young-India,
era l'indiano Kammamuri, il quale si difende come un leone, smussando le armi
del nemico incalzante e percuotendo a destra e a sinistra.
- Aiuto! aiuto!... - urlò il poveretto con voce strozzata.
- Ferma! - tuonò d'improvviso una voce. - Quell'indiano è un
prode!...
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