PARTE SECONDA - IL RAJAH DI
SARAWAK
- Olà! Bell'uomo!
- Milord!
- Al diavolo i milord.
- Sir!...
- All'inferno i sir.
- Mastro!...
- Che ti colga il crampo.
- Monsieur?... Señor!...
- Appiccati. Che pranzo è questo?
- Cinese, señor, cinese come la trattoria.
- E tu vuoi farmi mangiare alla cinese! Cosa sono queste
bestioline che si muovono?
- Gamberi del Sarawak ubriacati.
- Vivi?
- Pescati mezz’ora fa, milord.
- E tu vuoi ch'io mangi i gamberi vivi? Corpo d'un cannone!
- Cucina cinese, monsieur.
- E questo arrosto?
- Cane giovane, señor.
- Che cosa? - Cane giovane.
- Corpo d'una spingarda! E tu vuoi che io mangi del cane? E
questo stufato?
- È gatto, señor.
- Tuoni e fulmini! Un gatto!
- Un boccone da mandarino, sir.
- E questa frittura?
- Topi fritti nel burro.
- Cane d'un cinese! Tu vuoi farmi crepare!
- Cucina cinese, señor.
- Cucina infernale, vuoi dire. Corpo d'un cannone! Gamberi
ubriachi, frittura di topi, cane arrosto e gatto in stufato per pranzo! Se mio
fratello fosse qui riderebbe tanto da scoppiare. Orsù, non bisogna essere
schifiltosi. Se i cinesi mangiano questa roba, può mangiarla anche un bianco.
Animo, portoghese mio!
Il brav'uomo che così parlava si accomodò sulla sedia di
bambù, trasse dalla cintura un magnifico kriss coll'impugnatura d'oro
ornata di magnifici diamanti, e fece a pezzi il cane arrosto che mandava un
profumo appetitoso.
Fra un boccone e l'altro si mise a osservare il locale nel
quale si trovava.
Era una stanzaccia bassa, colle pareti dipinte a draghi
mostruosi, a fiori strani, a lune sorridenti, ad animali che vomitavano fuoco.
Tutto all'intorno v'erano sedili e stuoie sulle quali russavano dei cinesi dal
volto giallo, il cranio pelato, la coda lunghissima e i baffi pendenti; qua e
là, senza ordine, c'erano tavole di tutte le dimensioni, occupate da brutti
malesi dalla pelle olivastra e i denti neri e da bellissimi dayachi
seminudi con le membra coperte di anelli di ottone, armati di pesanti parangs,
coltellacci lunghi mezzo metro. Alcuni di quegli uomini masticavano il siri,
composto di foglie di betel e di noci d'areca, lanciando sul pavimento
sputi sanguigni; altri bevevano grandi vasi di arak o di tuwak e
altri ancora fumavano lunghe pipe cariche di oppio.
- Hum - borbottò il nostro uomo sventrando il gatto. - Che
brutte facce! Non so come quel briccone di James Brooke riesca a dominare
questi birbanti. Deve essere un gran volpone e un...
Un fischio acuto, che veniva dall'esterno della taverna, gli
troncò la parola.
- Oh! - esclamò.
Accostò due dita alle labbra e imitò quel fischio.
- Señor! - gridò il taverniere, occupato a scuoiare un cane
grosso appena scannato.
- Che il tuo Confucio ti impicchi.
- Ha chiamato, monsieur?
- Silenzio. Scuoia il tuo cane e lasciami in pace.
Un indiano alto, di belle forme, quasi nudo, con un laccio di
seta stretto attorno alle reni e un kriss sospeso al fianco destro,
entrò, girando attorno i suoi grandi occhi neri. Il nostro uomo che stava
spolpando una zampa di gatto, scorgendo il nuovo arrivato si alzò, mormorando:
- Kammamuri!
Stava per lasciare il suo posto, quando un rapido cenno
dell'indiano, accompagnato da uno sguardo supplichevole, lo arrestò:
- C'è qualche pericolo in aria - tornò a mormorare. - In
guardia, amico.
L'indiano, dopo aver un po' esitato, si sedette di fronte a
lui. Il taverniere accorse.
- Una tazza di tuwak! - chiese il nuovo avventore.
- E da mettere sotto i denti?
- La tua coda
Il cinese volse le spalle e fece portare una tazza e un vaso
di tuwak.
- Spiati? - chiese con un fil di voce l’uomo che gli stava
davanti, continuando a divorare.
L'indiano fece col capo un cenno affermativo.
- Che appetito, signore! - esclamò poi a voce alta
- Non mangio da ventiquattro ore, mio caro - rispose il nostro
uomo che, come il lettore si sarà immaginato, era il bravo Yanez, l'amico
indivisibile della Tigre della Malesia.
- Venite da lontano?
- Dall'Europa. Eh! taverniere di casa del diavolo, un po' di tuwak!
- Vi offro del mio, se non vi spiace - disse Kammamuri.
- Accettato, giovanotto. Siedi vicino a me a da' un colpo di
dente a tutta questa roba che mi sta dinanzi.
Il maharatto non si fece pregare e si sedette accanto
al portoghese mettendosi a mangiare.
- Possiamo parlare - disse Yanez. - Nessuno può ora sospettare
che noi siamo amici. Vi siete salvati tutti?
- Tutti, padron Yanez - rispose Kammamuri. - Prima che
spuntasse l'alba, un'ora dopo la vostra partenza, lasciammo i fitti boschetti
della riva e ci rifugiammo in una vasta palude. Il rajah aveva mandato
soldati a perlustrare la foce del fiume, ma non sono riusciti a scoprire le
nostre tracce.
- Sai, Kammamuri, che siamo stati bravi a sfuggire al rajah?
- Un mezzo minuto di ritardo e saremmo saltati in aria tutti
quanti. Buon per noi che la notte era tanto oscura che quei birbanti non ci
videro nuotare verso la riva.
- La povera Ada ha sofferto nulla?
- Nulla affatto, padron Yanez. Aiutato da Sambigliong, potei
trasportarla a terra con tutta facilità.
- Dove si trova ora Sandokan?
- A otto miglia da qui, nel mezzo di un fitto bosco.
- Al sicuro dunque.
- Non lo so. Ho visto delle guardie del rajah aggirarsi
nella foresta.
- Diavolo!
- E voi, non correte alcun pericolo?
- Io! Chi sarà quel pazzo che mi prenderà per un pirata? Io,
un bianco, un europeo?
- State però in guardia, signor Yanez. Il rajah deve
essere un uomo assai furbo.
- Lo so, ma noi siamo più furbi di lui.
- Sapete nulla di Tremal-Naik?
- Nulla, Kammamuri. Ho interrogato parecchie persone, ma senza
esito.
- Povero padrone - mormorò Kammamuri.
- Lo salveremo, te lo prometto - disse Yanez. - Questa sera mi
metterò all'opera.
- Che cosa volete fare?
- Cercare di avvicinare il rajah e diventare suo amico.
- E come?
- L'idea l'ho e mi pare buona. Provocherò un tafferuglio, farò
del baccano, fingerò di voler accoppare qualcuno e mi farò arrestare dalle
guardie del rajah.
- E poi?
- Quando mi avranno arrestato inventerò qualche amena
storiella e mi spaccerò per un nobile lord, per un baronetto...
- E io che cosa dovrò fare?
- Nulla, mio caro maharatto. Andrai difilato da
Sandokan e gli dirai che tutto cammina di bene in meglio. Domani però verrai a
ronzare attorno all'abitazione del rajah. Forse avrò bisogno di te.
Il maharatto si alzò.
- Un momento - disse Yanez, traendo di tasca una borsa ben
gonfia e porgendogliela.
- Che cosa devo fare?
- Per effettuare il mio progetto bisogna che non abbia un
soldo in saccoccia. Dammi anzi il tuo kriss, che non ha alcun valore, e
prendi il mio che ha troppo oro e troppi diamanti.
- Ehi! taverniere del demonio, sei bottiglie di vino di
Spagna.
- Volete ubriacarvi? - chiese Kammamuri.
- Lascia fare a me e vedrai. Addio mio caro.
L'indiano gettò sulla tavola uno scellino e uscì, mentre il
portoghese stappava le bottiglie che certo costavano assai care. Tracannò due o
tre bicchieri e il rimanente lo diede a bere ai malesi che gli erano vicini, ai
quali non parve vero di aver trovato un europeo così generoso.
- Ehi, taverniere! - gridò ancora il portoghese, - portami
dell'altro vino e qualche piatto di lusso.
Il cinese, tutto contento di fare così grassi affari e
pregando in cuor suo il buon Buddha di mandargli ogni giorno una dozzina di
simili avventori, portò nuove bottiglie e una terrina di delicatissimi nidi di
salangana, conditi con aceto e sale, un cibo che solo i ricconi possono
gustare.
Il portoghese, quantunque avesse mangiato per due, tornò a
lavorare di denti, a bere e a regalare vino a tutti i vicini.
Quando finì, il sole era tramontato da una buona mezz'ora e
nella taverna erano state accese gigantesche lanterne di talco, che spandevano
sui bevitori la loro scialba luce, cara ai caudati figli del Celeste Impero.
Accese la sigaretta, esaminò la batteria delle sue pistole e
si alzò mormorando:
- Andiamocene, caro Yanez. Il taverniere farà un baccano
indiavolato, io ne farò più di lui, accorreranno le guardie del rajah ed
io verrò arrestato. Sandokan, ne sono certo, non avrebbe ideato un piano
migliore.
Gettò in aria due o tre boccate di fumo e si diresse
tranquillamente verso la porta. Stava per varcarla, quando si sentì prendere
per la giacca.
- Monsieur! - disse una voce.
Yanez si volse accigliato e si trovò dinanzi il taverniere.
- Che cosa vuoi, mascalzone? - chiese, fingendosi offeso.
- Il conto, señor.
- Quale conto?
- Voi non mi avete pagato, gentleman. Mi dovete tre
sterline, sette scellini e quattro penny.
- Vattene al diavolo. Non ho un soldo in tutte le dieci
tasche.
Il cinese, da giallo che era, divenne cinereo.
- Ma voi mi pagherete - gridò aggrappandosi ai panni del
portoghese.
- Lascia il mio vestito, canaglia! - urlò Yanez.
- Mi dovete tre sterline, sette scellini e...
- E quattro penny, lo so: ma io non ti pagherò, briccone...
Va' a scuoiare il tuo cane e lasciami in pace.
- Siete un ladro, gentleman? Io vi farò arrestare!
- Prova!
- Aiuto! Arrestate questo ladro! - urlò il cinese furibondo.
Quattro sguatteri si precipitarono in aiuto del loro padrone
armati di casseruole, di pentole e di schiumarole. Era quello che desiderava il
portoghese, che ad ogni costo voleva far baccano.
Con mano di ferro abbrancò il taverniere per la gola, l'alzò
da terra e lo scagliò fuori della porta a rompersi il naso sui ciottoli della
via. Indi caricò i quattro sguatteri, dispensando con rapidità meravigliosa
tali calci che i disgraziati, in meno che non si dica, si trovarono stesi per
terra accanto al padrone.
Urla indemoniate scoppiarono tosto.
- Aiuto, compatriotti! - urlava il taverniere.
- Al ladro! All'assassino! Accoppalo! Ammazzalo! - urlavano
gli sguatteri.
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