Quelle grida emesse da cinesi in un quartiere cinese, dovevano
ottenere lo stesso effetto che ha un gong battuto in una via di Canton o di
Pekino.
Infatti, in meno di due minuti, un duecento coduti figli del
Celeste Impero, armati di bambù, di coltelli, di sassi e di ombrelli, si
trovavano riuniti dinanzi alla porta della taverna mandando grida spaventevoli.
- Dàlli al ladro! - gridavano gli uni, roteando
minacciosamente bastoni e ombrelli.
- Impicca il bianco! - urlavano gli altri mostrando i
coltelli.
- Gettalo nel fiume!
- salassate quel cane!
- Accopalo! Ammazzalo! Annegalo! Abbrucialo! Apppiccalo!
I bevitori, spaventati da quel baccano e temendo di venire
lapidati, sgombrarono in fretta la taverna, chi uscendo dalla porta e
mescolandosi alla banda, chi saltando dalle finestre, che fortunatamente non
erano troppo alte. Lì non rimase che il portoghese, il quale rideva a
crepapelle, come se assistesse ad una brillantissima farsa.
- Bravi! bene! bis! bis! - gridava egli, armando però le pistole
e tirando dalla cintura il kriss.
Un cinese che parlava più di tutti, in prima fila, gli tirò
una sassata: ma il ciottolo andò a spezzare un gran fiasco di sam-sciù,
il cui liquore si sparse per terra.
- Ehi! mariuolo! - gridò il portoghese - tu rovini il
taverniere.
Raccolse il ciottolo e lo rimandò all'aggressore che n'ebbe
rotto un dente.
Urla ancora più acute rimbombarono nel quartiere, facendo
accorrere altri cinesi, alcuni dei quali armati di vecchi archibugi. Tre o quattro,
incoraggiati dai compagni del taverniere, tentarono di entrare, ma alla vista
delle pistole che il portoghese puntava verso di loro si affrettarono a
mostrare le suole di feltro dei loro zoccoli.
- Lapidiamolo! - gridò una voce.
- E la mia taverna? - gemette il taverniere.
Una grandine di ciottoli entrò nella taverna fracassando le
lanterne, i fiaschi, i piatti, le terrine ed i vasi.
Il portoghese, visto che il tumulto aumentava pericolosamente,
scaricò in aria le sue due pistole.
Ai due spari tennero dietro sette archibugiate sparate nella
via, ma senz'altro effetto che quello d'ingrossare il baccano.
D'improvviso si udirono varie voci gridare:
- Largo!... Largo!...
- Le guardie del rajah!
Il portoghese respirò. Quel frastuono, i bastoni agitati in
aria, i coltelli, le grandinate di ciottoli, i moschettoni e il continuo
affluire della folla cominciavano ad inquietarlo.
- Facciamo baccano, ora che non c'è più alcun pericolo -
disse.
Si slanciò verso una tavola e la rovesciò mandando in frantumi
tutti i fiaschi, i vasi, i tondi che vi erano sopra.
- Arrestatelo! Arrestatelo! - urlò il taverniere. - Quel
bianco mi fracassa tutto.
- Largo! Largo alle guardie! - gridarono alcuni.
La folla si divise e sulla porta della taverna apparvero due
uomini di colore, alti, robusti, con giacca e calzoni di tela bianca e una
draghinassa in pugno.
- Indietro! - gridò il portoghese, puntando su di loro le
pistole.
- Un europeo! - esclamarono le due guardie, meravigliate.
- Dite un inglese - precisò Yanez.
Le due guardie ringuainarono le draghinasse.
- Non vogliamo farvi alcun male - disse uno dei due. - Siamo
al servizio del rajah Brooke vostro compatriota.
- E che cosa volete da me?
- Liberarvi da questa turba.
- E condurmi in qualche carcere?
- A questo penserà il rajah.
- Mi condurrete da lui?
- Senza dubbio.
- Se è così, vengo. Dal rajah Brooke non ho nulla da
temere.
Le due guardie lo presero in mezzo e tornarono a sguainare le
draghinasse, onde proteggerlo dalla rabbia dei cinesi che era giunta al colmo.
- Largo! - gridarono.
- I cinesi, in numero grandissimo, a quella intimazione non
ubbidirono: volevano ad ogni costo linciare l'europeo, giacché le due guardie
non l’avevano infilzato come avevano sperato.
Le due guardie però non si perdettero d'animo. Distribuendo
piattonate a destra e a sinistra e vigorosi calci, riuscirono a fare un po' di
largo e trassero il prigioniero in una stretta stradicciola, giurando di
ammazzare quanti li avrebbero seguiti.
Quella minaccia ebbe un buon successo
I cinesi, dopo aver urlato su tutti i toni e lanciato
imprecazioni contro Yanez, contro le guardie e contro lo stesso rajah
che accusavano di proteggere i ladri, si dispersero, lasciando soli il
taverniere e i suoi quattro sguatteri malconci.
Sarawak non e una città molto vasta: le due guardie, in meno
di cinque minuti, giunsero alla palazzina del rajah, costruita in legno,
come tutte le abitazioni dei bianchi che coronano le collinette dei dintorni.
Sulla cima ondeggiava una bandiera che al portoghese parve
rossa come quella inglese: dinanzi alla porta stava impalato un indiano armato
di fucile e baionetta.
- Mi condurrete subito dal rajah?
- È troppo tardi - risposero le guardie. - Il rajah
dorme.
- E dove passerò la notte?
- Vi daremo una stanza.
- Purché non sia una cantina.
- Un compatriota del rajah non si mette in una cantina.
Il portoghese fu fatto entrare: salirono una scala, poi Yanez
fu introdotto in una stanzetta con le finestre difese da grosse stuoie di
foglie di nipa, il cui arredamento era costituito da un'amaca di
filamenti di cocco, da qualche mobile di provenienza europea e da una lampada
che era stata già accesa.
- Per Giove! - esclamò, stropicciandosi allegramente le mani.
- Dormirò come un babirussa.
- Desidera nulla? - chiese una delle guardie.
- Che mi si lasci dormire - rispose Yanez.
Una guardia uscì, ma l'altra si sedette presso la porta
mettendosi in bocca una noce di areca avvolta in una foglia di betel.
- Approfitterò per farlo cantare; ci sono molte cose che
ignoro e che quest'uomo senza dubbio sa - pensò Yanez.
Arrotolò una sigaretta, l'accese, aspirò alcune boccate di
fumo e avvicinandosi alla guardia:
- Giovanotto, sei indiano? - chiese.
- Bengalese, sir - rispose la guardia.
- È da molto tempo che sei qui.?
- Due anni.
- Hai udito parlare di un pirata che si chiama la Tigre della
Malesia?
- Sì.
Yanez represse a stento un gesto di gioia.
- È vero che la Tigre è qui? - domandò.
- Non lo so, ma si dice che i pirati hanno assaltato un
vascello a venti o trenta miglia dalla costa e che poi sono sbarcati.
- Dove?
- Non si sa precisamente in qual luogo, ma lo sapremo.
- In qual modo?
- Il rajah ha delle brave spie.
- Dimmi, è vero che alcuni mesi or sono è naufragato un
vascello inglese presso il capo Tanjong-Datu?
- Sì - rispose l'indiano. - Era un vascello da guerra
proveniente da Calcutta.
- Chi corse in suo aiuto?
- Il nostro rajah col suo schooner, il Realista.
- Fu salvato l'equipaggio?
- Tutto, compreso un indiano condannato alla deportazione perpetua,
non ricordo più in quale isola.
- Un indiano condannato alla deportazione perpetua! - esclamò
Yanez, fingendo la massima sorpresa. - E chi era costui?
- Si chiamava Tremal-Naik.
- E qual delitto aveva commesso? - chiese Yanez, trepidante.
- Mi si disse che aveva ucciso degli inglesi.
- Che brigante! Ed è ancora qui questo indiano?
- È rinchiuso nel fortino.
- In quale?
- Quello che è sul colle. Non ve n'è che uno a Sarawak.
- Ha guarnigioni il fortino?
- Vi sono i marinai del legno naufragato.
- Molti?
- Una sessantina al massimo.
Yanez fece una smorfia. - Sessanta uomini! - mormorò. - E
forse vi saranno anche dei cannoni.
Si mise poi a camminare per la stanza, meditabondo. Passeggiò
così per alcuni minuti, poi si sdraiò sull'amaca, pregò la sentinella di
abbassare la fiamma della lampada e chiuse gli occhi.
Quantunque prigioniero e con molti pensieri pel capo, il
portoghese dormì tranquillo come se fosse stato a bordo della Perla di
Labuan o nella capanna della Tigre della Malesia.
Quando si svegliò, un raggio di sole penetrava attraverso le
foglie di nipa che servivano da persiane.
Guardò verso la porta, ma la sentinella non c'era più.
Vedendolo dormire e fors'anche udendo russare, se n'era andata, certa che un
prigioniero di quel genere non sarebbe saltato dalle finestre.
- Benissimo - disse il portoghese. - Approfittiamone.
Balzò giù dall'amaca, fece un po' di toilette, alzò la
stuoia e si affacciò alla finestra, respirando a pieni polmoni l'aria fresca
del mattino.
Sarawak presentava un bel colpo d'occhio con le sue palazzine
di legno circondate da verdeggianti boschetti, col suo grande fiume ombreggiato
da superbi alberi e solcato da piccoli prahos, da svelte piroghe, da
leggeri e lunghi canotti, con le bizzarre casette dal tetto arcuato e dipinte a
smaglianti colori, del quartiere cinese, con le capanne di foglie di nipa,
piantate su pali di rispettabile altezza, del quartiere dayaco e le
viuzze affollate di cinesi, di dayachi, di bughisi e di macassaresi.
Il portoghese percorse, con un rapido sguardo, la città e
arrestò gli sguardi sulle colline. Come si disse, v’erano eleganti palazzine di
legno abitate dagli europei. Più oltre, però, si vedeva una graziosa chiesetta
e, a non grande distanza, un forte solidamente costruito e con molte feritoie.
Il portoghese lo guardò con attenzione profonda.
- È la che vi è Tremal-Naik - mormorò. -
Come liberarlo?
In quello stesso istante una voce dietro di lui diceva:
- Il rajah vi attende.
Yanez si volse e si trovò dinanzi il bengalese.
- Ah! siete voi, amico? - disse sorridendo. - Come sta rajah
Brooke?
- Vi attende, sir.
- Andiamo a stringergli la mano.
Uscirono, salirono un'altra scala ed entrarono in un salotto,
le cui pareti scomparivano sotto un vero strato d'armi di tutte le grandezze e
di tutte le forme.
- Entrate in quel gabinetto - disse il bengalese.
- Che cosa racconterò? - mormorò il portoghese. - Coraggio,
Yanez. hai una vecchia volpe dinanzi.
Spinse la porta ed entrò risolutamente nello studio in mezzo
al quale davanti ad una tavola ingombra di carte geografiche, stavasene seduto
il rajah di Sarawak.
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