Cinque minuti dopo il drappello guardava
silenziosamente il fiumicello che era scarsissimo d'acqua e si radunava sulla
riva opposta che era priva d'alberi.
Una vasta pianura, interrotta
solo da qualche gruppetto di palme e di pombo, si estendeva al di là,
spingendosi verso una grossa costruzione sopra la quale si scorgeva una specie
di torricella che pareva un osservatorio.
Cominciando appena appena allora
a diradarsi le tenebre, non era ancora permesso discernere che cosa veramente
fosse, ma il pilota e il meticcio non avevano bisogno della luce per sapere
dove si trovavano.
- Il kampong di
Pangutaran! - avevano esclamato ad una voce.
- E coi dayaki intorno, -
aveva aggiunto Yanez, aggrottando la fronte. - Che il grosso delle loro forze
sia giunto prima di noi?
Infatti numerosi fuochi, disposti
in forma di semi-cerchio, ardevano dinanzi alla fattoria,
come se i terribili tagliatori di teste avessero stabilito un grande campo.
Tutti si erano arrestati,
guardando con ansietà quei falò e cercando di rendersi conto delle forze degli
assedianti.
- Eccoci in un bell'impiccio, -
mormorava Yanez. - Sarebbe un'imprudenza avventarsi alla cieca contro forze che
potrebbero essere venti volte superiori e d'altronde sarebbe una follia
aspettare l'alba. Mancherebbe la sorpresa e potremmo venire ricacciati.
- Signore, - disse il pilota in
quel momento. - Che cosa decidete?
- Credi che siano molti gli
assedianti?
- A giudicarlo dal numero dei
fuochi si potrebbe crederlo. Volete che vada ad accertarmi delle loro forze?
- Yanez lo guardò con diffidenza.
- Sospettate di me, è vero? -
disse il malese, sorridendo. - Avete ragione: fino a ieri io ero un vostro
nemico. Eppure avete torto: ormai ho rotto tutto con quegli uomini e preferisco
essere contato fra i vostri uomini che sono malesi al pari di me, anziché con
quei selvaggi.
- Potrai essere di ritorno prima
che il sole sorga?
- Non comparirà prima di mezz'ora
ed io vi prometto di essere di ritorno fra dieci minuti.
- Dammi dunque una prova della
tua fedeltà, - disse Yanez.
- L'avrete, signore.
Il malese si fece dare un parang,
fece un gesto d'addio e si allontanò, gettandosi in mezzo ad una
piantagione di zenzero che gli assedianti non avevano ancora distrutta.
Yanez, coll'orologio alla mano
contava i minuti. Temeva vivamente che il pilota tardasse, e che la luce si
diffondesse prima del suo ritorno, rendendo impossibile una sorpresa.
Ne aveva contati sei, quando
Padada comparve, correndo a corsa sfrenata.
- Ebbene? - chiese Yanez,
muovendogli incontro.
- Il grosso che ha operato contro
di noi alla foce del fiume non è ancora giunto. Gli assedianti non sono più
d'un centinaio e le loro file sono così deboli da non poter resistere ad un
urto improvviso.
- Hanno armi da fuoco?
- Sì, signore.
- Bah! Sappiamo come se ne
servono.
Si volse verso i suoi uomini che
lo avevano raggiunto e aspettavano il comando di dare addosso ai nemici.
- Date dentro a corpo perduto, -
disse loro. - Le tigri di Mompracem mostrino in quale conto tengono questi
tagliatori di teste.
- Quando ce l'ordinerete, noi
sfonderemo tutto, signor Yanez, - rispose il più vecchio. - Voi sapete che noi
non abbiamo mai avuto paura.
- Accostiamoci in silenzio e
prendiamoli alle spalle. Non farete fuoco se non quando lo comanderò io.
Formiamo la colonna d'assalto.
Si disposero su una doppia fila,
mettendo dinanzi i più valorosi, poi il drappello si cacciò silenziosamente in
mezzo ai zenzeri che erano abbastanza alti per coprirli.
Yanez si era gettata la carabina
a tracolla, ed aveva sfoderata la scimitarra e levata dalla fascia una ricca
pistola indiana a due colpi, dalle canne lunghissime.
La traversata della piantagione
fu compiuta così celermente che quattro minuti dopo giungevano a ottanta passi
dagli assedianti.
I dayaki, sicuri di non
venire assaliti, bivaccavano in gruppetti di quattro o cinque persone, attorno
al falò.
Trecento metri più oltre s'alzava
il kampong. Era una specie di kotta, ossia di fortezza bornese,
costituita da un corpo di fabbricati, circondato da larghi panconi di durissimo
legno di tek, capaci di opporre una solida resistenza anche ai piccoli lilà
se non ai mirim e da un folto boschetto di piante spinose che non
permetteva di prenderla d'assalto ad uomini quasi nudi e privi soprattutto di
scarpe.
Sul fabbricato principale, una
casa di bella apparenza, che ricordava i bengalow indiani, s'alzava una
sottile torretta di legno, una specie di minareto arabo, sulla cui cima
brillava una grossa lanterna.
- Tangusa, - disse Yanez, che
aveva fatto coricare i suoi uomini, volendo prima rendersi un conto esatto
della situazione in cui trovavasi la fattoria, - dove si trova il passaggio?
- Di fronte a noi, signore.
- Non cadremo in mezzo alle
spine?
- Vi guido io.
- Siete pronti? - chiese Yanez
rivolgendosi ai pirati.
- Pronti tutti, capitano.
- Caricate al grido «Viva
Mompracem!» onde non corriamo il pericolo di farci fucilare dai difensori del kampong.
Avanti!
I diciotto uomini si erano
slanciati a corsa sfrenata, piombando sul gruppo più vicino. Nessuno poteva ormai
più trattenere le terribile tigri della Malesia: né artiglierie, né fucili, né
armi bianche.
Con una scarica fulminarono i
cinque o sei dayaki che avevano abbandonato precipitosamente il falò
attorno a cui bivaccavano, poi attraversarono come un lampo la debole linea
d'assedio, continuando a sparare e urlando a squarciagola:
- Viva Mompracem!
I tagliatori di teste, sorpresi
da quell'improvviso assalto, che erano ben lungi dall'aspettarsi, non avevano
nemmeno tentato di opporre resistenza, sicché l'animoso drappello potè gettarsi
dentro il boschetto spinoso che copriva la cinta.
Degli uomini erano comparsi sulle
difese interne armati di fucili. Pareva che si preparassero a far fuoco, quando
una voce imperiosa gridò:
- Fermi! Sono amici! Aprite la
porta!
- Ohe, amico
Tremal-Naik, - gridò Yanez con voce giuliva. - Non abbiamo
affatto bisogno del piombo noi. Ne abbiamo avuto già abbastanza di quello dei
dayaki.
- Yanez! - esclamò
l'indiano, con una vera esplosione di gioia.
- Chi credevi che fosse dunque?
- Alzate la saracinesca! Lesti! I
dayaki tornano alla riscossa!
Una enorme tavola di legno di tek,
pesante come fosse di ferro, fu innalzata da parecchi uomini mediante funi
sospese a grosse carrucole e le tigri di Mompracem col pilota ed il meticcio,
si precipitarono entro il kampong, mentre i difensori della cinta
salutavano gli assedianti con due colpi di spingarda e un violentissimo fuoco
di fucileria.
Un uomo di statura piuttosto
alta, un po' attempato, avendo i baffi ed i capelli brizzolati, di taglia però
ancora elegante ed insieme vigorosa, dai lineamenti fini, la pelle un po'
abbronzata e gli occhi nerissimi, aveva aperte le braccia per stringere il
portoghese.
Non indossava il costume dei
ricchi bornesi, bensì quello degli indiani modernizzati i quali hanno ormai
rinunciato al doote e alla dubgah pel costume
anglo-indù, più semplice e più comodo, consistente in una
giacca di tela bianca con alamari di seta rossa, fascia larghissima ricamata in
oro e calzoni strettissimi pure bianchi e turbantino.
- Qui, sul mio petto, amico
Yanez! - aveva esclamato, abbracciandolo strettamente. - È destinato che debba
sempre ricorrere alla generosità ed al valore delle invincibili tigri di
Mompracem. Come sta la Tigre della Malesia?
- Muore di salute.
- E la tua Surama?
- Mi ama sempre intensamente. E
Darma dov'è che non la vedo?
- La tigre o mia figlia?
- L'una e l'altra, giacché mi
scordavo della tua brava bestia.
- Mia figlia dorme in questo
momento e la tigre marcia verso la costa con Kammamuri.
- Come! il maharatto non è
qui? - esclamò Yanez.
- Temendo che Tangusa non avesse
potuto raggiungervi o guidarvi qui, egli è partito nonostante i miei consigli,
con una piccola scorta e forse a quest'ora, se è riuscito a sfuggire ai dayaki,
si è imbarcato per Mompracem.
- Lo ritroveremo più tardi.
- Vieni, amico, - disse
Tremal-Naik. - Non è questo il luogo per scambiarci le
nostre confidenze. Olà, Tangusa, fa' gli onori di casa e prepara da mangiare e
da bere alle tigri di Mompracem.
S'avviò verso il bengalow che
s'alzava fra alcune immense tettoie piene di prodotti agricoli ed una doppia
linea di capanne ed introdusse l'amico in una stanza pianterrena che era
illuminata da una bella lampada indiana, i cui vetri azzurrognoli attenuavano
la luce. Tremal-Naik non aveva rinunciato ai suoi gusti di
bengalese. Ed infatti la stanza era arredata con mobili indiani, leggeri sì, ma
elegantissimi e tutto all'intorno aveva quei bassi e comodi divani che si
vedono in tutte le ricche abitazioni degli adoratori di Brahma, di Siva o di
Visnù.
- Un buon bicchiere di bram innanzi
tutto, - disse l'indiano, empiendo due bicchieri con quell'eccellente liquore
composto con riso fermentato, zucchero e succhi di varie palme che lo
profumano. - Arresta il sudore.
- Ed io sono inzuppato, come un
cavallo che ha percorse dodici leghe tutte d'un fiato. Non sono più giovane,
amico mio, - disse Yanez, vuotando poi d'un fiato il bicchiere. - Ed ora
spiegami questo mistero.
- Una domanda prima di tutto, se
me lo permetti. Come sei giunto?
- Colla Marianna e dopo
d'aver forzata la foce del fiume. Più tardi ti narrerò i particolari di quella
lotta.
- Dove l'hai lasciata?
- All'imbarcadero.
- È numeroso l'equipaggio?
- Ha forze uguali alle mie.
Tremal-Naik
era diventato meditabondo ed inquieto.
- Sono uomini capaci di difendere
il mio veliero, - disse Yanez che se n'era accorto.
- Sono molti i dayaki, più
di quanti credevo e soprattutto ben armati e anche bene esercitati.
- Dal pellegrino?
- Sì, Yanez.
- L'avrai veduto, tu, quel
briccone.
- Io? Mai!
- Non sai nemmeno tu chi è? -
chiese Yanez al colmo dello stupore.
- No, - rispose
Tremal-Naik. - Io gli ho mandato un messo due settimane or
sono, pregandolo di presentarsi da me per spiegarmi i motivi del suo odio,
promettendogli salva la vita.
- E lui si è guardato bene
dall'obbedire?
- Mi ha fatto rispondere invece
che andassi io da lui onde consegnargli la mia testa unitamente a quella di mia
figlia.
- Tanta audacia ha avuto quel
miserabile! - esclamò Yanez, indignato. - Udiamo: hai mai offeso qualche capo
dayako? Quei tagliatori di teste sono ferocemente vendicativi.
- Io non ho mai fatto male a
nessuno, e poi quell'uomo non è un dayako, - rispose l'indiano.
- Chi è dunque?
- Alcuni affermano che sia un
vecchio arabo fanatico, altri un negro e altri ancora un indiano.
- Eppure ci deve essere un gran
motivo per odiarti tanto.
- Certo, ma più ci penso meno
riesco a scoprirlo, ed invano tormento il mio cervello. Mi è venuto perfino un
sospetto.
- Quale?
- È così assurdo che rideresti se
te lo dicessi. - disse Tremal-Naik.
- Gettalo fuori.
- Che potesse essere qualche thug.
Yanez invece di accogliere quelle
parole con un sorriso, come l'indiano s'aspettava, era diventato lievemente
pallido.
- Sei ben certo,
Tremal-Naik, - disse poi con voce grave, - che tutti i
luogotenenti di Suyodhana, il capo degli strangolatori, siano stati uccisi da
noi nelle caverne di Raimangal o dagli inglesi nelle stragi di Delhi? Chi ce lo
assicura?
- E tu vorresti che quel qualcuno
avesse pensato a vendicare Suyodhana dopo undici anni?
- Tu hai provata la tenacia ed
hai pure provato l'odio implacabile di quegli assassini. Tu sei stato la causa
della loro fine.
Tremal-Naik
era tornato a diventare pensieroso ed il suo viso tradiva una profonda
angoscia. Ad un tratto, fece un gesto come per cacciare via qualche visione, poi
disse:
- No, è impossibile, è assurdo. I
thugs, ammesso che ve ne siano ancora in India, non avrebbero atteso
tanto. Quel pellegrino deve essere qualche furfante che cerca d'imporsi ai
dayaki per fondarsi qualche sultania e che finge di odiarmi. Avrà fatto
spargere la voce che io non sono un mussulmano, che io sono forse un nemico dei
dayaki, una creatura inglese incaricata di soggiogarli o qualche cosa
d'altro per mandarmi via di qui. Sarà tutto quello che vorrai, anche un vero
fanatico, ma non un thug.
- Sia come vuoi tu, ma mi
pare che tu ti trovi in una non bella condizione. Hai perdute tutte le
fattorie?
- Le hanno saccheggiate e poi
arse.
- Sarebbe stato meglio che tu
fossi rimasto con noi a Mompracem.
- Volevo tentare di colonizzare
queste coste e incivilire questi barbari.
- E hai fatto un buco nell'acqua,
- disse Yanez, ridendo.
- Purtroppo.
- E ci rimetterai qualche
centinaio di migliaia di rupie. Meno male che le tue fattorie del Bengala
possono pagare le spese. Quando sgombreremo?
- Ti chiedo solo ventiquattro
ore, - rispose Tremal-Naik, - per poter raccogliere il
meglio che posseggo, poi daremo fuoco a tutto e raggiungeremo la tua nave.
- E correremo al più presto verso
Mompracem, - disse Yanez. - La nostra presenza è necessaria laggiù.
Aveva pronunciate quelle parole
con un tono così grave, che l'indiano ne fu colpito.
- C'è qualche cosa in aria? -
chiese.
- Ma... non si sa ancora. Corrono
delle voci che inquietano la Tigre della Malesia.
- E quali?
- Che gli inglesi abbiano
intenzione di farci sloggiare da Mompracem. È un po' di tempo che tutti gli
atti di pirateria che succedono lungo le coste occidentali dell'isola li
addebitano a noi, quantunque da molti anni i nostri prahos dormano sulle
loro àncore. Dicono che la nostra presenza incoraggia i pirati costieri e che
noi direttamente o indirettamente li aizziamo contro le navi che si recano a
Labuan. Frottole, ma già tu conosci la doppiezza del leopardo inglese.
- E anche la sua ingratitudine, -
disse l'indiano. - Ecco come vorrebbero compensarci d'aver liberata l'India
dalla setta dei thugs. E Sandokan cederebbe?
- Lui! Ah! Quell'uomo è capace di
gettare il guanto di sfida contro tutta l'Inghilterra e di...
Un lontano colpo di cannone gli
aveva interrotta la frase.
- Hai udito? - esclamò, balzando
in piedi in preda ad una vivissima agitazione.
- Sì, il cannone tuona verso il
sud.
- I dayaki attaccano la Marianna!
- Seguimi
sull'osservatorio, Yanez, - disse Tremal-Naik. - Di lassù potremo
udire meglio da quale parte giungono gli spari.
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