Nelle isole malesi e anche in
quelle polinesiane, la prova del fuoco è molto in uso anche oggidì, ma non
serve come da noi un tempo, per provare l'innocenza di qualcuno incolpato o d'un
omicidio, o d'un furto, bensì come una cerimonia religiosa.
Ed infatti non sono che i
sacerdoti che in certe epoche dell'anno, per propiziarsi le divinità più o meno
celesti, fanno la passeggiata non già sui carboni accesi come i fanatici
indiani, ma invece su pietre rese ardentissime.
Quella cerimonia si eseguisce per
lo più su un piano di pietroni che misura ordinariamente tre metri di lunghezza
e mezzo di larghezza.
I sacerdoti accendono i fuochi
all'alba e li mantengono fino al pomeriggio; poi, accompagnati da alcuni
discepoli, sbarazzano le ceneri ed i tizzoni, pronunciano alcune parole rituali
che sono indispensabili secondo loro, battono con un ramo di dracina l'orlo del
braciere, quindi s'avanzano sulle pietre a piedi nudi, attraversandole lentamente.
La lunghezza del passo non è
indicata, ma si suppone che i piedi debbono toccare almeno tre volte e qualche
volta anche di più.
Come fanno a resistere, e quello
che è più, ad uscire incolumi da quella prova? Mistero!
Essi attribuiscono la loro invulnerabilità
alla mana, un potere misterioso che permette agli iniziati di
attraversare le pietre ardenti senza riportare alcuna scottatura, potere che
non è riprodotto da alcun simbolo e che si può trasmettere semplicemente colla
parola.
Comunque sia il fatto, si è che
escono dalla terribile prova assolutamente incolumi.
Un viaggiatore europeo, il
colonnello inglese Gudgeon, ha voluto alcuni anni or sono tentare anche lui la
prova assieme ad alcuni compagni, in un'isola dell'Oceano Pacifico, durante una
cerimonia religiosa, certo di non cavarsela senza dolorose scottature. Ebbene,
lo credereste? Il coraggioso colonnello uscì dalla prova non meno illeso dei
sacerdoti! Uno solo dei suoi compagni, che aveva pure ricevuto la mana, ossia
quel potere misterioso che come dicemmo si trasmette colla parola, riportò
delle bruciature non lievi, ma la colpa era stata tutta sua, secondo i
sacerdoti.
Egli aveva avuto il torto di
guardarsi indietro, cosa che è severamente vietata per chi ha ricevuto la mana,
una scusa evidentemente trovata dai sacerdoti per salvare la dignità del
rito.
Come il colonnello potè reggere
la prova e attraversare quelle pietre, che ancora un'ora dopo compiuta la
cerimonia erano così ardenti che gettatevi delle radici di ti presero
subito fuoco? L'inglese non lo seppe mai dire.
Raccontò d'aver provato solamente
un gran calore per tutto il corpo e qualche cosa ai piedi, come delle leggere
scosse elettriche e nulla di più, scosse però che gli durarono per sette od
otto ore di seguito. La pelle dei piedi invece non riportò alcuna scottatura.
Nella Nuova Zelanda le prove del
fuoco sono invece più terribili e si dice che il dono di poter resistere è
privilegio di soli membri di talune famiglie e di talune caste. Colà non si
tratta di attraversare un semplice strato di pietre, bensì di passeggiare entro
una specie di forno circolare, del diametro di una diecina di metri e di
rimanervi venti o trenta secondi.
La temperatura che regna in quei
forni è così elevata che una volta, un viaggiatore volendo misurarla, vide
fondersi la cornice metallica del termometro e il mercurio salire tutto. E
notate che la graduazione era di 200 gradi!
Come possono resistere quegli
uomini salamandra? Anche questo è un mistero; eppure resistono ed escono da
quella terribile prova perfettamente incolumi.
Non era quindi da meravigliarsi
se anche il misterioso pellegrino della Mecca, che doveva essere nondimeno un
uomo assolutamente straordinario, aveva potuto dare quella prova per
fanatizzare vieppiù i suoi guerrieri piuttosto che impressionare Yanez ed i
difensori del kampong, troppo furbi per cadere stupidamente nell'agguato
e di offrire le loro teste ai kampilang di quei sanguinari selvaggi.
Lo sprezzo fatto dal portoghese,
di pagare cioè il pellegrino come se si fosse trattato d'un istrione o d'un clown,
doveva scatenare la collera, appena repressa, dei tagliatori di teste e rendere
doppiamente furioso il pellegrino.
Ed infatti il parlamentario era
appena tornato all'accampamento che un clamore spaventevole echeggiò intorno al
kampong, clamore che pareva prodotto più da centinaia di belve feroci
che da esseri umani.
- Eccoli diventati feroci come le
scimmie rosse quando mangiano il pimento, - disse Yanez, ridendo. - Avremo una
guerra senza quartiere. Bah! Ci difenderemo fino a che avremo una cartuccia o
fino a che non ci sarà più un dayako vivo.
Poi alzando la voce gridò:
- Ragazzi miei, raggiungete i
vostri posti e picchiate più sodo che potete. Non dimenticate che se cadete
nelle mani di quei bruti la minor cosa che vi possa toccare è quella di perdere
la testa sotto un colpo di kampilang.
Tigrotti di Mompracem, malesi e
giavanesi si erano precipitati ai loro posti di combattimento, risoluti ad
opporre la più accanita resistenza ed a bruciare perfino l'ultima cartuccia,
poiché la prova del pellegrino non aveva scossa per nulla la loro fiducia.
Erano d'altronde sicuri di
infliggere a quelle orde assai disordinate una tremenda lezione. Riparati
dietro stecconate di legno del tek che potevano sfidare il fuoco dei lilà
e anche dei mirim e tutti tiratori scelti, non temevano un attacco,
specialmente sotto la direzione di Yanez che godeva non meno fama della
formidabile ed invincibile Tigre della Malesia.
Tutti, senza contare i Tigrotti
di Mompracem, erano stati scorridori del mare, l'unica professione proficua in
quei paesi che quantunque ricchissimi non avevano, almeno allora, commercio
alcuno.
Con quegli uomini, risoluti a
vendere cara la pelle, sapendo che non avrebbero avuto quartiere, i dayaki dovevano
avere un osso ben duro da rodere.
Vedendo gli assedianti radunarsi
intorno alla tettoia del pellegrino, Tigrotti, malesi e giavanesi si erano
affrettati ad occupare gli angoli della cinta da dove potevano spazzare colle
spingarde la pianura.
Yanez e
Tremal-Naik invece erano rimasti sul terrazzo sovrastante
la saracinesca, certi che i dayaki avrebbero tentato verso quel punto il
loro sforzo supremo.
Avevano messa in batteria la
spingarda più grossa del kampong, servita da sei pirati di Mompracem e avevano
mandato Sambigliong sulla torretta, il miglior punto per spazzare la pianura.
- Darma, - disse il portoghese,
vedendo i dayaki formare le colonne d'assalto. - Questo non è il tuo
posto, quantunque sappia che tu adoperi la carabina come un fuciliere di
marina. Fra poco i lilà ed il mirim di quei bricconi lanceranno
palle in abbondanza sulla cinta e non voglio che ti esponi ad un simile
pericolo.
- Credete dunque che il
pellegrino lancierà all'attacco i suoi uomini? - chiese la fanciulla.
- Vedi, ci sono a questo mondo
degli uomini che non sanno essere riconoscenti.
- Non vi capisco, signor Yanez.
- Io ho pagato quell'uomo pel
divertimento che ci ha offerto, con un anello che non valeva meno di mille
fiorini nelle mani di un ebreo, ed ecco quel birbante che mi ricompensa con un
attacco all'arma bianca. Vale la pena di essere generosi in questo mondaccio
cane? Se io avessi dato un simile regalo ad un clown e ad un istrione
del mio paese, sono certo che mi avrebbe portato sulle sue spalle perfino in
Ispagna, magari sulla sierra Guadarrama. Che mondo furfante!...
- Ah! Signor Yanez! - esclamò
Darma ridendo. - Voi scherzerete anche quando sarete lì lì per andarvene nel
regno delle tenebre.
- Ridi! - disse il portoghese. -
Hai del buon sangue fanciulla mia! Ridi mentre la morte ci minaccia tutti!
- Con voi e coi vostri Tigrotti
non ho paura dei dayaki.
Un colpo di cannone interruppe il
dialogo. Gli assedianti avevano fatto tuonare il loro mirim.
La palla passò, con un lungo
sibilo, sopra le cinte e cadde dall'altra parte del kampong senza aver
causato alcun danno.
- Bisogna rettificare la mira,
miei cari, o non farete nulla, - disse Yanez.
- Presto Darma, ritirati, - disse
Tremal-Naik. - Le palle non rispettano nessuno.
- Nemmeno le belle fanciulle, -
aggiunse Yanez.
- E dovrò rimanere inoperosa
mentre voi avete bisogno di gente? - chiese Darma.
- Se avremo bisogno d'una
carabina di più ti chiameremo, - rispose Tremal-Naik. -
Nelle stanze pianterrene del bengalow tu non correrai alcun pericolo.
Quattro colpi rimbombarono in
quel momento, l'uno dietro l'altro. Dopo il mirim avevano fatto fuoco i
piccoli lilà mandando le loro palle contro le grosse tavole della cinta.
- Va', - ripetè
Tremal-Naik, - non mi batterei bene se ti vedessi qui,
esposta al tiro delle artiglierie. Va', e bada che i forni delle cucine non si
spengano.
- I forni? - domandò Yanez mentre
Darma, baciato il padre, scendeva lestamente la scala. - Vuoi offrire una
colazione agli assedianti?
- Sì, ma vedrai di che specie, -
rispose l'indiano. - Un vero piatto infernale che li farà urlare come dannati.
Eccoli che si muovono! A te la spingarda, Yanez, che sei un artigliere
meraviglioso.
- Li mitraglierò per bene, -
rispose il portoghese, gettando via la sigaretta e accostandosi alla bocca da
fuoco, la cui canna lunghissima minacciava la pianura.
I dayaki che dovevano
essere stati istruiti dal pellegrino, avevano formato quattro colonne
d'assalto, di sessanta od ottanta uomini ciascuna e muovevano risolutamente
verso il kampong, coprendosi coi loro immensi scudi quadrati, di pelle
di tapiro o di bufalo, armati solamente di kampilang. Una quinta
colonna, formata esclusivamente di moschettieri, erasi sparsa invece per la
pianura, in catena, per appoggiare l'attacco, insieme ai lilà ed al mirim.
- Il pellegrino deve essere stato
un soldato, - disse Yanez. - Tuttavia dubito che la sua tattica abbia buon
successo. Quando i dayaki si slanceranno all'assalto romperanno le loro
file. La disciplina militare non può aver fatto presa su questi guerrieri
selvaggi. Musica, avanti!
I dayaki cominciavano a
sparare violentemente. I colpi di cannone si alternavano con scariche nutrite
di carabine, senza grande successo, poiché le grosse tavole di legno di tek delle
cinte non erano facili a sfondarsi ed i difensori del kampong erano ben
protetti dai parapetti.
Per di più gli alberi spinosi che
si stendevano tutto all'intorno e che avevano rami e fronde fittissime, non
permettevano ai fucilieri nemici di poterli mirare.
La spingarda collocata sulla
piattaforma della torricella aveva tirato il primo colpo contro la colonna, che
muoveva verso il punto dove si trovava la saracinesca e la sua palla, di buon
calibro, lanciata da Sambigliong, che era un valente artigliere, non era andata
perduta.
- La prima goccia di sangue è
stata sparsa, - disse Yanez. - Speriamo che diventi un fiume.
Dai quattro angoli del kampong
le tigri di Mompracem, a cui era stato affidato il servizio delle
spingarde, si sparava con un crescendo assordante.
Non potendo quelle piccole bocche
da fuoco controbattere il tiro dei lilà e soprattutto del mirim, sparavano
contro le colonne d'assalto, con palle da una libbra, facendo dei larghi vuoti.
Le carabine indiane, maneggiate dai
malesi e dai giavanesi della fattoria, tutte di tiro lunghissimo, appoggiavano
vigorosamente il fuoco delle spingarde, mettendo a dura prova il coraggio degli
assalitori.
Yanez non perdeva tempo. Sparava
un colpo di carabina la cui palla abbatteva quasi sempre un uomo, poi balzava
alla spingarda appena era stata ricaricata e prendeva d'infilata la colonna che
s'avanzava verso la saracinesca, facendo dei tiri veramente meravigliosi, che
stupivano lo stesso Tremal-Naik e che strappavano grida di
entusiasmo ai malesi ed ai giavanesi del kampong.
I dayaki, che non si
sentivano troppo sostenuti dalle loro artiglierie dirette da pessimi tiratori,
né dai loro fucilieri, più abili nel lanciare frecce che palle, cercavano di
affrettare il passo, incoraggiandosi con urla ferocissime e coprendosi più che
potevano coi loro scudi, come se non potessero venire attraversati dai
proiettili delle carabine indiane degli assediati. Il fuoco del kampong, vigorosissimo,
li decimava per bene. Le loro colonne soffrivano perdite immense e tuttavia non
si scompaginavano ancora.
Quando però le spingarde
cominciarono a scagliare addosso a loro nembi di mitraglia, coprendoli di
chiodi e di frammenti di ferro, si videro oscillare e le linee si aprirono qua
e là.
- Avanti! - gridava Yanez, che
non si prendeva nemmeno la briga di ripararsi dietro il parapetto. - Date
dentro e finiremo per mandarli a rotoli. Mitragliateti alle gambe!
Ed il fuoco aumentava sempre,
coprendo le bande di una vera pioggia di piombo, di ferro e di chiodi.
Tigri di Mompracem, malesi e
giavanesi gareggiavano in bravura ed in audacia, risoluti a non permettere ai
dayaki di giungere sotto le cinte e di slanciarsi all'attacco.
Soprattutto le spingarde facevano
delle vere stragi gettando a terra, ad ogni scarica di mitraglia, un buon
numero d'uomini. Non producevano ferite mortali, è vero, ma mettevano i
guerrieri fuori di combattimento, rovinando loro le gambe.
Nondimeno, malgrado le enormi
perdite, quegli ostinati selvaggi non accennavano ancora ad arrestarsi. Anzi
con un ultimo slancio giunsero ben presto dinanzi alla zona alberata,
gettandosi coraggiosamente in mezzo alle spine dove si appiattirono per
prendere un po' di riposo e per riordinarsi prima di tentare l'ultimo sforzo.
- Quella è vera carne da cannone,
- disse Yanez, la cui fronte si era abbuiata. - Non credevo che potessero
spingersi così vicini. È bensì vero che non sono ancora sulle cinte e che se le
spingarde diventano pel momento inutili, tuttavia le carabine e le pistole
avranno ancora buon giuoco.
- Non inquietarti, amico mio, -
disse Tremal-Naik. - Ho preparato loro una sorpresa che
produrrà sulla loro pelle maggior effetto dei chiodi.
- Ma intanto ci sono sotto.
- Lasciali venire. D'altronde le
cinte sono alte e le tavole di tek così grosse che i loro kampilang si
smusseranno senza riuscire a spaccarle.
- M'inquieta il fuoco dei loro
pezzi.
- Tirano così male!
- Che cosa fanno? Non li odo più.
- S'avanzano strisciando tra le
spine.
- È bene assicurata la saracinesca?
- Ho fatto mettere le caviglie di
ferro e nessuno potrà alzarla. Eccoli!
Mentre i lilà e il mirim
continuavano a tuonare, aprendo nei panconi delle cinte qualche foro appena
sufficiente per lasciar passare una mano e i fucilieri s'avanzavano, sempre
disposti in catena, strisciando al suolo e nascondendosi dietro i piccoli
rialzi di terreno e dietro i tronchi abbattuti per sfuggire alle scariche della
spingarda collocata sul minareto, che non aveva cessato di far fuoco, gli
assalitori s'aprivano con precauzione il passo fra le piante spinose.
Essendo quasi tutti nudi ed i
cespugli e gli arbusti foltissimi e formidabilmente armati di punte acutissime,
l'impresa era tutt'altro che facile e lo provavano le grida di dolore che di
quando in quando mandavano gli assalitori, che non potevano frenare.
- La loro carne va a brandelli, -
disse Yanez, che curvo sul parapetto, fra l'apertura lasciata da due sacchi di
sabbia collocati dinanzi alla spingarda, li spiava. - Mordono le spine, miei
cari.
- Eppure passano egualmente quei
demoni. Ecco lì il primo che striscia lungo la cinta.
- E che non andrà a raccontare ai
suoi compagni se è più o meno solida, - aggiunse il portoghese.
Puntò la carabina e sparò quasi
senza mirare. Il dayako che era riuscito, a prezzo di chissà quali
punture, ad attraversare quella formidabile barriera, si levò di colpo sulle
ginocchia allargando contemporaneamente le braccia e cadde col cranio
attraversato dal proiettile, mandando un urlo rauco.
- Fuoco in mezzo alle piante! -
gridò Yanez. - Ci sono sotto.
Poi facendo girare la spingarda
sul perno e abbassando la canna più che potè, lanciò una bordata di mitraglia
di traverso, mentre i Tigrotti di Mompracem, i malesi ed i giavanesi
ricominciavano il fuoco massacrando arbusti e assedianti insieme. Vociferazioni
spaventevoli s'alzarono sotto le piante, segno evidente che non tutti i colpi
erano andati perduti, poi una valanga d'uomini si rovesciò verso la saracinesca
assalendola a colpi di kampilang, mentre i lilà ed il mirim raddoppiavano
il fuoco, cercando di mandare le loro palle sulle terrazze per allontanare i
difensori.
Tremal-Naik
aveva mandato un lungo fischio.
Subito si videro uscire dalla
cucina otto uomini che portavano delle enormi caldaie che spandevano all'interno
un fumo acre e denso.
Salirono rapidamente la scala,
deponendo le caldaie sul terrazzo sovrastante la saracinesca.
- Per Giove! - esclamò Yanez,
sentendosi avvolgere da quel fumo che gli strappava dei colpi di tosse. - Che
cosa portate qui?
- Guardati, Yanez! - gridò
Tremal-Naik. - Lascia il posto a questi uomini.
- Ma gli altri cominciano a
montare.
- Il caucciù bollente li
farà ridiscendere.
Gli otto uomini, armatisi di
giganteschi mestoli, cominciarono a rovesciare il liquido fumante contenuto
nelle caldaie.
Urla, orribili, strazianti,
s'alzarono tosto alla base della cinta. I dayaki, spaventosamente
ustionati dal caucciù bollente che veniva gettato dall'alto della cinta
e senza alcuna economia, si erano scagliati come pazzi in mezzo alle piante,
fuggendo a precipizio.
Una mezza dozzina di loro, che
avevano ricevuto le prime palate del terribile liquido, si dimenavano e si
contorcevano dinanzi alla saracinesca, ululando lugubremente come lupi
idrofobi.
- Per Giove! - esclamò Yanez,
facendo un gesto d'orrore. - Questo indiano ha avuto una trovata magnifica!
Cucina vivi quei poveri diavoli!
I dayaki fuggivano anche
dalle altre parti, poiché anche da quelle terrazze gli assediati avevano
cominciato ad aspergere coloro che avevano tentato di scalare la cinta.
Il fuoco intenso delle spingarde
e delle carabine completava la sconfitta degli assedianti i quali ormai non
pensavano ad altro che a porsi fuori di portata dalle armi da fuoco dei
difensori del kampong e a rifugiarsi nei loro accampamenti.
Invano i fucilieri avevano
tentato di accorrere in aiuto delle colonne di assalto che si ripiegavano
confusamente. Una bordata di mitraglia lanciata da tutte le spingarde li
persuase a seguire i fuggiaschi.
Due minuti dopo intorno al kampong
non restavano che i morti e qualche ferito che stava per esalare l'ultimo
respiro.
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