I dayaki, convinti di non
essere in grado di prendere d'assalto il kampong, dopo la disastrosa
prova fatta che aveva causato alle loro file delle perdite gravissime, avevano
cominciato il vero assedio, sperando che la fame costringesse i difensori a
capitolare.
Avevano formato intorno alla
pianura quattro campi trincerati, per premunirsi da una possibile sortita degli
assediati, rinforzandoli con trincee innalzate certamente dietro le istruzioni
del pellegrino che si svelava ogni giorno di più uomo di guerra.
Inoltre, avevan portate le loro
artiglierie molto innanzi, scavando due trincee parallele, tribolando non poco
gli assediati con un vivissimo cannoneggiamento che, se non causava veramente
gravi danni, obbligava Yanez, Tremal-Naik e i loro uomini
ad una continua guardia, temendo che fosse sempre il preludio d'un nuovo
assalto.
Cinque giorni erano così
trascorsi, dal primo tentativo d'attacco, con gran spreco di munizioni da parte
dei dayaki e molto fracasso. L'unico successo ottenuto era stata la
demolizione della torricella che essendo troppo esposta, era caduta pezzo a
pezzo, obbligando i difensori a ritirare la spingarda e ad abbandonare quel
posto.
Yanez cominciava ad annoiarsi.
Uomo d'azione ed irrequieto, nonostante sembrasse l'uomo più flemmatico del
mondo, trovava che la cosa andava troppo per le lunghe e che anche le
sigarette, che consumava in quantità prodigiosa, non bastavano più a distrarlo.
Eppure non mancava nulla nel kampong.
I magazzini erano ben forniti, le tettoie erano piene di gabà, di
quel bellissimo riso che coltivano i giavanesi e che supera di gran lunga
quello di Rangoon, nel recinto interno le galline selvatiche razzolavano in
gran numero pronte ad offrirsi agli stomachi degli assediati senza protestare;
le frutta non facevano difetto e le cantine erano piene di enormi vasi di terra
colmi di bram, quel forte liquore ottenuto dalla fermentazione del riso
mescolato con zucchero e succhi di varie palme. Che più? La guarnigione poteva,
nelle ore più calde del giorno, dissetarsi con del buon kalapa, quella
bibita rinfrescante racchiusa nelle noci di cocco, essendovi delle piante di
quella specie intorno all'aia e fumare senza risparmio del delizioso cortado,
quei profumati sigari di Manilla e dei rokok giavanesi, piccoli
sigaretti rotolati in una foglia secca di nipa, che sono così gradevoli.
- Che cosa ti manca per
annoiarti, amico? - gli chiese sul cader del quinto giorno l'indiano, vedendo
che Yanez appariva più annoiato che mai. - Io credo che nessuna guarnigione si
sia trovata fra tanta abbondanza.
- Questa calma mi sfibra, - aveva
risposto il portoghese.
- Calma la chiami! Ma se le
artiglierie del nemico tuonano da mane a sera!
- Per bucare semplicemente dei
panconi che non hanno mai fatto male ad alcuno e che non protestano.
- Vorresti che le palle bucassero
i nostri uomini?
- Tu hai ragioni da vendere, mio caro
Tremal-Naik, eppure io vorrei andarmene di qua.
- Non hai che da far alzare la
saracinesca. Io però al tuo posto preferirei passeggiare intorno al bengalow,
- rispose l'indiano ridendo. - Io credo che la tua irrequietezza
dipenda dall'assoluta mancanza di notizie di Sandokan.
- Anche questo è vero. Vorrei
sapere come si svolgono le cose a Mompracem e sospiro il ritorno di Kammamuri.
- Lasciagli il tempo necessario.
- Dovrebbe essere già qui.
- La regione che ha dovuto
attraversare per raggiungere la costa non è sempre sicura, mio Yanez, e può
aver trovato sul suo cammino non pochi ostacoli. Saliamo sul terrazzo della
saracinesca e andiamo a dare uno sguardo agli assedianti prima che il sole
tramonti.
Lasciarono il salotto dove avevano
appena allora terminata la cena in compagnia di Darma e si portarono verso le
cinte.
Gli uomini di guardia, che erano
i giavanesi, toccando a loro quella notte vegliare, stavano terminando il loro
pasto serale, a cavalcioni dei parapetti divorando con invidiabile appetito i
loro piatti stravaganti.
Essi davan dentro, senza
preoccuparsi delle palle dei nemici che di quando in quando si cacciavano nei
panconi con sordo fragore, al blaciang, quel puzzolente intruglio
formato di gamberetti e di piccoli pesci conservati entro vasi di terra e
lasciati a fermentare fino a corrompersi; o all'ud-ang, una
specie di pasta formata di crostacei seccati e poi ridotti in polvere; o ai
pasticci di laron, formati con larve di termiti, un piatto scelto e
gustosissimo pei palati giavanesi e malesi.
Pareva che l'assedio non avesse
ancora guastato l'appetito di quei bravi, dal lavoro energico che compivano i
loro denti neri come chiodi di garofano, per l'abuso del siri e del betel.
Yanez e Tremal-Naik
erano appena saliti sul parapetto, quando notarono nei campi dei dayaki un
certo movimento.
Dei capi radunavano attorno a
loro numerosi guerrieri e pareva che facessero loro dei discorsi infuocati a
giudicare dall'agitarsi furioso delle braccia, mentre in altri luoghi si
eseguivano le danze guerresche dei kampilang e dei kriss. Il sole
in quel momento stava per tramontare fra un denso nuvolone nero che pareva
saturo di elettricità e che aveva i margini color del rame.
- Un attacco ed un uragano? - si
chiese Yanez che aspirava l'aria che era diventata estremamente secca. - Che
cosa ne dici, Tremal-Naik?
- Una bufera l'avremo questa
notte, - rispose l'indiano, che guardava pure il nuvolone il quale si allargava
a vista d'occhio.
- Con accompagnamento di fuoco
celeste e terrestre. Io sono certo che i dayaki, stanchi di
cannoneggiare inutilmente le nostre cinte, approfitteranno della tromba d'acqua
per venire all'attacco.
- Ed il momento non sarebbe
davvero male scelto. Si spara male quando si ha l'acqua in volto.
- Copriamo le terrazze,
Tremal-Naik. In mezz'ora i nostri uomini possono alzare
delle tettoie per riparare almeno gli artiglieri. Per Giove! Che questa volta
ci prendano davvero?
- Finché avremo del caucciù non
lo credo.
- Fa' riempire tutte le pentole
che possiedi.
- Vo a dare l'ordine, - rispose
l'indiano scendendo precipitosamente.
Yanez stava per recarsi verso
l'angolo della cinta, dove si trovava una spingarda, quando una freccia
lanciata probabilmente da un sumpitan, ossia da una cerbottana, sibilò
dinanzi a lui piantandosi contro uno dei pali che reggevano il terrazzo.
- Ah! Traditori! - esclamò Yanez,
balzando verso il parapetto con una pistola in mano.
Guardò sotto le piante, mentre
Sambigliong che stava mettendo in batteria la spingarda, accortosi del pericolo
che aveva minacciato il portoghese, accorreva armato d'una carabina. Nessun
ramo si agitava, né alcun rumore turbava il silenzio che regnava sotto gli
arbusti spinosi fiancheggianti la cinta.
- L'avete veduto quel briccone,
capitano? - chiese il mastro.
- Deve essere scappato subito, -
rispose Yanez.
- E forse quella freccia era
avvelenata col succo dell'upas.
- Vediamo, - disse il portoghese,
dirigendosi verso il palo.
Ad un tratto gli sfuggì un grido
di stupore.
- Una freccia messaggera! -
esclamò.
All'estremità del dardo, il cui
cannello era solidissimo, aveva scorto qualche cosa di bianco, come un pezzo di
carta arrotolata intorno al fusto.
- Allora non si tratta di un tentato
assassinio della mia rispettabile persona, - disse.
Strappò la freccia, la cui punta,
formata da una spina acutissima, si era infissa profondamente nel legno e ruppe
il filo che teneva la carta stretta attorno al cannello.
- Signor Yanez, - disse Sambigliong,
- che i dayaki si servano ora delle frecce per mandare le lettere a
destinazione? Ecco un servizio postale di nuovo genere.
- Che cosa c'è dunque? - chiese
in quel momento Tremal-Naik, che aveva già dati gli ordini
e tornava con Darma.
- Un portalettere sconosciuto che
mi ha rimessa questa carta sulla punta di una freccia, - rispose Yanez. - Che
contenga una intimazione di resa?
Svolse con precauzione la carta
che era coperta di caratteri grossolani, vi gettò sopra uno sguardo, poi mandò
un grido di gioia:
- Kammamuri!
- Il mio maharatto - esclamò
Tremal-Naik. - Leggi, leggi Yanez!
«Sono nei dintorni del campo da
stamane» scriveva il maharatto in inglese «e questa notte cercherò
d'introdurmi nella fattoria con l'aiuto d'un ex servo che è ora fra i ribelli.
Lasciate pendere una fune
dall'angolo che guarda verso il sud e preparatevi alla difesa. I dayaki sono
pronti ad assalirvi.
KAMMAMURI»
- Quel bravo maharatto qui!
- esclamò Tremal-Naik. - Deve aver divorata la via per
essere giunto così presto.
- Che sia solo? - chiese Darma.
- Se avesse dei Tigrotti in sua
compagnia l'avrebbe scritto, - rispose Yanez.
- Avrà almeno la tigre, - disse
Tremal-Naik.
- A meno che non gliela abbiano
uccisa! - disse Yanez.
- Chi può essere quell'ex servo
che l'aiuta?
- Ve ne devono essere parecchi
fra i ribelli, - rispose Tremal-Naik. - Ne avevo una
ventina di dayaki e non me n'è rimasto più uno dopo la comparsa del pellegrino.
- Signor Yanez, - disse
Sambigliong, - mi troverò io questa notte verso l'angolo che guarda al sud.
- Tu sarai più necessario qui che
colà, - rispose il portoghese. - Non hai udito che i dayaki si preparano
ad assalirci? Manderemo Tangusa col pilota. E ora, amici, prepariamoci a
sostenere il secondo attacco, che sarà forse più formidabile del primo e non
dimenticate che se i dayaki entrano qui le nostre teste andranno ad
arricchire le loro collezioni.
La notte era allora calata, una
notte oscurissima, che nulla prometteva di buono. La nube nera aveva invaso
tutto il cielo, coprendo rapidamente gli astri e verso il sud balenava.
Una calma pesante regnava sulla
pianura e sulle foreste. L'aria era soffocante al punto da rendere difficile la
respirazione e così satura d'elettricità che tutti gli uomini del kampong provavano
una viva irrequietezza ed un vero senso di malessere.
Anche nei campi dei dayaki tutto
era oscuro e di là non proveniva alcun rumore. I lilà ed il mirim da
qualche ora non tuonavano più.
I difensori del kampong, dopo
aver costruite frettolosamente le tettoie per riparare le spingarde, si erano
sdraiati sui larghi parapetti delle terrazze, con le carabine a portata di
mano, ascoltando ansiosamente i rumori del largo.
Yanez, Tremal-Naik
e una mezza dozzina di Tigrotti vegliavano sopra la saracinesca, dove avevano
piazzata anche la bocca da fuoco che avevano ritirata dalla torricella.
Entrambi erano un po' nervosi e preoccupati.
Quel silenzio che regnava negli accampamenti dei dayaki produceva su di
loro maggior impressione che un fuoco violentissimo.
- Preferirei un attacco furioso a
questa calma, - disse Yanez che fumava rabbiosamente un cortado masticandone
la punta. - Che si avanzino strisciando come serpenti?
- È probabile, - rispose
Tremal-Naik. - Non si faranno vivi che quando avranno
attraversata la pianura e saranno giunti sotto le piante.
- O che aspettino l'uragano per
rendere meno efficaci le nostre carabine? Quando qui piove è un diluvio che si
rovescia.
- Il caucciù li calmerà e
surrogherà le palle. Tutti i vasi disponibili sono al fuoco.
L'uragano intanto si addensava.
Qualche soffio d'aria giungeva facendo curvare le cime degli arbusti spinosi
con mille fruscii; verso il sud tuonava e lampeggiava. La gran voce della
tempesta suonava la carica.
Ad un tratto un lampo immenso,
simile a una enorme scimitarra, tagliò in due l'enorme nube gravida di pioggia,
poi si seguirono dei fragori paurosi. Pareva che lassù, nella volta celeste, si
fosse impegnato un duello fra grossi cannoni di marina o da costa e che dei
carri carichi di lamine di ferro corressero all'impazzata su dei ponti
metallici.
Quel fracasso durò due o tre
minuti con grande accompagnamento di lampi, poi le cateratte del cielo si
aprirono ed una vera tromba d'acqua si rovesciò furiosamente sulla pianura.
Quasi nel medesimo istante si
udirono le sentinelle collocate agli angoli delle cinte gridare:
- All'armi! Ecco il nemico!
Yanez e
Tremal-Naik, che si erano coricati sul parapetto, erano
balzati in piedi.
- Alle spingarde! - aveva gridato
il portoghese con voce tuonante.
Alla luce dei lampi, luce
vivissima perché era un bagliore continuo, con incessante accompagnamento di
tuoni formidabili, si vedevano i dayaki attraversare la pianura a corsa
sfrenata, a gruppi, a drappelli, coi loro giganteschi scudi alzati per
proteggersi dai rovesci d'acqua.
Parevano demoni vomitati
dall'inferno e l'illusione, con quel lampeggiare che proiettava sulla terra
fasci di luce ora rossastra e ora livida, ora cadaverica, era perfetta.
Le spingarde, che come dicemmo
erano state coperte a tempo colle tettoie, avevano cominciato a sparare
furiosamente, falciando le cime degli arbusti spinosi prima che la mitraglia
cadesse sulla pianura.
Anche i malesi, i giavanesi ed i
pirati che non erano occupati al servizio delle bocche da fuoco, sparavano come
meglio potevano, rannicchiati dietro i parapetti, ma l'acqua che cadeva era
tanta e tanta che il più delle volte le carabine facevano cilecca.
La bufera rendeva la difesa
estremamente difficile con le armi da fuoco, e non accennava a calmarsi, anzi!
È vero che non doveva durare molto; gli uragani che scoppiano in quelle regioni
acquistano una intensità spaventevole, di cui non possiamo farci un'idea, ma
ordinariamente non si prolungano al di là d'una mezz'ora.
Anzi, talvolta cessano dopo pochi
minuti. Che furia però in quel brevissimo tempo! Pare che l'universo intero
vada a catafascio o che un incendio immenso lo divori, nonostante le trombe
d'acqua che si rovesciano dal cielo.
La nube nera pareva che fosse
diventata di fuoco e che tutti i venti si fossero concentrati sulla pianura
stendendosi intorno al kampong di Tremal-Naik.
Gli alberi si torcevano come
fossero semplici fuscelli; i giganteschi durion che pareva dovessero
sfidare le più tremende convulsioni terrestri e celesti, rovinavano al suolo
sradicati da quelle raffiche irresistibili; i poderosi pombo si
spogliavano rapidamente dei loro rami; le gigantesche foglie delle palme e dei
banani volavano per l'aria come mostruosi volatili.
Acqua, vento e fuoco si
mescolavano gareggiando di violenza, mentre in alto, sulla cima della cupola
fiammeggiante, i tuoni facevano udire la poderosa voce della tempesta,
soffocando completamente i rombi del mirim, dei lilà e delle
spingarde.
I difensori del kampong, quantunque
accecati dai lampi e affogati sotto quei getti d'acqua colossali, non si
smarrivano d'animo e mantenevano il loro fuoco vivissimo mitragliando le orde
selvagge che si avanzavano mescendo le loro urla ai tuoni del cielo.
- Non arrestatevi! - gridavano
senza posa Yanez, Tremal-Naik e Sambigliong, che si
trovavano sotto la tettoia che riparava la spingarda della saracinesca.
I dayaki che non subivano già
grosse perdite, non marciando più in colonna, ben presto giunsero sotto le
piante spinose che si misero a sciabolare furiosamente coi loro pesanti kampilang,
per aprirsi un varco che permettesse loro di montare liberamente
all'assalto della cinta.
Tutto il loro sforzo si era
concentrato verso le saracinesche che ormai conoscevano. Era quello il punto
più solido del kampong, ma anche quello che offriva maggiori probabilità
di poter invadere la fattoria. Alcuni drappelli si erano muniti di travi
pesanti per servirsene come di arieti e sfondare i panconi della cinta.
Yanez e
Tremal-Naik, comprendendo che stavano per giuocare la loro
ultima carta, avevano fatti accorrere tutti i servi del kampong coi
pentoloni colmi di caucciù. Quel liquido terribile, ancora una volta,
poteva rendere maggiori servigi che le armi da fuoco.
I dayaki, che massacravano
rapidamente gli arbusti spinosi, giungevano. Un drappello dopo essersi aperto
un largo sentiero, sbucò sotto la cinta ed assalì risolutamente la saracinesca
percuotendola poderosamente con un tronco d'albero spinto innanzi da trenta o
quaranta braccia.
Una pioggia di caucciù bollente,
che cadde sulle loro teste, bruciando ad un tempo i loro capelli e la cotenna,
li costrinse ad abbandonare precipitosamente l'impresa.
Un altro non ebbe miglior
fortuna; ma giungeva il grosso che la mitraglia delle spingarde non era
riuscita a trattenere.
Due o trecento uomini, resi furibondi
dall'ostinata resistenza che opponevano gli assediati, si rovesciarono contro
la cinta appoggiando ai parapetti delle grosse canne di bambù per dare la
scalata alle terrazze. Alle grida di Yanez e di
Tremal-Naik, tutti gli uomini del kampong erano
accorsi da quella parte, non lasciando che pochi artiglieri alle spingarde.
Avevano gettate le carabine,
diventate quasi inutili con quell'acquazzone che non cessava ancora, ed avevano
impugnati i parangs, armi non meno pesanti e non meno taglienti dei kampilang
dei dayaki.
Gli assalitori, nonostante gli
spruzzi abbondanti del liquido infernale, montavano intrepidamente all'attacco
con un coraggio disperato, mandando clamori orribili.
I primi che giungono sui
parapetti, rotolano nel fossato sottostante con le mani tagliate o la testa
spaccata, ma altri ne sopraggiungono menando formidabili colpi di kampilang per
allontanare i difensori.
Si arrampicano come le scimmie,
su pei bambù o balzandosi l'uno addosso all'altro formano delle piramidi umane
che nemmeno il caucciù, che continua a venire versato, riesce a
scuotere.
Mandano urla spaventevoli, la
loro pelle cade a brandelli e fuma, eppure quei fanatici, incoraggiati dalla
voce del pellegrino che echeggia in mezzo alle piante spinose, resistono con
una tenacia che fa impallidire Yanez, il quale comincia a perdere buona parte
della sua fiducia.
I difensori del kampong, soprattutto
i Tigrotti della Malesia, non dimostrano tuttavia meno tenacia, né meno
coraggio degli assalitori.
I loro parangs, manovrati
da braccia solide, tagliano nel vivo e mutilano orrendamente quelli che
riescono a issarsi sui parapetti.
Mentre i dayaki urlano:
- Allah! Allah! Allah! -, né più
né meno dei fanatici mussulmani delle sabbiose terre dell'Arabia, i pirati di Yanez
rispondono con non meno entusiasmo:
- Viva Mompracem! Largo alle
tigri dell'arcipelago!
Il sangue scorre a fiotti. Le
palizzate della cinta grondano e le terrazze si arrossano.
Da una parte e dall'altra
combattono con pari furore, mentre l'uragano imperversa sempre e somministra la
luce ai combattenti onde possano scannarsi meglio.
La tenacia e il coraggio dei
dayaki, non guadagnano gran che. Tre volte i guerrieri del pellegrino,
tutto sfidando, il fuoco delle spingarde collocate agli angoli che li prende di
fianco con bordate di chiodi, i getti di caucciù ed i parangs che
li mutilano, sono mandati all'assalto e hanno raggiunti e anche scavalcati i
parapetti e tre volte sono stati costretti a lasciarsi cadere nei fossati già
pieni di morti e di feriti.
- Ancora uno sforzo! - urla
Yanez, che vede gli assalitori esitare. - Uno sforzo ancora e avremo ragione di
questi testardi.
Le spingarde raddoppiano il fuoco
ed i malesi e i giavanesi, che hanno avuto un momento di riposo, tornano a
tagliare nel vivo, mentre i servi rovesciano gli ultimi vasi contenenti il
caucciù.
L'attacco si rallenta, i dayaki
tentano per la quarta volta la scalata, non più con lo slancio e col
fanatismo di prima.
La paura comincia ad
impossessarsi dei loro animi. Non invocano nemmeno più Allah.
Tuttavia il loro ultimo sforzo
non è meno pericoloso. Sono ancora in buon numero, mentre la guarnigione si è
assottigliata non poco, esposta al fuoco di alcuni tiratori nascosti sotto gli
arbusti.
E poi la stanchezza comincia a
farsi sentire. Le lunghe sciabole pesano nelle mani dei malesi e dei giavanesi,
se non in quelle dei Tigrotti di Mompracem.
I tagliatori di teste tornano ad
arrampicarsi, mentre i loro compagni che sono nel fossato, tentano con uno
sforzo supremo di aprire una breccia nella saracinesca percuotendo i panconi
colle travi.
Guai se i difensori si perdono
d'animo. È finita per tutti. Anche per la graziosa Darma!
Yanez volta la spingarda in modo
che la mitraglia rada il parapetto, gridando contemporaneamente ai suoi uomini
che stanno per avventarsi sugli assalitori che già si preparano a balzare sulle
terrazze:
- Indietro... un momento solo!
Il colpo parte e la mitraglia
spazza da un angolo all'altro della cinta, tutto il parapetto, fulminando o
storpiando quanti nemici si trovano sopra.
Nel medesimo tempo i servi
rovesciano tutte le caldaie ancora rimaste su coloro che s'accaniscono contro
la saracinesca.
Il fumo si era appena dileguato,
quando una tigre superba si scaglia sul parapetto mandando un aoung ferocissimo,
abbranca un dayako rimasto sospeso e miracolosamente illeso e gli pianta
i denti nel cranio.
Alla vista di quel terribile
carnivoro che i lampi incessanti mostrano come se fosse di pieno giorno, un
terrore invincibile invade gli assalitori.
Se anche le belve della foresta
accorrono in aiuto dell'uomo bianco e dell'indiano, vuol dire che gli uomini
sono più potenti del pellegrino della Mecca.
La ritirata si converte in pochi
istanti in una fuga precipitosa, disordinata. Dei selvaggi gettano perfino gli
scudi e i kampilang per correre più lesti.
Più nessuno obbedisce ai capi, né
alle grida del pellegrino che invano si sfiata a urlare:
- Avanti per Allah! Maometto vi
protegge!
Non erano dopotutto così sciocchi
per accorgersi che Allah ed il Profeta non li avevano affatto protetti.
Mentre scappavano a rotta di
collo, spronati dai tiri delle spingarde, un uomo si era slanciato sulla
terrazza, muovendo rapidamente verso Yanez e Tremal-Naik.
Era anche quello un bel tipo di indiano di circa quarant'anni, meno alto di
Tremal-Naik ed invece più membruto, dalla pelle abbronzata
con certi riflessi dell'ottone, che spiccava vivamente sul suo vestito bianco,
cogli occhi nerissimi e fieri ed i lineamenti fini ad un tempo ed energici.
Vedendolo Yanez aveva mandato un
grido di gioia:
- Kammamuri!
- Il mio bravo maharatto! - aveva
esclamato dal canto suo Tremal-Naik.
- Arrivo troppo tardi, - rispose
il nuovo arrivato, - è vero padrone?
- In tempo per vedere i talloni
dei dayaki, - rispose Tremal-Naik.
- Sei salito in questo momento? -
chiese il portoghese.
- Sì, signor Yanez, ed è stato un
vero miracolo se i vostri uomini non mi hanno ucciso. Mi arrampicavo sulla fune
e proprio nel momento che tiravano una bordata di chiodi.
- Sei stato a Mompracem?
- Sì, signor Yanez.
- Dunque hai veduto la Tigre
della Malesia?
- L'ho lasciata sette giorni or
sono.
- Sei giunto solo?
- Solo, signor Yanez.
- Non hai condotto alcun
rinforzo?
- No.
- Va'a rifocillarti, che devi
essere stremato dalle privazioni. Fra poco noi saremo da te, - disse
Tremal-Naik. - Yanez, diamo gli ultimi colpi ai fuggiaschi
e tu, Darma, - gridò, volgendosi verso la tigre, che portava il medesimo nome
di sua figlia, - lascia quell'uomo e vattene in cucina.
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