5 - Il massacro della spedizione Flatters
I duar marocchini
e algerini si incontrano per lo più ai confini del deserto e sono formati
esclusivamente da tende grossolane di fibre di palme nane tessute assieme a
pelo di capra e di cammello, e sostenuti da pali e da corde.
Sono lunghe otto
e anche dieci metri, alte non più di due e divise internamente da pareti di
giunchi o di canne, avendo le donne un posto riservato.
Il loro
mobilio è molto semplice: qualche cassone, due pietre per stritolare l'orzo od
il miglio, qualche tappeto e vasi di terra cotta.
Il fornello
si trova all'aperto per non affumicare le tende. Attorno ai duar si trova
quasi sempre qualche orticello, tenuto con cura e che viene innaffiato con
molte fatiche, non essendovi quasi mai abbondanza d'acqua in quei terreni riarsi
dal sole.
Gli abitanti
del duar sono quasi tutti pastori. Allevano cammelli, montoni e capre e
non è raro vedere delle centinaia di animali pascolare intorno alle tende.
Per lo più
sono arabi, discendenti di quei formidabili guerrieri che dopo aver conquistato
tutta l'Africa settentrionale, invasero la Spagna minacciando la Francia, che
miracolosamente sfugge a quel dilagare di barbari mercé il valore di Carlo
Martello.
Ritornati in
Africa, questi arabi vivono ora oziosamente nei loro duar, più lontani che
possono dai governatori marocchini, per sfuggire più facilmente alle vessazioni
e alle esigenze finanziarie dell'imperatore.
Sono pastori
che possono ridiventare da un momento all'altro terribili guerrieri e lo sanno
i soldati dell'imperatore, che devono sostenere di frequente sanguinosi scontri
per costringerli al pagamento dell'imposta territoriale.
Hassan,
l'amico di Ben Nartico, non era veramente arabo, ma aveva adottato gli usi e i
costumi degli arabi al pari di tutti gli ebrei che vivono al sud del Marocco.
Era pastore e
anche trafficante, conosciuto dalle carovane che attraversano il Sahara; un
uomo insomma che poteva diventare molto prezioso anche per il marchese di
Sartena e dargli aiuti e consigli per la sua pericolosa impresa.
Udendo il
latrare dei cani, i servi di Hassan, tutti schiavi sudanesi, si erano
affrettati a muovere incontro ai cavalieri.
Il vecchio
diede loro alcuni ordini, poi condusse il marchese ed il suo compagno sotto una
spaziosa tenda il cui suolo era coperto di tappeti di Rabat e di cuscini di
seta a ricami d'oro, offrendo loro del latte di capra appena munto.
“Quanta pace
regna qui!” esclamò il marchese, che si era comodamente sdraiato sui cuscini e
sui tappeti.
“Non sempre,
signore,” rispose il vecchio. “Qui siamo ai confini del deserto e questa calma
può venire da un momento all'altro rotta da urla di guerra e di morte.”
“Forse che i
Tuareg si spingono qualche volta qui?”
“Se non sono
i Tuareg, sono i Scellak, nostri nemici dichiarati e non sono migliori dei
primi.”
“Conoscete
dei Tuareg voi?”
“Ho avuto molti
rapporti anche con essi. Dopo aver saccheggiato qualche ricca carovana, non è
raro che si spingano fino qui per offrire i frutti delle loro rapine,
domandando in cambio polvere da sparo, armi e vesti.”
“Ah!” esclamò
il marchese, guardando Rocco che era allora entrato.
“Che cosa
volete dire con codesta esclamazione, signore?”
“Avete udito
mai parlare del colonnello Flatters?”
“Quello che
comandava una spedizione di francesi?”
“Sì.”
“Che fu
massacrata dai Tuareg?”
“Precisamente.”
“Di lui e del
massacro della sua spedizione ne so più di quanto se n'è saputo in Europa.
Voglio anzi mostrarvi alcuni oggetti che ho comperato dai Tuareg e la cui
provenienza è assai sospetta. Forse hanno molto stretta relazione coll'eccidio
di quella spedizione.”
“È
impossibile!” esclamò il marchese, scattando in piedi.
“E perché,
signore?”
“La carovana
del colonnello è stata distrutta assai lontano da qui, nel deserto algerino.”
“E che cosa volete
concludere? Ricordatevi che per i Tuareg le distanze non esistono. E poi, forse
che noi non mandiamo le nostre merci fino a Tombuctu, e più lungi ancora?”
Il marchese
stava per rispondere, quando sulla soglia della tenda comparve una donna, che
indossava il graziosissimo costume delle donne ebree.
Era una
giovane di sedici o diciott'anni, d'una bellezza straordinaria, alta e
slanciata senza che si potesse dire magra, dal volto perfetto, cogli occhi neri
e pieni di splendore ed i capelli corvini che facevano risaltare doppiamente la
candidezza alabastrina della pelle.
Indossava un
abito ricco ed elegante che s'adattava in modo meraviglioso alle sue forme e
che faceva spiccare stupendamente la sua bellezza.
La sua
gonnella di stoffa rossa, aperta in basso, aveva larghi risvolti di broccato in
oro e le si rovesciava un pò sotto il ginocchio; il suo corpetto di stoffa
azzurra, pure trapunto in oro, allacciato al petto, era privo di maniche e
coperto in parte da un corto panciotto verde, ricamato in argento.
Le braccia
bellissime e ben tornite non erano coperte che fino a metà dalle maniche della
camicia, larghe, candide e adorne di trine antiche. I piedi nudi e piccolissimi
si nascondevano entro babbucce di pelle rossa. I suoi capelli erano raccolti in
trecce sopra un ricchissimo sfifa, specie di diadema che le ragazze
ebree usano portare e che è composto di perle e di smeraldi.
Il marchese,
vedendo quella giovane, non aveva potuto trattenere un grido di meraviglia.
Conosceva la
bellezza delle donne ebree dell'Africa settentrionale, beltà che contrasta
stranamente colla bruttezza quasi ripugnante degli uomini, perché esse hanno
conservato meravigliosamente i tratti della loro razza in tutta la loro
purezza.
È lo
splendore orientale fuso colla finezza europea; si può dire che esse formino il
punto in cui i due tipi s'incontrano e si confondono in ciò che vi è di più
bello.
La
delicatezza dei loro lineamenti è soprattutto notevole, quantunque il taglio
del loro volto non sia precisamente né greco, né romano. È meno puro del primo,
ma più grazioso del secondo.
“Mia sorella
Esther,” disse Ben Nartico, presentandola al marchese, il quale pareva fosse
rimasto affascinato dal fulgore di quegli occhi che si erano fissati subito su
di lui.
“Ecco la più
bella fanciulla che io abbia veduto in Algeri e nel Marocco,” disse il corso,
salutando la giovane e stringendole vivamente la mano che ella porgeva.
“Ecco la
colazione,” disse in quel momento Hassan. “Vi offro ciò che produce il deserto
e che si mangia nel deserto.”
Quattro
schiave avevano steso sui tappeti una bellissima stuoia variopinta, formata di
fibre di palme nane, e portato parecchi recipienti di porcellana.
“Signor
marchese,” disse il vecchio, mentre tutti si sedevano intorno, appoggiandosi
sui cuscini, “la cucina non sarà di vostro gusto, pure dovete abituarvi perché
nel Sahara non troverete di certo ciò che si mangia in Francia.”
“Sono
abituato a tutto,” rispose il signor di Sartena. “Nella campagna della Kabilia
ho mangiato le cose più strane e col miglior appetito.”
Un negro era
intanto entrato portando, appeso ad un bastone, un agnello arrostito intero, la
cui pelle brunastra e lucida prometteva un buon boccone.
Lo depose su
una specie di sporta piatta e Hassan lo fece lestamente a pezzi, in lunghe
strisce, offrendone a tutti e dicendo: “Il signore sia lodato.”
Poi quando
tutti si furono serviti fece mandare il rimanente ai carovanieri del marchese,
che erano già giunti al duar. A quel primo piatto ne seguì un secondo.
Era una grossa pentola ripiena d'una salsa giallognola, d'aspetto poco
rassicurante.
Si componeva
di datteri secchi pestati, di albicocche orrendamente pestate e di pallottoline
di farina non più grosse di un pallino da caccia, piatto assai apprezzato dagli
abitanti del deserto, ma che il marchese e Rocco mangiarono non senza fare
molte smorfie.
Fortunatamente
per loro, Hassan lo fece subito surrogare coll'hamis, vivanda composta
di pezzettini di montone e di pollo cucinati col burro e con brodo, di cipolle,
di datteri, di albicocche secche, e con focacce d'orzo mescolato.
Terminati i
cibi, il patriarca fece portare un otre di pelle di capra ripieno d'acqua
mescolata con latte di cammello che aveva un pessimo sapore di muschio e pel
primo ne bevette un sorso, dicendo “Alla vostra salute.”
“Dio ti salvi!”
rispose Ben Nartico.
“Se voi
volete spingervi nel deserto senza incontrare troppi pericoli, sarà necessario
farvi credere un arabo,” disse il vecchio. “È un consiglio che vi do e dovete
metterlo in esecuzione se non vorrete fare la fine del colonnello.”
“Sicché?...”
chiese il marchese.
“Dovrete
vestirvi da arabo, pregare come un arabo, e mangiare come un arabo. L'europeo
non può andare molto lontano nel deserto.”
“A questo non
avevo davvero pensato. Apprezzo però il vostro consiglio e lo metterò in esecuzione.
Ma... io non ho vestiti arabi.”
“Non datevi
pensiero per questo; le mie casse sono bene provviste. Prendiamo il caffè, poi
vi mostrerò ciò che vi avevo promesso.”
Nel deserto
il caffè si beve forse anche più squisito che a Costantinopoli od al Cairo,
quantunque lo si prepari in modo affatto primitivo.
Invece di
macinarlo lo si pesta fra due pietre e vi si aggiunge nell'acqua calda un pò
d'ambra grigia. Ciò che è curioso presso gli arabi del deserto, è il servizio,
il quale consiste ordinariamente in un vecchio vassoio di ferro ed in poche
tazze che contano secoli, di tutte le forme, di tutte le grandezze e di tutte
le specie, alcune d'argilla, altre di porcellana e altre di stagno, coi margini
rotti e poco puliti.
Hassan però
servì il suo caffè in chicchere di porcellana, giunte nel deserto chissà per
quali strane combinazioni.
Quando gli
ospiti ebbero sorseggiato la deliziosa bevanda, il vecchio si alzò, aprì un
cassettone antico, variopinto ed arabescato, e tolse un berretto che il
marchese riconobbe subito.
“Un berretto
da cacciatore d'Africa!” esclamò.
“E porta
sulla fodera un nome che forse voi conoscerete,.” disse Hassan. “Guardate:
leggete.”
“Masson!”
gridò il marchese, impallidendo. “Masson! Il nome del compagno del colonnello
Flatters!...”
“Era un
capitano, è vero?”
“Sì.”
“Che fece
parte di quella spedizione massacrata così ferocemente dai Tuareg.”
“Sì!... Sì!”
ripeté il marchese che era in preda ad una vivissima commozione. “Ditemi, ve ne
prego, come si trova nelle vostre mani?... E come questo berretto, perduto nel
Sahara centrale, è venuto a finire qui, nella vostra cassa?...”
“Ve lo dissi
già: nel deserto le distanze non esistono pei Tuareg. I predoni che hanno
saccheggiato una carovana nell'Ahaggar, supponiamo, non è raro trovarli, quindici
o venti giorni dopo, ai confini del Marocco.
“Sono mobili
come le sabbie che il simun spinge, mercé la straordinaria rapidità dei
loro cammelli corridori.
“Ora vi
spiegherò come questo berretto è pervenuto nelle mie mani.
“Sono
trascorsi appena quindici giorni, quando venne da me un algerino chiamato
Scebbi, accompagnato da quattro Tuareg, ad offrirmi parecchi oggetti che diceva
d'aver trovato nel deserto.
“Erano armi
di fabbrica francese, vesti, balle di mercanzia di diverse specie, otri ecc.
Nella mia qualità di trafficante acquistai tutto a buon mercato, quantunque
fossi convinto che quegli oggetti fossero stati rubati a qualche carovana.
“Al berretto
non avevo fatto alcuna attenzione. Solamente qualche giorno dopo m'accorsi del
nome stampato sulla fodera, quando già avevo venduto le armi e le vesti ad una
carovana che si dirigeva verso Mogadar.
“Quel nome fu
per me una rivelazione, perché la notizia della strage della spedizione di
Flatters era giunta da qualche mese anche al Marocco.”
“E quell'uomo
che era accompagnato dai Tuareg era veramente un algerino?”
“Di questo
sono certo, signor marchese,” rispose Hassan.
“Probabilmente
uno dei soldati indigeni che tradirono vigliaccamente il disgraziato
colonnello.”
“Non ne
dubito.”
“Bisogna
allora che io trovi quell'uomo!” esclamò il marchese.
“Ditemi,
signore,” disse Hassan, guardando fisso il corso, “voi volete inoltrarvi nel
deserto per accertarvi se il colonnello è vivo o morto, è vero?”
Il marchese
esitò a rispondere.
“Potete
parlare liberamente, signore,” disse allora Ben Nartico. “Hassan è un uomo che
non tradirà mai il vostro segreto.”
“Ebbene, sì,”
disse il marchese. “Non si ha la certezza che sia stato ucciso, anzi si ha il
sospetto che i Tuareg lo abbiano risparmiato per venderlo al sultano di Tombuctu.”
“Anch'io ho
udito narrare ciò,” disse Hassan. “Finora nessuna prova si è avuta della morte
del colonnello, quindi avete ragione di sperare.
“Voi mi dite
che v'occorre quell'algerino: io vi metto sulla via per raggiungerlo.”
“Voi sapete
dove si trova!” esclamò il marchese.
“Sì, ho
saputo che fa parte d'una carovana che ora sta approvvigionandosi a Beramet e
che deve attraversare il deserto fino a Kabra, sul Niger. Me lo riferì un
cammelliere due giorni or sono.”
“Una carovana
molto numerosa?” domandò Ben Nartico.
“Non conta
meno di trecento cammelli.”
“Che si trovi
ancora a Beramet?” chiese il marchese con vivacità. “Non doveva muoversi che
ieri sera, quindi con una rapida marcia voi potreste raggiungerla fra qualche
settimana.”
“Quell'uomo
sarà mio!...” Poi volto a Rocco e a Ben Nartico, disse: “Partiamo!...”
“Un momento,
signore,” osservò Hassan. “Voi ed il vostro compagno parlate bene l'arabo?”
“Perfettamente.”
“Conoscete le
preghiere dei maomettani?”
“Come un
sacerdote istruttore del Corano.”
“Gettate le
vostre vesti e indossate quelle degli arabi, e ricordate che un europeo non
andrebbe lontano nel Sahara, soprattutto ora. I Tuareg vegliano e vi
massacrerebbero, sospettando in voi una spia dei francesi.”
“Diverremo
arabi,” disse il marchese, risolutamente. “Amici, facciamo i nostri
preparativi.”
“Io sono
pronta, signor marchese,” proferì Esther, con voce armoniosa e tranquilla.
“E non avrete
paura ad affrontare i pericoli del deserto?” chiese il corso.
“No,
signore,” rispose la giovane, sorridendo.
“Ecco una
fanciulla bella e coraggiosa,” mormorò Rocco.
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