8 - Le prime sabbie
Il rimanente
della notte trascorse senza allarmi, quantunque il secondo leone avesse fatto udire
più volte i suoi ruggiti che parevano più di dolore che di collera.
Certamente le
palle ricevute non dovevano averlo messo di buon umore e quei pezzi di piombo
dovevano cagionargli non poco fastidio.
Verso le sei
del mattino, la carovana, diminuita d'un asino e d'un cammello, lasciava il
campo per scendere verso il deserto.
Il marchese
aveva fatto scuoiare il leone, regalando la superba pelliccia alla coraggiosa
ebrea, che l'aveva gradita moltissimo.
“Ne avremo
però un'altra da raccogliere,” disse Ben Nartico, nel momento in cui la
carovana si metteva in marcia.
“È vero,”
rispose il marchese. “Quella della bestia uccisa dalla signorina Esther.”
“E che noi
andremo a scuoiare,” aggiunse Rocco.
Salirono sui
loro cavalli e mentre Esther, adagiata sul suo cammello, seguiva i beduini ed
il moro attraverso le ultime colline, si diressero verso il luogo ove durante
la notte si erano imboscati.
Non riuscì
loro difficile ritrovare i cespugli dietro i quali la bestia, colpita dalla
piccola carabina della giovane ebrea, era caduta. L'animale si trovava ancora
al medesimo posto e, come avevano previsto, non si trattava d'un leone.
Era invece
una iena striata, animale comunissimo nel Marocco e nelle vicinanze del grande
deserto, dal pelame ruvido e ispido, biancastro e giallognolo, striato di nero,
con una specie di criniera di colore oscuro, la testa grossa, il muso sottile
ed il corpo allungato.
Sono bestie
d'una vigliaccheria incredibile, quantunque di denti acuti e di unghie
robustissime. Non osano assalire gli uomini e vivono quasi esclusivamente di
carogne.
“Ben
colpita,” disse il marchese, che l'aveva osservata attentamente. “La palla
della piccola carabina le ha attraversato il cervello.”
“Non vale la
pena di spogliarla della sua pelliccia,” disse Rocco, “perché è una pellaccia
priva di valore, che puzza di carogna.”
“Andiamo,
signori,” disse Ben Nartico. “Non è prudente rimanere troppo staccati dalla
carovana.”
Ripartirono
di corsa e raggiunsero la carovana a metà salita.
I cammelli
avanzavano con molta fatica, non essendo i loro piedi abituati ai terreni
solidi, e trovandosi essi sempre a disagio in mezzo alle piante.
Sono figli
dei terreni aridi, delle sabbie e degli sterpi secchi e fra una rigogliosa
vegetazione pare che provino una specie di malessere; però facevano sforzi
prodigiosi per raggiungere l'oceano di sabbia.
Alle dieci
del mattino la carovana si fermava presso un microscopico duar, formato
da un paio di tende lacere e da una piccola cinta di rami contenente due o tre
dozzine di montoni neri. Doveva essere l'ultimo; più oltre quegli animali non
avrebbero certo trovato di che cibarsi.
Il suo
proprietario, un vecchio arabo, dalla lunga barba bianca, che contrastava
vivamente col lungo caic di lana oscura che avvolgeva il magro corpo di
quell'abitante del deserto, ricevette cortesemente gli stranieri, ripetendo a
più riprese
“Salam-alek...”
Poi da un
ragazzetto fece portare una ghirba ripiena di latte appena munto e la
offrì ad El-Haggar, dicendogli
“Tu sei
l'uomo che ha la benedizione del sangue sulle mani, quindi bevi pel primo
perché ho bisogno dell'opera tua.”
“Mi hai
riconosciuto?” chiese il moro.
“Sì,” rispose
il vecchio.
“Che cosa
posso fare per te?”
“Ho un figlio
ammalato.”
“Te lo
guarirò,” rispose il moro, imperturbabilmente.
“Oh!” esclamò
Rocco. “Ecco il nostro uomo tramutato in medico!”
“Ha la
benedizione,” disse Ben Nartico.
“Ci credete
voi?” chiese il marchese.
“Guardate,
prima.”
Il vecchio
era entrato nella tenda per uscire subito dopo portando fra le braccia un
ragazzo di cinque o sei anni, la cui testa, priva di capelli, era coperta di
piaghe ributtanti.
“Mio figlio è
molto malato,” disse; “ma tu lo guarirai e Allah ti benedirà.”
“E mi darai
un montone,” aggiunse El-Haggar che non vendeva per nulla le sue benedizioni. Fece
sedere il fanciullo dinanzi a sé, levò gravemente da una borsa che teneva alla
cintura un pezzo di pietra focaia ed un acciarino e fece cadere sulla testa
piagata parecchie scintille, recitando l'Elfatscià, ossia il primo capitolo del
Corano e ripetendo di tratto in tratto: “Bismillah! [In nome di Dio].”
Quando lo
ebbe abbondantemente asperso di scintille, levò il bambino da terra, dicendo:
“Và, tu
guarirai presto; portami il montone.”
“Quest'uomo è
un abile ciurmadore,” disse il marchese a Ben Nartico.
“No, signore,
è in buona fede,” rispose l'ebreo.
“E in che
consiste questa benedizione del sangue sulle mani?” chiese Rocco. “Perché
quest'uomo la possiede?”
“È un dono
naturale che posseggono solamente coloro il cui braccio ha tagliato molte
teste.”
“E questo
El-Haggar?” chiese Rocco, frenando a malapena le risa. “Deve averne tagliate
parecchie.”
“E voi
credete alla efficacia della sua benedizione?”
“Ho veduto
guarire altri bambini affetti da quelle piaghe; che ciò dipenda dalle scintille
o da altre cause lo ignoro, ma so che il fatto è stato provato.”
“Può guarire
solamente quelle malattie della testa?” chiese il marchese.
“Solo quelle,
signore.”
“Peccato!”
esclamò Rocco. “Sarebbe stato un uomo prezioso nel deserto.”
“Vedo che voi
dubitate della potenza della sua benedizione,” disse Nartico. “Eppure io ho
veduto degli arabi ottenere delle guarigioni miracolose colla semplice
imposizione delle mani e, cosa davvero strana, guarire perfino delle piante che
si ostinavano a non dare frutto.”
“Questa mi
sembra grossa,” disse il marchese.
“Una volta ne
ho fatto la prova a mie spese,” rispose Ben Nartico, seriamente.
“E in quale
modo?”
“Nel mio
giardino possedevo parecchi albicocchi che non davano più frutta ed anche degli
olivi che rimanevano sterili.
“Fui consigliato
di rivolgermi ad uno di quegli uomini che hanno il potere di guarirli. Siccome
dubitavo dell'efficacia di quei rimedi, mi fu proposta una prova.
“Sei
albicocchi furono nutriti...”
“Con che
cosa?” chiese il marchese, stupito.
“Col fumo
prodotto da tre teste di montone abbruciate alla base di ciascun albero. Uno
invece fu lasciato a digiuno.
“Ebbene, lo
credereste? I sei primi diedero splendidi frutti; l'ultimo, che era stato
trascurato, nemmeno uno.”
“È
incredibile!”
“Eppure,
signore, all'epoca della fioritura, tutti i coltivatori trattano così le loro
piante e non hanno a dolersene.”
“E per gli
ulivi, che cosa fanno?” chiese Rocco. “Ve ne sono molti nella mia isola che non
danno frutti.”
“Si forano
introducendovi un mezzo mitcal d'oro, che ha il valore di otto lire, essendo
composto di metallo puro, riducendolo però prima sottile come una verghetta e
chiudendo poscia le due aperture con gusci d'uovo e creta. È un esperimento che
potete fare e che qui è da tutti conosciuto e anche in uso.”
“Ne parlerò
ai miei compatrioti,” disse Rocco, con accento però poco convinto.
Essendosi
tutti sufficientemente riposati, il marchese diede il segnale della partenza,
desiderando di accamparsi nel deserto la sera stessa. Le piante ricominciavano
a diradarsi e nelle vallette delle colline si vedevano già strati di sabbia,
portati colà dai venti infuocati del Sahara.
I cammelli
avevano affrettato il passo, ansiosi di calpestare quelle immense pianure
sterili che meglio si confacevano alle loro zampe.
Il terreno
scendeva sempre più rapido e le piante portavano già le prime tracce
dell'arsura del deserto: apparivano tisiche, colle foglie giallicce e
abbassate, coi rami deboli ed i tronchi esili.
Ad un tratto,
allo svolto d'una gola, il marchese ed i suoi compagni videro distendersi una
pianura ondulata, coperta di sabbie e di magri cespugli, che si perdeva in un
orizzonte color del fuoco a strisce fiammeggianti.
“Il deserto!”
esclamò Ben Nartico.
“Col suo simun,”
aggiunse Rocco. “Guardate quella nuvola immensa che s'avanza al di sopra delle
sabbie.”
“T'inganni,”
disse il marchese. “Se il simun soffiasse si vedrebbero tutte queste
colline sabbiose in movimento.”
“Cos'è dunque
quella nuvola? Che nel deserto piova? Eppure mi hanno detto che non cade mai
una goccia d'acqua.”
“Altro
errore, mio bravo Rocco.”
“Come! l'ho
letto sui libri.”
“Ebbene, quei
libri hanno mentito perché anche nel Sahara piove, è vero, Ben?”
“Sì,
marchese, fra il luglio e l'ottobre qualche acquazzone cade, solamente però in
certe località del deserto. In altre passano talvolta dieci e anche quindici
anni senza che una goccia scenda ad inumidire le sabbie.”
“Eppure
quella è una nube e anche molto oscura,” insistette il sardo. “La vedrebbe
anche un cieco.”
“Dubito che
siano vapori acquei,” disse Ben Nartico, il quale la osservava attentamente.
“C'è da
compiangere quel povero vecchio che abbiamo lasciato or ora,” disse in
quell'istante El-Haggar, accostandosi.
“E perché?”
chiese il marchese.
“Fra due o
tre ore non gli rimarrà un filo d'erba per nutrire i suoi montoni e anche la
foresta perderà le sue foglie. È bensì vero che si compenserà facendo delle
abbondanti scorpacciate di cavallette.”
“Di
cavallette, hai detto?” chiese Nartico.
“Si, perché
quella nube che s'avanza verso di noi è formata da milioni e milioni di quei
piccoli animaletti. Le uova sepolte fra le sabbie si sono schiuse e le locuste,
affamate, si gettarono sul Marocco portando dovunque la desolazione.”
“E non sono
capaci d'arrestare l'invasione i vostri compatrioti?” chiese Rocco.
“In quale
modo?”
“Accendendo
grandi fuochi e mandando incontro alle cavallette reggimenti di contadini.”
“Non
servirebbero a nulla,” disse il marchese. “Tu non puoi farti un'idea della
quantità enorme di locuste che piombano sulle campagne. Vedrai come queste
piante verranno spogliate in pochi minuti. Non rimarrà più né una foglia, né un
filo d'erba. Un uragano, una tromba, un ciclone sono niente in paragone ai
danni che commettono le emigrazioni di questi animaletti.”
“Anche da noi
se ne vedono, ma si arrestano, signore.”
“Non sempre,
mio caro Rocco. Anche in Europa abbiamo avuto invasioni gigantesche che hanno
distrutto i raccolti di province intere; invasioni ricordate dalla storia.
“Nel 1690 per
esempio, la Lituania e la Polonia furono invase da tali bande di locuste, che i
rami degli alberi si piegavano fino a terra, mentre i campi erano coperti di
strati alti non meno di un metro.”
“Che gioia
per quei contadini!”
“Perdettero
tutto, perfino le radici delle piante, e le loro case furono invase da tali
quantità di locuste che essi furono costretti a fuggire.”
“Un vero
disastro!” disse Ben.
“Anche la
Francia nel 1613 si vide rovinare addosso un simile flagello che distrusse i
raccolti di parecchie province e che costò somme rilevanti spese per
sbarazzarsi da quei minuscoli invasori. La sola Marsiglia spese non meno di
trentamila lire per assoldare gente onde li cacciasse in mare.
“Nel 1750
invece comparvero nella Transilvania e così numerose che si dovette mandare un
corpo di millecinquecento soldati per distruggerle.”
“Ecco
l'avanguardia che arriva,” avverti Ben Nartico. “Prima che ci piombino addosso
inoltriamoci nel deserto. Dove non vedono verdura non calano.”
I cammelli,
per un istante arrestati, scesero gli ultimi burroni, inoltrandosi con
sufficiente rapidità fra le sabbie.
Le prime
colonne di locuste giungevano già tenendosi a cinquanta o sessanta metri dal
suolo.
Erano
battaglioni, stretti in modo da intercettare perfino la luce del sole e altri
li seguivano formando, con lo sbattere delle loro alette, un rumore strano che
si sarebbe potuto paragonare al rombo che produce un salto d'acqua.
“Quante
sono?” si chiese Rocco, il quale guardava, con stupore, quelle immense bande
volteggianti sopra la carovana. “E non poterle distruggere! Pare impossibile!”
“E anche
uccidendole crederesti tu che sarebbe evitato ogni pericolo?” disse il
marchese. “Si salverebbero le campagne, ma quante vite umane si spegnerebbero!
Lascia che quelle enormi masse si corrompano sotto questo ardente calore, e si
svilupperebbe presto il colera o la peste.”
“È vero,
marchese,” disse Ben Nartico.
“Molti secoli
or sono, appunto sulle coste dell'Africa settentrionale, un numero sterminato
di cavallette veniva spinto, da un vento furioso, nel Mediterraneo. Le onde però
poco dopo rigettarono alla spiaggia quelle legioni e l'aria si infettò talmente
da sviluppare una tremenda pestilenza.
“Si dice che
morissero ben ottocentomila abitanti, compresi trentamila soldati di
guarnigione nella Numidia.”
“È meglio che
divorino le campagne,” disse Rocco.
“E che noi ce ne andiamo o la carovana di Beramet andrà tanto innanzi
che non potremo più raggiungerla.
“Signori,
salutiamo il deserto!”
Pochi minuti
dopo, uomini e cammelli calpestavano le ardenti sabbie del Sahara, mentre i battaglioni
di locuste continuavano a volare in ranghi sempre più fitti, producendo una
forte corrente d'aria ed un rombo incessante.
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